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Piero Cappelli: La coscienza dell’occidente e le chiese nel XXI secolo post-cristiano 
Analisi critica e proposta etico-culturale nella società della comunicazione
17 Agosto 2008
 

1. Introduzione - La religione e le chiese nella società postmoderna della comunicazione

 

Post-modernità e società della comunicazione sono divenuti i termini più riproposti di un dibattito decisamente tipico di questo nostro tempo specialmente dopo il dramma dell’11 settembre 2001.

I sociologi tendono a definire la modernità come quella civiltà inaugurata alla fine del XVIII secolo da due eventi sociali di primaria importanza: la rivoluzione industriale e la rivoluzione democratica. Questi drammatici mutamenti istituzionali produssero e fecero progredire una nuova cultura. La rivoluzione industriale creò grande ricchezza, accrebbe enormemente l’impatto del capitalismo sulla società e generò due nuove classi sociali: i proprietari delle industrie e la classe lavoratrice. Essa, inoltre, creò la metropoli moderna, promosse sviluppo scientifico e tecnologico e generò l’aspettativa di un progresso illimitato. Anche la rivoluzione democratica, indipendente dall’industrializzazione, eppure ad essa collegata, ebbe un enorme impatto sociale. Respinse le gerarchie tradizionali, promosse gli ideali di libertà e d’uguaglianza e generò fra la borghesia e in mezzo al popolo il desiderio della partecipazione alla soggettività politica. Però le due rivoluzioni mutuarono le proprie idee da quelle del pensiero illuminista e cioè il rifiuto dei valori e delle istituzioni tradizionali considerando la ragione come l’organo di autodeliberazione umana. Oggi, come oggi, possiamo parlare di una grande rivoluzione, quella della comunicazione, che si manifesta a più livelli ma che su due strade sta prendendo consistenza cruciale: quella informatico-informativa e quella economico-globalizzante. Però, mentre gli Stati Uniti d’America sembrano aver già collaudato il loro modo di vita alla luce di questa nuovo contesto – seppur con una crisi d’identità sociale ed economica -, l’Europa ci sta arrivando solo ora dopo che la stabilità del nostro continente, situato da 50 anni tra i due poli di potenza del mondo, si è dissolto in pochi mesi. L’abbattimento del muro di Berlino, la riunificazione della Germania, il crollo dei regimi comunisti, la riforma dell’Urss, hanno d’improvviso dato un altro volto al vecchio continente. Dopo le ore di entusiasmo e di gioia che hanno seguito questi avvenimenti, è venuto il momento di trovare i nuovi equilibri. E l’Europa del secondo Millennio non sarà neanche quella che avevano previsto i paesi della CEE specialmente oggi nella prospettiva dell’allargamento futuro. Negli ultimi decenni la società capitalistica occidentale europea ha assistito a così tanti cambiamenti che alcuni sociologi si sono chiesti se la realtà sociale continui a rientrare nelle categorie della modernità.

In questa Europa in mutazione la religione e le chiese come raccolgono la sfida di questi profondi mutamenti?

In tutto ciò che si muove si cerca un avvenire in Europa. Nelle crisi che scuotono le società, le religioni e le chiese sono spesso sorprese in flagrante delitto di essere, prioritariamente, preoccupate di se stesse, del loro posto e della loro influenza nella società, per non dire a volte dei loro vantaggi e privilegi. Esse debbono rinunciare alla pretesa di possedere in partenza le risposte pronte a tutti gli interrogativi che si pongono gli esseri umani nel mondo moderno. Ed anche alla pretesa di imporre soluzioni che non siano del tutto disinteressate. La sfida lanciata dalla maggior parte dei paesi europei alle religioni e alle chiese è di assumere una vera laicità. Invece di deplorare la secolarizzazione crescente nella società, le religioni e le chiese dovrebbero riconoscervi un esito normale e un appello a situarsi in un atteggiamento originale. Ciò implica una costante conversione, una spoliazione di potere che solo a queste condizioni le religioni e le chiese potranno dire ancora una parola profetica nel mondo attuale della società della comunicazione. E solo divenendo non più compromesse con alcun potere potranno avere la libertà di rischiare una parola coraggiosa sulle questioni dell’esistenza umana e delle loro società. Purtroppo le chiese cercano sempre più ‘potenza umana’. E la secolarizzazione non è più vista come un pericolo ma come una sfida che affrontano sempre più con le armi potenti di questo mondo, in nome di Dio. Ma dove la secolarizzazione veste i panni del laicismo allora si invoca il segno cristiano del riscatto e dell’opportunità.

E se oggi le chiese cristiane, ma soprattutto la cattolica, si rallegrano dell’affermazione dei regimi democratici, specialmente nell’Est europeo, e la fine del dominio dei partiti-stato è salutata come un vero progresso, queste però continuano per lo più a funzionare secondo un regime monarchico-piramidale. Dove le decisioni sono sempre prese al vertice, i poteri sono ancora assai centralizzati, la scelta dei responsabili è concepita come competenza esclusiva del principe e dove il controllo sul pensiero, sulla morale e sulle pratiche è permanente. Fino a quando dureranno questi anacronismi nelle chiese e nelle religioni?

Ciò che viene dichiarato positivo per le società civili deve esserlo anche per le chiese e le religioni. Da alcuni anni a questa parte specialmente i cristiani si sono finalmente abituati a considerare la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” come base dei regimi politico-sociali dominanti in Europa, come un progresso, come un vantaggio per gli uomini. Però non è sempre stato così. E dalla loro condanna da parte di Pio VI al tempo della Rivoluzione francese, i diritti dell’uomo, come del resto i “Lumi”, sono stati comunemente rifiutati e disprezzati dalle chiese. È certo che oggi la loro approvazione e difesa costituiscono dunque un sicuro progresso, ma costituiscono anche una sfida, in quanto non è detto che tali diritti siano rispettati dalle chiese e dalle religioni stesse. E se le chiese possono sembrare un mondo ambiguo tra futuro e conservazione, occorre che la condizione prioritaria per il loro rinnovamento sia la realizzazione di una vera comunicazione tra le chiese e le religioni al fine di conoscere e radicarsi sempre più alla costruzione dell’avvenire degli esseri umani.

 

«Esattamente che cosa morirà e che cosa sussisterà della civiltà attuale? In quali condizioni, in quale senso la storia si svolgerà in seguito? Questi quesiti sono insolubili. Ciò che noi sappiamo sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire. La civiltà attuale, della quale i nostri discendenti raccoglieranno sicuramente in eredità almeno dei frammenti, contiene, lo avvertiamo fin troppo, quanto basta per schiacciare l’uomo; ma contiene anche, almeno in germe, qualcosa che può liberarlo».(1)

 

 

2. Europa e cristianesimo in divenire

 

Ma per ben comprendere il rapporto tra religione e chiese cristiane in Europa occidentale bisogna recuperare il legame storico-culturale che unisce e scandisce questa realtà in divenire. Il discorso cristiano e la cultura laica si sono a lungo configurati come orizzonti alternativi.

Ma come abbiamo visto prima la situazione di entrambi è così complessa ed intersecata che è lungi dall’essere risolta. Ambedue gli stili, benché profondamente mutati, fanno parte dello stesso scenario di crisi. E basta notare come la somiglianza tra i due linguaggi di giustificazione teoretica dei due universi culturali, l’ideologia e la teologia, sono proprio nel pieno della loro crisi di significato.

L’ideologia e la teologia sono come scomparse dal background culturale anche se la loro sostanza si è fatta riespressione paradigmatica della nostra nuova società della comunicazione.

Infatti si sono dissolte in tecniche particolari che di per sé non supportano nessuna ambizione globale ma di fatto sostanziano una prassi di potere reale. Ogni linguaggio sa oggi di essere particolare e determinato e di non poter più fornire una mappa dell’universo, un repertorio di soluzioni, ma solo un’espressione idiomatica della comunicazione socio-tecno-culturale. Le argomentazioni laiche non sono, come pensavano gli illuministi evidenze naturali ma parte della stessa storia cristiana d’Occidente.

Quando con il II millennio cristiano nasce un cristianesimo occidentale si formano le matrici, le forme paradigmatiche della cultura che sarà poi laica e secolare. Il linguaggio cristiano è incorporato e sciolto nel linguaggio laico. Quando la cultura dell’Occidente raggiunge nel nostro secolo il suo giudizio, la sua crisi e quindi il suo tramonto, le matrici cristiane compaiono in primo piano. In realtà la grande crisi dell’Occidente è la grande crisi del cristianesimo come esso si è realizzato in questa sua formulazione culturale. Se si accetta che il cristianesimo sia posto in crisi, giudicato dalla crisi dell’occidente, vale anche dire se esso sia con essa esaurito e se cioè l’Occidente sia l’ultima e quindi l’unica parola del cristianesimo. Ecco perché cristianesimo ed Occidente appaiono ancora una volta come realtà incrociate, o meglio, come la stessa storia. E proprio al di fuori della sua sistematizzazione teologica, cioè della sua definizione di linguaggio, le parole cristiane sono così intrinseche alla cultura occidentale che esse possono essere usate in un linguaggio comune.

Oggi sembra che con Maastricht e con l’Euro l’Europa abbia riacquistato una sua ragione esistenziale o meglio il senso del suo essere e del suo divenire. Ma è proprio così? Sembra più che altro una partenza economica per ritrovare in questa poi il senso del suo esistere, come a voler nascondere la perdita d’identità della sua cultura europea: è in grado l’Europa, e cioè la nostra cultura europea di noi europei di offrire prospettive significative a noi stessi dopo essere stati per secoli il faro di riferimento del mondo intero? Per dare una risposta a questo occorre guardare ancora in profondità. Lo stretto legame tra cultura occidentale e cristianesimo è paradossale. Da una parte il cristianesimo si è realizzato nella cultura occidentale svuotandosi di escatologia. Praticamente ha colmato il vuoto lasciato dalla civiltà pagana da diventare esso stesso civiltà. Il cristianesimo, essendosi trovato di fronte al crollo della cultura e della barbarie germanica ha svolto il suo compito di preservazione della tradizione greco-latina e delle sue istituzioni ridefinite dal paganesimo, facendo della sua dimensione sociale, le Chiese, la nuova mater institutionis. Il cristianesimo sorto come annuncio escatologico in un mondo ad alta civiltà si è trovato di fronte al crollo di questo e ha trasformato se stesso nell’atto di ricostruirlo. L’annuncio cristiano, sorto come l’Annuncio per antonomasia, cioè la fine del tempo storico, ha iniziato un nuovo ciclo di storia. Di fronte a tale modello e alla sua forza escatologica stava una grande cultura, la maggiore, come la già pienezza dei tempi dell’umanità. E tale modello fu vissuto dagli uomini che lo recepivano come un messaggio da introiettare in un universo di cui si sentivano la qualità umana unica e definitiva. È qui che la pianta cristiana vi si è potuto innestare ed adattare. Ciò è avvenuto sino ad oggi, con un’umanità così mutata che è stato proprio questo adattamento subìto dal modello cristiano alla cultura greco-latina ad essere rigettato.

Oggi la Chiesa cattolica Romana stabilisce un minimum etico-religioso per tutti i fedeli e cioè l’obbedienza all’autorità ecclesiastica. Quindi la disobbedienza alla Chiesa nell’ordine politico è colpita con forme di pena (interdetto e scomunica i cui molti casi, da Kung fino a Balasuriya e Sobrino, sono emblematici...) considerati addirittura più gravi dello stesso peccato mortale che tocca abitualmente solo la sfera dell’etica individuale. Per cui ciò che investe formalmente la sfera ecclesiastica è sanzionato di più di quello che riguarda la vita etico-morale delle persona.

E allora occorre domandarci: ma quale coscienza occidentale è riuscita a costruire nei secoli la morale cristiana, sia cattolica che protestante, fino all’Europa dei nostri giorni?

L’individuo europeo, quale patrimonio si è visto inculcare e tramandare attraverso gli ingranaggi di una societas cristiana all’insegna della quale la catechizzazione socialis è stato il mezzo dottrinale-ideologico dell’influsso psicologico attraverso la comunitas?

L’Occidente è dunque educato a partire da una concentrazione istituzionale della vita religiosa, culturale e civile attorno alla Chiesa cattolica Romana in nome e in ragione di quell’immortalità alla quale promette di far accedere oggi qui per l’al di là. In realtà la storia dell’Occidente è la storia della graduale uscita dalla civiltà fondata sulla dannazione, cioè una graduale liberazione dell’inferno. Il paradosso di tutto questo è che tale liberazione è avvenuta per una ricerca di una libertà dell’uomo, di una pienezza della persona umana che è infine la sostanza del cristianesimo assorbita oltre i limiti della cultura dell’inferno, dai popoli della cristianità. Se veramente dobbiamo cercare una traccia storica del Vangelo dobbiamo cercarla fuori dalle Chiese; non perché queste non abbiano conosciuto dei veri cristiani, tutt’altro. Ma perché esse non hanno mai potuto e mai saputo riconoscersi come figure profetico-escatologiche della storia e quindi coinvolte interamente nella trasformazione di tutto l’uomo nella sua realtà ultima di immagine di Dio. È proprio in questo che hanno rinunciato a fare storia come del resto oggi la teologia sta rinunciando a parlare dell’uomo nelle sue dimensioni mistico-spirituale e religioso-esistenziale. La storia delle cristianità europee si chiude con le tristi pagine delle guerre di religione. Dopo, le chiese divengono in misura sempre maggiore o minore marginali, perdono potenza storica. E cercano di imporsi culturalmente come supplenza al potere spirituale che gli è venuto sempre meno a causa di una gestione sacralizzante (struttura e legittimazione) da una parte, e paganeggiante (governo ed economia) dall’altra…

 

«Come evitare oggi, dopo una così radicale trasformazione degli orizzonti della nostra coscienza, di domandarci se le sorti di questa fede, radicata in un Evento che è di per sé un giudizio di condanna sulla storia, siano indissolubilmente legate alle sorti di questa ‘isola di storia’ che, tutto sommato, è l’Occidente? La risposta potrebbe nascondersi nella natura stessa di questa fede che integra in sé il fallimento come proprio modo di essere nel mondo...»(2) 

 

 

Ed è proprio per questo che a partire del XVIII secolo cade la cultura dell’inferno. Ora la cultura dell’inferno giace a terra e l’autorità della Chiesa cattolica, che ha avuto forza pubblica e sociale in ragione di essa, non esiste più come tale e sembra trasformata in un grande apparato a funzione politico-sociale. Ora che la grande lotta dell’Occidente contro la cultura dell’inferno è finita, appare piuttosto chiaro che il cristianesimo come tale non è la cultura dell’inferno. Ciò che nel cristianesimo non è cultura dell’inferno è entrato nell’esistenza di ogni persona nelle terre che furono cristiane e rifiorisce nella cultura di un’umanità comune. Ma il punto drammatico è che le Chiese cristiane, che dovrebbero essere il luogo della Parola, rimangono il luogo dell’evasione, della futilità sacra. Sembra strano ad esempio che mentre l’ingiustizia, la violenza, la guerra dividono il mondo i maggiori problemi della Chiesa cattolica riguardino in fin dei conti il celibato ecclesiastico, l’aumento delle vocazioni, i mezzi contraccettivi, le legislazioni civili su divorzio e aborto, l’omosessualità, il finanziamento delle scuole cattoliche e così via. Eppure, qualcuno potrebbe dire che il papa lavora e annuncia per la pace e l’umanità tutti i giorni. Ma non sta qui nel dire e nel viaggiare, ma nel saper rendere pace e amore al mondo proprio attraverso la vivibilità del quotidiano in una prospettica etica anche dentro la Chiesa cattolica: ormai l’immagine non tiene più se non con atti estremi di impatto mondiale, il resto fa’ parte di una strategia un po’ consunta, ma non della profezia…

