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Andrea Barron. Tunisia: un paese guida per i diritti delle donne
30 Agosto 2007
 

Sotto il brutale regime di Saddam Hussein, le irachene beneficiavano di alcune delle politiche più “amiche” delle donne nel mondo arabo. Oggi, sotto il nuovo governo dominato dagli sciiti, le milizie islamiste minacciano e uccidono le donne che non seguono il loro codice d’abbigliamento o le insegnanti che istruiscono donne analfabete. In Giordania, Siria ed Egitto, e nella maggior parte dei paesi arabi, un uomo che uccida una parente di sesso femminile per difendere “l’onore” della famiglia riceve una pena ridotta, o può anche non finire in prigione del tutto. Nei territori palestinesi, nonostante la presenza di un forte e vibrante movimento delle donne, gli stupratori non vengono perseguiti, mentre le loro vittime vengono forzate a sposarli per proteggere la reputazione della famiglia. In Iran, paese non arabo, le donne vengono lapidate a morte per adulterio, e gli uomini possono usufruire di “matrimoni temporanei” se vogliono fare sesso fuori dal legame coniugale.

Il quadro è molto differente per le donne di un piccolo paese nordafricano, la Tunisia, che si dice orgoglioso delle sue differenti origini (araba, islamica, mediterranea) e del suo attenersi a valori di moderazione, tolleranza, pluralismo religioso ed eguaglianza per le donne. Le donne costituiscono un terzo dei docenti universitari tunisini, il 58% degli studenti universitari, più di un quarto dei giudici, il 23% dei membri del Parlamento ed hanno forte rappresentanza in polizia e nelle forze armate. Il tasso di analfabetismo delle donne è crollato a picco dall’82% del 1966 al 31% del 2004.

La Banca della Solidarietà tunisina concede prestiti alle donne imprenditrici come Gamra Zeid, una madre trentottenne con la licenza media, che ha ricevuto 10.000 dinari tunisini (circa 7.700 dollari) per aprire una fabbrica di suole da scarpe. Alle donne sono stati forniti questi prestiti per aprire pasticcerie, centri diurni, negozi di abbigliamento, eccetera. E il loro lavoro contribuisce in modo significativo all’economia tunisina: le imprese dirette da donne hanno il doppio di possibilità di sopravvivenza, dopo i primi cinque anni, rispetto a quelle dirette da uomini. