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Maria Lanciotti: Vacanze in campagna. Prima Parte
La bambina Maria nel campo di grano
La bambina Maria nel campo di grano 
16 Maggio 2009
 

 

Caro Claudio Di Scalzo,... ti invio alcune foto con il racconto delle vacanze di una volta, quando i bambini andavano a passare l'estate dai parenti in campagna. Il racconto è tratto dal mio libro autobiografico Campo di grano pubblicato nel 2003, con qualche rivisitazione per quanto riguarda la forma. “Campo di Grano” (1948) si trova sulla copertina del libro, foto Orlandi (1953) è citata nel testo. Questo libro è piaciuto per la sua semplicità, circola anche in diverse scuole. (Maria Lanciotti)

 

 

 

Quando la frutta cresceva sugli alberi

e si mangiava con la buccia

 

Finita la scuola, mia madre mi accompagna come ogni anno a Subiaco, per passare le vacanze in campagna dagli zii.

È un viaggio che non finisce mai; un treno, un altro treno e poi l’autobus che come un vermone blu puzzolente si mangia tutte le curve e i dossi. Verso Madonna della Pace, a stomaco svuotato e piena di nausea, mamma comincia a giurare che mai più prenderà quel mezzo tritabudella, mai più in vita sua. Ridotta nel suo stesso stato anch’io al momento mi trovo completamente d’accordo: mai più. Lo diciamo ogni volta. Con l’aiuto di Dio, come dice mamma, finalmente scendiamo alla fermata prima dell’Arco, più morte che vive. Ma alla prima boccata d’aria frizzantina riprendiamo colore. Dal ponticello di San Francesco guardo giù le acque dell’Aniene che scivolano fredde e limpide da Vallepietra e vanno a sfrangiarsi schiumose sul dislivello del fondale, e subito dimentico i patimenti del viaggio.

Zia Palmira, sorella di mamma, ci aspetta alla fermata; ogni volta che la rivedo mi sembra più piccola, ma il suo sorriso non cambia. Prima di tutto vengo fatta salire sulla pesa del Consorzio Agricolo, aj’ammasso; anche i grammi vengono messi in conto, zia si segna il peso su un pezzetto di carta che ripone come una reliquia. Mamma minaccia che se non prendo almeno un paio di chili non mi porta più a Subiaco e zia accetta la sfida, sicura del fatto suo.

Mentre loro si scambiano le notizie di un anno, io ritrovo ogni cosa. Prima di tutto il dialetto, di cui sono invidiosa: il dialetto non s’impara, si apprende nascendo sul posto. Ed io non sono nata a Subiaco, i miei lasciarono il loro paese tra i monti prima che io nascessi e si trasferirono con i miei due fratelli di dieci e sette anni a Ciampino, un paese vicino a Roma che stava appena sorgendo ma dove c’era già un aeroporto e un importante snodo ferroviario.

Ritrovo pietre e fiori, lumache figlie delle lumache che ho salutato l’anno scorso; ritrovo il mulino, il fossato, le farfalle, le filo-filogne e il canto delle cicale. Ritrovo il sapore di quel piccolo fiore azzurro dolce da succhiare e l’aspro delle melucce selvatiche. Chissà se ritroverò quel paio di scarpe vecchie col tacco alto che ho nascosto l'anno scorso, ci giocavo a fare la signora.

La stradicciola di terra disseminata di sassi bianchi è giusta appena per una persona e l’asino con la soma, se due somari si incontrano uno dei due deve arretrare fino al primo slargo e aspettare che l'altro sia passato; sono manovre difficili, specialmente con certe bestie cocciute. Ecco la tenna di Adelina e Antonio, vicini carissimi degli zii. Il figlio grande è emigrato in Australia e fortuna che non ci sono cartine, mappamondi e nemmeno l’idea di distanze così esagerate, così qui nessuno immagina quanto sia lontana l’Australia. Gli altri figli, Gianni e Giulio, hanno qualche anno più di me e non vedo l’ora di rivederli. Di corsa salgo alla loro casa e di corsa ne ridiscendo, a quest’ora non c’è nessuno, sono tutti al lavoro nei campi. La casetta non è bella come la nostra, dal pavimento di assi sale l’odore della stalla e il raglio di Cappuccino, il somaro nero come la notte e cattivo come il fiele. Genitori e figli dormono tutti in una stanza, sui pagliericci di foglie di granturco. In quella stanza c’è anche una cassapanca tarlata piena di giornaletti: Pecos Bill, Tex Willer, Sciuscià, Mandrake, L'uomo mascherato. Giulio ci si perde, fra tutti quegli eroi. Se lo mandano a fare una commissione in paese si riempie le tasche di “strisce” e passa le ore a sfogliarle seduto sulla sponda del fosso, scordandosi quello che deve comprare e anche di tornare a casa. È geloso del suo tesoro, ma se gli gira bene mi permette di rovistare nella cassapanca per scegliere qualcosa da leggere.

Dopo l’ultima svolta ecco la casa, il ponticello di legno, l’aia, lo scalino di marmo lucente, la porta verde accostata. E ritrovo l’odore che non cambia mai, l’odore buono delle cose semplici.

 

Nella grande cucina il camino, il lavandino di peperino, il fornello a carbone, la lunga tavola e le sedie impagliate. Posta un gradino più in basso la sala da pranzo dove però non si pranza mai. Odora di grotta, di mele secche e di prosciutti appesi. Nella credenza tazzine di porcellana, bicchierini col bordo d'oro, bricchi, vassoi e il servizio buono dei piatti. Di sopra ci sono le camere da letto con le finestre che guardano i due fossi, uno davanti e uno dietro la casa, la scala di legno scricchiola ogni anno di più.

Davanti alla casa il chiosco coi rampicanti, il tavolo di marmo e la panca che vi gira tutto attorno. Più avanti il forno il pollaio la stalla il fienile e la cantina ricavata nel tufo.

Anche zia e mamma arrivano, stanno ancora raccontandosi. Zia Palmira grida e in risposta arriva l'di zio Benedetto che subito viene e ci abbraccia, felice: “Cognata mea, bella meluzza de zì Bebetto...”

Poi tutti a tavola, brodo di gallina con i quadrucci, frittelle di fiori di zucca, prosciutto…

E Ninnacchio?” chiedo allarmata, ma mi dicono che il maialino è sempre vivo e intento a ingrassare. Non chiedo altro e mi gusto il prosciutto, il filo di grasso si scioglie in bocca come crema.

Nonno Gigi è il padre di zio Benedetto, non è proprio mio nonno ma lo chiamo nonno lo stesso. I miei non li ho più, nonno Agostino e nonno Giacamuccio li conosco per le fotografie che stanno sulle loro tombe, quasi ogni giorno gli portiamo un fiore raccolto per la via, il camposanto è di strada quando si va in campagna. Nonno Gigi ha la pelle rosea di un neonato, mangia sale grosso a puiji, lo manda giù con due o tre soreji d’acqua, poi si sciacqua la bocca con un bel bicchiere di rosatello.

Nonna Maria abita a Piazza Palma ma ogni mattina a buonora viene a Riarco, per dividere il lavoro con gli altri. Dal guarnello di nonna Maria esce di tutto: mele secche ficorelle nocchie noci pezzi di pane bianco e di pizza gialla. Nonna odora di anice e di finocchiella selvatica.

Finito di mangiare corro al fosso dietro la casa, e saltellando sulle pietre sporgenti dall'acqua, attenta a non scivolare, m’incanto a guardare le pozze nere di girini, la vegetazione aggrovigliata che si arrampica lungo la scarpata, fino alla parete brufolosa della casa. Poi corro al fosso davanti a casa, la poca acqua passa sotto il ponticello, continua il suo cammino e più avanti si unisce agli altri ruscelli.

A sera zio suona la fisarmonica e zia Palmira canta le stornellate. E io, alla fine del giorno di festosa accoglienza, mi domando e dico che altro ci può essere di meglio al mondo.

I miei zii non hanno figli propri, per loro siamo tutti figli, noi nipoti. Della famiglia fanno parte Frizzetto e Gigetto, cane e gatto, la mucca Stellina, la somara Rosinella e quel certo Ninnacchio che non invecchia mai, tutti gli animali sono chiamati per nome e trattati con affetto.

Dopo cena arriva Adelina con la famiglia, per salutarci. E mentre il marito Antonio detto Pellacchio discorre con nonna Maria detta Peruzza e con nonno Gigi detto Mezzoprete, noi ragazzi ci osserviamo un po’ confusi; non siamo più gli stessi dell’anno scorso, siamo molto cambiati. Gianni, il più grande, è un bel giovanetto con gli stessi tratti delicati della madre, Giulio si è fatto alto e robusto. La sua voglia di stuzzicarmi, però, è sempre la stessa: “Io dico nomi di città e tu li ripeti. Così: se dico Firenze tu dici – mamma Firenze sono io –, capito?” “Capito”.

Roma”

Mamma Roma sono io”

Napoli”

Mamma Napoli sono io”

Milano”

Mamma Milano sono io”

Lucca”

Mammalucca sono io”. E dopo essermi data da sola della mammalucca rincorro Giulio fingendo di essere arrabbiata, mentre i grandi ridono a crepapelle. Si ride per un niente, qui a Riarco.

Domani mamma riparte, alla stazione dell'autobus zia come sempre le dirà di stare tranquilla, per me. Poi sventolerà il fazzoletto fin quando l’auto sparirà alla prima svolta.

 

 

Vita di campagna

 

Dopo il giorno di festa si torna alla fatica quotidiana. La vita di campagna m’insegna quanto il contadino sia tenace e abituato al sacrificio.

Quando il canto del gallo mi sveglia scendo in cucina e trovo il latte appena munto a bollire sul fornello a carbone. Zia con la punta del cucchiaio trattiene la panna spessa un dito, mentre lo versa nel tazzone pieno di pane a pezzi. Sapone e asciugamano e scendo a lavarmi al fosso, l'acqua gelata striglia la pelle e la mente. Quando risalgo, il sole spunta dalla collina e rapido dipinge il mondo di rosa.

Ramazzo l'aia con la scopa di pungitopo, il mio primo compito e forse anche l’unico quando si resta a lavorare a Riarco o quando zia fa il pane. Invece, quando si vanno a lavorare i terreni alle Cone o in qualche altro appezzamento, si parte presto, col somarello carico sia all’andata che al ritorno.

Per andare alle Cone invece della mulattiera prendiamo la scorciatoia. Rosinella si arrampica sui tufi graffiando la roccia con gli zoccoli ferrati, in salita mi attacco alla sua coda e in pianura zia mi issa sul basto. Mi sento allora corsara della montagna in groppa al mio focoso destriero. Il povero animale è tormentato dai tafani, cerca di difendersi in tutti i modi ma quelli le vogliono mangiare anche gli occhi, e a me ne viene rabbia e pena. Con una frusta di salice imperverso su Rosinella e chissà chi la tormenta di più, se io o i tafani.

Arrivati alle Cone saluto il malvone rosa. Lo trovo sempre in fiore e m’ immagino che sia fiorito tutto l’anno. Saluto anche i girasoli, che mi ridono in faccia.

D'estate in campagna non c'è un attimo di riposo, salvo la domenica.

 

Maria Lanciotti

 

 

...continua


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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