La crisi del cristianesimo è assunto qui come vero ‘giudizio’ sul cristianesimo storico: un cristianesimo puramente religioso, semplice funzione di un’istituzione stabilita, di devozioni acquisite, di riti fissati, privo di incidenza sulla prassi e sulla storia; cioè un post-cristianesimo non religioso che esprime temi e valori cristiani in forma puramente secolare senza sfuggire anch’esso alla potenza della concentrazione istituzionale. L’Occidente si divide tra una religione e un ateismo entrambe statici. L’elemento proprio del cristianesimo, sia cattolico che evangelico, cioè la trasformazione della condizione umana nella prospettiva escatologica, e quindi la storia come storia della salvezza e la salvezza come salvezza della storia, questo elemento originario sembra andato perduto. Prendendo il ‘cristianesimo’ come visione del mondo significa esprimere l’idea dell’esistenza di una comunità umana. Una comunità che è intesa in modi storicamente diversi a partire dalla Riforma protestante che ha formalizzato la divisione della comunità cristiana e dell’Europa. L’illuminismo, il razionalismo, il movimento operaio, il comunismo ampliano questa scissione creando sempre nuove comunità che mantengono l’idea del cambiamento radicale della condizione umana intendendola in forma crescente non religiosa ma politica. La divisione ecclesiastica tra l’Oriente e l’Occidente cristiano è stato ed è anche oggi per certi aspetti prettamente religiosi, la differenza tra mondo capitalista e mondo ‘comunista’ nonostante la caduta del Muro e delle Twin tour: i due bastioni simbolici di due mondi in ricerca di una nuova identità.

Le origini cristiane dell’uno come dell’altro mondo sono tangibili. Il mondo occidentale suppone la lettura protestante e illuministica del cristianesimo come universo della libertà individuale; il mondo comunista supponeva la grande riforma hegeliana del cristianesimo che esprime la storia come totalità sacra, entro cui soltanto l’individuo riceve significanza. Il cambiamento storico cristiano è nell’Occidente la libertà individuale, nell’universo comunista era l’universalità salvifica. Nell’Occidente ognuno è il tutto, nell’Oriente il tutto è ciascuno. Ci troviamo così di fronte a due letture originarie, a due letture normative della stessa Scrittura, a due definizioni di Chiesa. Il mondo secolarizzato realizza il cristianesimo e lo realizza spaccandolo. Il cristianesimo si realizza e diviene cultura e terra umana, storia, modo di vivere e di pensare, modo di organizzazione e di comportamento. E nel modo stesso in cui si realizza si perde. E si perde anche nell’esistenza ecclesiastica che diviene la parola vuota, la non realtà del cristianesimo.

Cosa dire di fronte al grande motto evangelico «perdersi per ritrovarsi»? E fin dove e fino a quando la mia identità di Chiesa, di credente, di donna e di uomo deve struggersi nella contaminazione socio-politico-religiosa tanto da potermi riacquistare più e meglio di quello che pria? Il luogo pio è divenuto un luogo vuoto di storia. Ancora una volta si è scisso il velo del tempio, la chiesa non è più nelle chiese. Esse ne conservano il segno, il sacramentum, ma la vita è là dov’è la storia umana. Il cristianesimo è trapassato nella storia, le chiese sono il gavitello che segna il luogo dell’immersione. Le chiese non possono parlare altro linguaggio spirituale se non quello storico ma se lo fanno rischiano, come il papa di Roma, di contraddirsi e annullarsi nello scontro tra quanto annunciato per il mondo e quanto voluto per la chiesa.

 

«La catena delle contraddizioni non vuole dunque finire:

- continui discorsi sui diritti umani, ma nessun esercizio della giustizia nei confronti dei teologi e delle religiose che hanno visioni diverse da quella curiale...e quali diritti umani dentro la Chiesa?

- violenti proteste contro la discriminazione nella società: ma discriminazione delle donne, dell’omosessualità del dissenso dentro la chiesa;

- tante parole sull’amore, sul perdono e sulla misericordia, ma nessuna misericordia e nessun

perdono nei confronti dei divorziati, dei sacerdoti sposati, dei movimenti dissenzienti...»(3) 

 

 

Infatti il mondo ecclesiale non può essere oggi né quello prevalentemente dogmatico né quello istituzionale. L’obiettività ecclesiastica si riduce sempre di più al culto e la teologia appare come la semplice custode dell’immediata intelligibilità delle formule così come l’autorità istituzionale regola il processo di formulazione cultuale. Di là dal culto la chiesa non sembra più capace di elaborare criteri del vivere e l’unico messaggio che essa lancia alla vita come propria figura specifica è appunto la partecipazione al culto come riscatto dalla mondanità del tempo e dello spazio. E, d’altro canto, se si guarda la storia del mondo post-cristiano, come quello attuale, si nota come l’assenza del cristianesimo non sia colmata e che ciò che l’ha costituita, (come il razionalismo, l’illuminismo, il marxismo, lo scientismo ecc.), è travolto dalla stessa crisi del cristianesimo. Nel suo esistere inafferrabile all’esperienza e alla ragione, il cristianesimo trova il suo proprio stato nel mondo che viene dopo il fallimento della ragione stessa: quella ragione che esso aveva innalzato sopra il mondo.

