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Adieu, Madame Thatcher
10 Novembre 2008
 

Parigi, 5 novembre 2008 – È una riscossa che parte da lontano: un vento che soffiava dal 1971 è forse cambiato.

Erano anni confusi e questo signore, allora segretario al tesoro della presidenza Nixon, contribuì all’eliminazione del regime di convertibilità dell’oro segnando la fine di Bretton Woods. Lui, democratico convinto, fu poi nominato da Carter governatore della Fed. E riconfermato nel ruolo da Ronny Reagan.

La prendo alla lontana ma è una frustrazione che si misura con la calma di un’era, la mia.

Da quel momento, infatti, furono per l’appunto due governi Reagan e, in Europa, l’avvento della Lady di Ferro. Con la crisi inesorabile di un modello sociale alternativo, a sinistra, e la destra, in modo insopportabile, a dettare l’agenda politica col sapore di eternità.

La semplificazione è grossa, ma pure il senso di liberazione provato ieri sera.

Era da molto che trattenevo un grido in pancia: sicuro di un trionfo prodiano nel 2006, il risveglio di quella notte elettorale fu drammatico e teso, con la maggioranza appesa alla longevità di Rita Levi Montalcini ed una legislatura da cardiopalma durata il tempo di un'angina. L’anno scorso, ancora, la débâcle democratica e l'ennesimo trionfo della grande S.

E poi quel perenne senso di insoddisfazione per l’amministrazione del mio paesino in mezzo alle Alpi, della mia provincia, della mia regione, del mio stato, del mio continente.

Non rimaneva che un ultimo sassolino da lanciare e l’imprevedibilità di un esito: c’erano speranze da allargare in un ultimo cerchio o, piuttosto, il lento affondare di uno smarrimento.

Così, sarà forse l’esagerazione del racconto, ma ieri sentivo la notte dentro ai pugni e la tensione di una scommessa da giocare fino in fondo. Al bar The Lions, in Rue Montmartre, ci sono arrivato con calma: prima un Woody Allen di quelli d'annata e l’elegia raffinata di Barcellona; poi una passeggiata serena, al freddo di una notte grigia che Parigi regala in quantità.

Dentro Dylan ci aspettava con la sua ragazza: un mazzo di persone spuntava come fiori sulla strada. Vociare, fumo e birra per rilassarsi un po’.

E i primi exit-poll fuorvianti, con percentuali improbabili: Dylan che mi spiega il meccanismo americano che non comprendo molto. Mi piace di lui l’orgoglio con cui rivendica l’efficacia di un sistema o, quanto meno, l’attenzione ai limiti che la stessa democrazia deve porsi perché ci sia vera rappresentanza e stabilità di un governo.

Chi prende il 50% di voti più uno ha diritto a vincere?

Mentre la gente si accalcava sempre più nel bar e l’Indiana ondeggiava con dei jump impossibili, sono sceso al piano di sotto.

Niente politica, per qualche minuto: solo un tavolo da biliardo e qualche chiacchiera tra amici.

Poi di nuovo su. Ordiniamo un hamburger per creare un po’ di ambiance?

Dimenticavo che sono in Francia: la cuisine est fermée, monsieur, je suis vraiment desolé.

Allora via, per le strade deserte. È destino che un kebab senza cipolla mi faccia da compagno in una notte speciale. Quando torno al bar, la tensione non è ancora liberata, ma la promessa d’Ohio è un urlo incontenibile di gioia.

Urlo anch’io, mentre Jennifer in collegamento via ologramma (!!!!) da Chicago sembra Lord Fenner ingentilito.

Mi sento dal lato giusto della forza, inutile dirlo.

C’è sempre più gente intanto, gli amici alla spicciolata cominciano a cedere al sonno mentre un capannello di persone circonda la tv.

È a questo punto che arriva Charlotte: bellissima, mi osserva coi suoi occhioni blu e comincia a parlare tutta simpatica. Sei italiano? E cosa fai qui? Io sono per metà francese; adoro Milano e così e cosà. Mentre penso yes we can, un tipo da dietro irrompe e me la porta via.

Come una stecca da biliardo mi manda in buca mentre il South Dakota si colora di rosso col faccione stupido di McCain.

È un momento: uno di quelli in cui ti senti fuori da te e le voci rimbombano e sei in ritardo. Un tizio prepara il tabacco e mi osserva. Il primo presidente nero della storia ha la tranquillità di una sigaretta da rollare.

Che Paese, l'America.

Ma noi, in fondo? Un ladro è presidente del Consiglio; un massone golpista conduce trasmissioni all’interno del liquame televisivo. E nel piccolo di un paesello alpino, se prendi a calci un ragazzo ti fanno assessore.

I have a nightmare, ma non è tempo di rancore.

Non questa notte. Ho un sasso da tirare in mare. Ho quell’ultimo cerchio da vincere. La Florida è una speranza che sboccia. Urla di gioia, abbracci, qualcuno forse ha rapito la bella Charlotte. E ci può anche stare.

Io me ne torno a casa, nel silenzio di Parigi. Seguo i passi sordi, la notte grigia vicino a Etienne Marcel. Salgo le scale e mi sento leggero. Non ho sonno ma forse sto sognando. Messaggio di Dylan: It's great... almost feels real.

C’è Obama verso le 5 che fa il suo primo discorso da presidente. Un parco felice lo ascolta, gli occhi e il cuore delle persone che ti sembra battere vicino a te. Il mantra del change è una fissazione felice in mezzo alle altre parole.

Si fanno confusi i miei pensieri. Il caldo del piumino mi addormenta: e penso a Lady Thatcher. No such thing as society….

Ma Obama chiude l’uroburo: «non esiste un’aggregazione di individui, esiste un Paese e la sua comunità».

Mi viene la pelle d’oca e voglio che mi resti: mi alzo e chiudo la finestra. Il vento è cambiato e ho proprio voglia di sognare.

 

Luciano Canova


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