E mai, oggi come oggi, si potrà dire che niente in Occidente è più legittimato delle chiese. Ma se si guarda alla legittimazione, si vede che le chiese vengono accettate nelle società borghesi e capitaliste solo appunto come mezzo per evitare la concentrazione della tensione politica, offrendo fini alternativi ad essa: il ruolo e l’appello politico delle chiese va a sostituirsi, o meglio a trasformarsi, a quello evangelico. Le chiese hanno sempre svolto una funzione ideologica cioè hanno sempre agito direttamente o indirettamente sul potere e sull’ordinamento della società. Le chiese oggi sono motivate a livello di massa solo perché hanno in sé la sicurezza dell’istituzione e come tale è il fondamento di una terza via tra il materiale pratico dell’Occidente e il materialismo teorico dell’Oriente. È delle chiese che le chiese sono ridotte a parlare. E lo è perché è più facile per le chiese interpretare questa crisi del nostro tempo come una crisi antropologica, come una crisi dell’uomo, anziché come una crisi teologica, come una crisi dell’immagine di Dio nell’umanità: quale può essere oggi il volto di Dio in un contesto culturale di assenza di Dio? Se interpretassero così la crisi le Chiese d’Occidente metterebbero in primo luogo in contraddizione se stesse e la loro esistenza. Ma non è questa l’esistenza che le chiese vogliono porre in crisi, al contrario. La vogliono rafforzare e renderla egemonica. Così, però, esse si secolarizzano intimamente, divenendo semplice ideologia. Perdono la loro funzione che è quella di leggere i segni profetici della presenza di Dio nella storia. Praticamente le chiese rischiano di scambiare l’assenza di Dio per la sua Presenza e la Presenza per l’assenza. Per questa strada troppo facile del mero consolidamento dell’istituzione si gioca la perdita dell’identità delle chiese, la vera ‘autodistruzione’. Volendo conservare la propria identità storica esse perdono la propria esistenza spirituale. Lo svolgimento della storia è tale che all’istituzione ecclesiastica, gli stati e le nazioni, offrono la possibilità di esistere come istituzione grazie alla solidarietà di tutte le altre istituzioni, come del resto avviene oggi. Quindi nel momento in cui le chiese divengano sempre più puramente istituzioni politiche, cessano di essere autenticamente chiese. Leggere a questo punto la crisi del mondo post-cristiano come crisi del cristianesimo significa leggerla come crisi della figura di Dio che è stata assunta dalla cristianità.

L’autore più emblematico della crisi della civiltà post-cristiana è Nietzsche per il quale tale crisi è proprio la “morte di Dio” e, soprattutto, il rifiuto della coscienza di questa morte. L’acutezza della critica nietzschiana sta in questo: nell’insostenibilità della collocazione del dolore tutto dalla parte dell’uomo e nell’incapacità della figura tradizionale di Dio espressa nella teologia cristiana delle chiese a reggere il soffrire. Un dio dunque certamente morto. In questo Nietzsche è stato un vero profeta. La crisi del cristianesimo è la crisi di un’immagine cristiana di Dio quella che si è realizzata nella storia della cristianità. I credenti possono pensare di sostituirla con la loro immagine di Chiesa. Ma è solo un surrogato, un clamore che vela un’assenza o forse la rende soltanto più manifesta nel suo vuoto. Può sembrare paradossale ma l’annuncio che il credente dovrebbe dare è che il Dio della cristianità è morto e insieme il Cristo è risorto. Ed è proprio questa sua doppia fedeltà all’uomo e a Dio a saper annunciare ad un tempo questa morte e questa resurrezione. Dio ha vissuto nella morte della cristianità il mistero della sua discesa agli inferi e le chiese l’hanno vissuta e la stanno vivendo in Lui.

 

«...la nostra chiesa che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, quasi essa fosse il suo proprio fine, è incapace di farsi portatrice della parola riconciliatrice e redentrice per gli uomini e per il mondo. Ed è per questo che le parole antiche devono svigorirsi e ammutolire».(4) 

 

 

Quindi noi oggi viviamo in questa transizione post-cristiana in cui da un lato cresce nell’umanità la domanda del divino, dall’altro diminuisce o diviene ambigua la risposta delle Chiese, incapaci di parlare altro che di se stesse, in un momento in cui la parola confessante è come svuotata dal mistero che professa.

 

 

3. Uno spaccato socio-politico-religioso dell’Europa

 

Qual è la religione degli europei ?

Uno degli aspetti chiari che si assomigliano tra tutti i Paesi europei riguarda le trasformazioni delle credenze e delle esperienze religiose. Alcuni dati finora esperiti dal contesto sociale indicano prima di tutto che il carattere della credenza religiosa appare in mutamento sotto certi aspetti e, in secondo luogo, che l’articolazione tra il credere ed altre forme di attività religiosa sta anch’essa subendo un cambiamento radicale. In pratica l’adesione alle dottrine fondamentali della fede cristiana si mantiene significativamente elevata che in alcuni altri aspetti della religione e queste credenze di base tendono a persistere su uno sfondo di sconvolgimento piuttosto drastico nelle modalità di pratica e devozione.

Gli studi sociologici della religione in Europa hanno fino ad oggi avuto la tendenza a inquadrarsi in uno o entrambi di due contesti: uno è la secolarizzazione come chiave per comprendere il cambiamento religioso, l’altro considera la privatizzazione della religione come la lettura più consona della realtà contemporanea. Però questi due quadri interpretativi, oggi come oggi, non sembrano essere più totalmente soddisfacenti. In primo luogo ciò contribuisce a mettere in evidenza il fatto che, anche se il cambiamento religioso manifesta le sue proprie particolarità, esso si inserisce nella dinamica dei cambiamenti e trasformazioni più ampi che toccano i fenomeni non religiosi, oltre a quelli religiosi. Come dicevamo prima nel rapporto tra occidente e cristianesimo. Anche se le religioni e le chiese tradizionali cristiane dell’Europa non subiscono una riduzione drastica nel campo della partecipazione fideistica, il declino di queste non significa la fine della fede o meglio della religiosità. Tutti gli specialisti concordano su questo punto ma si dividono sulle ragioni di questo calo vertiginoso, pur ammettendone il carattere di eccezionalità. Mai, finora si era potuto osservare un simile crollo in un lasso di tempo così breve. In altri termini la memoria religiosa trasmessa in eredità da una generazione all’altra sta diventando sempre più tenue. Ciò spiega il costante aumento di quanti si dichiarano «senza religione». Perché se la pratica religiosa si trasmette pur sgretolandosi, la mancanza di fede invece si trasmette in modo stabile. Perciò il fenomeno dell’«uscita dalla religione» è destinato ad affermarsi ineluttabilmente. E due sono gli elementi che caratterizzano questo calo delle religioni tradizionali. Da un lato questo avviene senza chiasso e senza passione con un disinteresse tranquillo e ciò segna la rottura rispetto ad un recente passato. È questo quello che chiamo lo Scisma silenzioso, praticamente una lenta ma costante divaricazione e separazione tra il popolo dei fedeli e le istituzioni-Chiese, specialmente quella cattolica.(5) Ed anche nel nostro Paese «la spaccatura tra il vertice e la base, anche se in Italia non si esprime in movimenti di protesta come succede a volte all’estero, è comunque un fenomeno di rilievo all’interno della chiesa cattolica, che merita di essere studiato approfonditamente. Il processo che abbiamo chiamato di “personalizzazione” e di “soggettivazione” sembra essere la causa principale di questa divaricazione».(6)

 

 

In altri tempi dirsi non credente significava professarsi ateo e spesso antireligioso. Oggi non si usa più. Relativismo e indifferenza fanno sì che l’anticlericalismo non sia veramente più di moda. D’altro lato però i grandi interrogativi filosofico-esistenziali sul senso della vita si ripropongono con forza dopo la duplice perdita di credibilità delle religioni storiche e delle ideologie politiche e scientiste, uscite dal mito moderno del progresso che aveva preso il loro posto. Si assiste infatti, come dicevamo nel paragrafo precedente, con ritmo crescente da una trentina d’anni, non più soltanto ad una crisi delle istituzioni religiose e delle chiese, ma ad una crisi generale di tutte le istituzioni, la quale si accompagna ad una rimessa in causa di ogni forma dogmatica di autorità. In altre parole il fenomeno cui assistiamo oggi non è soltanto quello di una crisi della religione, ma di una crisi che investe tutti i sistemi di ortodossia e quindi la loro credibilità. E in questa deregulation del ‘mercato dei beni di salvezza’ anche le Chiese cristiane risentono notevolmente di questa crisi. Così abbiamo chi sceglie la reincarnazione come risposta alla morte e alternativa alla resurrezione, chi crede agli angeli per sopperire ad una deficienza di fiducia nel prossimo, chi invece rifiuta di credere nell’inferno perché la storia dell’Olocausto, della guerra nucleare e dei disastri ecologici gli hanno già fatto toccare con mano che il ‘vero’ inferno è già quì nel mondo. Anche la telepatia, i sogni premonitori e l’astrologia hanno un loro posto nel mondo del religioso perché sempre più le fedi parallele si mescolano con quelle cristiane e soprattutto presso i giovani, compreso i praticanti. E nuovi sincretismi etno-socio-culturali-religiosi prendono piede con progetti di businnes economico.

Non importa che il soprannaturale prenda il posto del divino, non importa la coerenza e il dio a cui ci si affida. Ciò che ciascuno cerca è ciò che gli fa bene. Secondo Jacques Maitre nemmeno la preghiera sfugge a questa tendenza in quanto questa viene vista come un tonico della vita, che aiuta a vivere e quindi il suo effetto diventa così il motivo stesso della preghiera. Anche con l’aiuto della psicanalisi le persone vengono alleggerite e forse liberate dalla nozione scomoda di colpevolezza di quel senso di colpa che per troppo tempo ha caricato le spalle dell’umanità sotto la minaccia della condanna eterna. Ora, sotto la spinta di questa ragione divenuta anch’essa più ragionevole e di una religione divenuta essa stessa meno religiosa, gli individui si dirigono verso una forma di sincretismo metafisico che non si sa bene a cosa porterà. Non è un caso che la New Age continui ad ottenere in Europa un successo crescente e sotto forme molto diverse. Questo movimento emerso negli anni ’60 in California integra alla rinfusa simboli ed elementi di fede prelevati dalle religioni tradizionali per fabbricare una specie di religione “razio-spirituale” svincolata da ogni tipo di dogmatismo. Anche il Buddismo, con le sue varie tipologie e manifestazioni occidentalizzate, ha riscosso una vera e propria popolarità tra la gioventù della nostra Europa. Si tratta di una religione moderna per eccellenza: individualista, non dogmatica, a vocazione etica, che collega il corpo con lo spirito. Praticamente il neo-buddismo promette bene in una società come quella occidentale perché non propone una salvezza elargita da un dio esterno come il cristianesimo, ma propone un metodo pragmatico che solo attraverso la volontà personale di ciascuno, anche nella riscoperta dello stare insieme come gruppo, ti può aiutare a liberare dal dolore e dalla sofferenza e raggiungere così la felicità in questo mondo. In sintesi un “paradiso autodafé” da costruire con le tue mani e la tua volontà, qui ed ora. Senza contare il penetrare, lento ma inesorabile, dell’islamismo (anche per o al di là dei conflitti tra ‘occidentali cristiani’ e ‘arabi islamici’…) attraverso la presenza e l’incidenza di immigrati extracomunitari che giungono nel nostro paese e negli altri paesi dell’Europa occidentale: a Roma, un minareto di grandi proporzioni insidia la cupola di san Pietro. È solo una sfida immaginifico-simbolica in questo tempo di grandi contrasti tra occidente ed Islam, oppure è il ritorno di una contro-colonizzazione in termini prettamente socio-culturali-religiosi? Come si svilupperà questa realtà che si misura giorno per giorno nella ‘economia’ del nostro vissuto e ci porta a sviluppare contraddizioni latenti del nostro essere in divenire?

Ma basteranno il New Age, il neo-buddismo occidentale e l’integrazione islamica a rispondere nel tempo alle preoccupazioni delle società post-moderne della comunicazione in un’Europa post-cristiana del XXI secolo?

E mentre la difficoltà e la confusione sembrano però imperare e l’analisi di questa neo-spiritualità è composta da una variegata nebulosa di eterodossie, in queste terre di nessuno si vedono attraversare numerosi movimenti contraddittori che assurgono a nutrimento informativo dei media in funzione di questo o di quell’aspetto spettacolare.

Tutto sembra così liberale e spontaneo ma la storia delle nostre realtà quotidiane passa anche attraverso una radicalizzazione della visione religiosa della vita. Perché? Come sempre la critica inter-soggettiva alla situazione reale dell’esistenza personale e collettiva attinge informazioni di supporto coscienziale tali da indurre le persone più fragili caratterialmente ad una visione catastrofica della società. Praticamente molti sono indotti a guardare al mondo, in un contesto di complessità e di cacofonia dei linguaggi e delle opzioni, con una nota negativa e catastrofizzante. Ciò induce a ri-cercare, dopo anche le delusioni sperimentate nelle Chiese tradizionali cristiane, nicchie di sicurezza psicologica e spirituale come false tranquillità metafisico-pragmatiche. Ecco che allora prendono spazio e promozione a livello ideologico-religioso certe sette neo-fondamentaliste e quei movimenti neo-integristi che tagliano in diagonale e trasversalmente il mondo delle religioni. Se da una parte l’ecatombe dell’al di là è venuta meno nella coscienza umana grazie ad una razionalità che ne ha disgregato le ragioni ed il concetto, dall’altra è cresciuta nella quotidianità l’incombere della precarietà esistenziale e quindi del terrore fomentato da un’informazione venduta al protagonismo di se stessa. Nel corso degli ultimi 25 anni, ma soprattutto oggi dopo l’attentato alle Torri Gemelle - con il progressivo degrado della situazione economica e il numero crescente degli emarginati - si sono moltiplicate le precarietà e quindi l’affidamento più alle sette e alle nuove superstizioni che alla praticità della vita. Come se nel lento moto della mentalità tra il terreno guadagnato dalla razionalità tecnica e quello perduto dalle religioni tradizionali fosse rimasta una sorta di terra di nessuno che viene occupata in forma strisciante da nuove credenze o da forme arcaiche di religiosità. La nuova povertà e le confuse angosce che ne derivano spiegano ad esempio la straordinaria ripresa dei pellegrinaggi in Europa (dalle mete mistico-miracolistiche cristiane a quelle magico-sincretistiche laiche). E come nelle peggiori epoche di disperazione popolare c’è chi dice di vedere di nuovo certe apparizioni della Vergine Maria. Questa rinascita della religione popolare, del culto dei santi e dei miracoli a buon prezzo sono incoraggiati dalla gerarchia più conservatrice della Chiesa cattolica e guarda caso sta coincidendo, come da sempre, con quei tempi duri che sembrano riapparire all’orizzonte. Allora si ri-inizia a sperare nella provvidenza, ma non solo. E l’uomo, così spaventato dall’emergere di mille misfatti (dall’Aids, alla mucca pazza, al sangue e prostitute contaminanti, al cancro, alla solitudine, ai tradimenti e alle diverse forme di pazzie...) accettano le più strampalate delle superstizioni. E così il sacro è soppiantato dal caso (ecco il tuffo nei giochi di ogni tipo come speranza economica...) che affascina e terrorizza a un tempo. Il vaniloquio si nutre di ignoranza e di credulità, di miti e di passioni, di fedi e di paure che nutrono da sempre, in ogni tempo, ma soprattutto in passaggi epocali come il nostro, il riversare dell’animo umano nell’aspetto magico della vita. Perché, paradossalmente, mentre si dice di affidarsi al metafisico-immateriale, dall’altra ci si abbandona ad un materialismo-spirituale che coniuga una ortoprassi che copre le ragioni del credere e del vivere: la Chiesa Cattolica specialmente predica la Salvezza dell’anima spirituale e opera per la salvezza storico-mondana dell’istituzione ecclesiastica, elevandola subdolamente a ‘vitello d’oro’ della nostra epoca.

Ecco quindi che il ‘bene-rifugio’ della religione oggi sembrano essere proprio le sette e certi movimenti integristi sia cattolici, protestanti, ebraici che islamici. L’entità di questa realtà non è consistente, ma è proprio per il suo essere parte dell’‘estremismo religioso’ che anche il solo loro esistere e il loro operare sale alle cronache con facilità grazie alla ‘commercializzazione del prodotto’ a livello informativo. Non è più questione di mons. Lefebvre da una parte né dell’estremismo islamico, né del Pentecostalismo protestante, del cristianesimo orientale e di certe sette ebraiche dall’altra. Queste sono solo la punta dell’iceberg. Perché di fatto assistiamo alla richiesta di certezze da parte di masse di persone alle quali certo fondamentalismo religioso cerca di dare soddisfazione con risposte onnicomprensive e totalizzanti. E per fare questo non può che in-porre quello che Foucault ha chiamato <il regime della verità>. E i caratteri specifici del neo-fondamentalismo sui generis sono soprattutto tre: l’unità del comune ed unico fondamento di fede; il sentirsi i veri ed unici interpreti della propria fede e credenza religiosa; terzo, essere disposti a combattere anche fisicamente con ogni mezzo chi voglia contraddire, combattere ed annientare, a più stadi, questa fede ritenuta la vera ed unica verità. È certo che queste caratteristiche non le ritroviamo pari pari in tutti gli spezzoni sia cattolici, che protestanti che islamici e così via. Ma è da queste generiche definizioni che prende corpo poi la specificità specialistica di ogni movimento e di ogni corrente neo-fondamentalista sia in senso pacifico che aggressivo. E quindi la religione oltre a diventare un tutt’uno con la vita fino a sacrificarla proprio in virtù di questa pseudo-fede, diventa essa stessa mezzo, mobilitazione socio-politica: l’implicito spirituale si fa politica ‘confessionale’…

Quale risposta dare a questa realtà che sembra più una “fuga dalla libertà” e che rischia di esasperare e produrre un circolo vizioso tra l’instabilità che genera e i consensi, di questa instabilità, che arruola per il bisogno di certezze e sicurezze sempre più intransigenti?

 

 

4. Conclusione - Una prospettiva oltre il fondamentalismo... Per una prassi interculturale, interreligiosa ed interdisciplinare

 

Per lungo tempo il fondamentalismo cristiano e quello islamico sono stati (e in parte lo sono ancora) anticomunisti. Ebbene il peggio che possa succedere ad una identità così fortemente negativa è la perdita del ‘nemico’ rispetto al quale essa stessa si definiva. Per cui dopo la decomposizione del comunismo sovietico il fondamentalismo anticomunista è entrato in una profonda crisi d’orientamento.. Chi è il ‘nemico’ adesso? E siccome non ci si può definire senza la figura del nemico, bisognerà trovare ‘il nemico’ che per alcuni poi sarà il liberalismo e il materialismo del ‘mondo occidentale’ per altri invece la superpotenza economica del Giappone e per entrambi molto probabilmente l’islamismo e rispettivamente il cristianesimo. Solo quando non si sentirà più il bisogno di individuare il nemico per scoprire se stessi, fra le religioni, e specialmente tra cristianesimo e islamismo, ci sarà pace e reciproco riconoscimento. Ma come si può arrivare a ciò?

Che tipo di soluzione occorre dare per superare quel fondamentalismo a largo spettro che a livello culturale, religioso e intellettuale sembra caratterizzarci come la “Torre di Babele” del ventunesimo secolo?

 

Ascoltiamo Raimundo Panikkar: «Che cosa accadrebbe se noi semplicemente smettessimo di affannarci a costruire questa tremenda torre unitaria? Che cosa, se invece dovessimo rimanere nelle nostre belle piccole capanne e case e focolari domestici e cupole e incominciassimo a costruire sentieri di comunicazioni, che potrebbero col tempo convertirsi in vie di comunione, fra differenti tribù, stili di vita, religioni, filosofie, colori, razze e tutto il resto? E anche se non riuscissimo ad abbandonare il sogno del sistema monolitico della Torre di Babele che è diventato il nostro incubo ricorrente, questo sogno di una umanità unitaria non potrebbe essere soddisfatto costruendo semplicemente strade di comunicazione piuttosto che qualche gigantesco impero, vie di comunicazione invece che di coercizione, sentieri che possono condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti nello stesso sacco, nello stesso culto, nella monotonia della stessa cultura?»(7)

 

 

È praticamente attraverso la cultura che si riesce a smobilitare quel fondamentalismo di fondo che alberga in molta umanità, soprattutto in Occidente. E quindi occorre saper entrare in una logica costruttiva di quattro momenti: L’acculturazione, come il processo di aggiornamento dei soggetti e delle strutture secondo un’evoluzione permanente del contesto socio-culturale; L’inculturazione, come quel processo originale di accostamento e comprensione dell’Altro nella sua complessità e globalità; L’inter-culturazione, è l’interscambio tra soggetti e strutture che posseggono differenti culture e religioni; La trans-culturazione è quell’impegno a non essere più unicamente noi stessi, ma ad esserlo in modo nuovo, oltre noi stessi proprio per la ricchezza e la diversità dell’Altro come e in quanto tale. E cioè divenire qualcosa d’altro in un continuum senza obiettivi se non quello di una neo-cultura universale dove la ricchezza e l’accoglienza della diversità ne caratterizzano l’insieme, senza tradire o sminuire le singole identità artefici insieme della comune-unità. È questo il punto di partenza proposto per un approccio che nell’ambito religioso dia poi eventuali risultati sul piano infra-confessionale, interreligioso ed ecumenico, come del resto nell’ambito delle varie discipline interculturali. È qui che le diverse scienze debbono saper riconoscere i propri limiti e le proprie capacità interrelazionali e comunicative e così accrescere il potenziale sforzo di spiegare all’umanità i significati ed il senso della storia e del suo divenire nella visione solistico-interdipendente. Perché in realtà, per la donna come per l’uomo, per le religioni come per le chiese, per le discipline come per il quotidiano...

«La nostalgia dell’Altro è poi anche la nostalgia di noi stessi, dell’Altro che è in noi, dato che il ripudio dell’altro è un ripudio di noi, è una nostra menomazione in quanto la nostra totalità implica la presenza irriducibile dell’alterità».(8) 

 

Piero Cappelli

 

 

(1) Simone Weil, Riflessione sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, 1983, p. 127.

(2) Ernesto Balducci, La Terra del tramonto, Ecp, 1992, p. 141.

(3) Hans Kung, Contro l’attuale fondamentalismo cattolico, Concilium, 3/92, p. 170.

(4) Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Bompiani, 1969, p. 237.

(5) Piero Cappelli, Lo scisma silenzioso, manuscripto, 2006.

(6) AA.VV., La religiosità in Italia, Mondadori, 1995, pp. 272-3.

(7) R.Panikkar, La Torre di Babele, Ecp, 1990, p. 10.

(8) Ernesto Balducci, L’altro, un orizzonte profetico, ECP, 1996, p. 26.


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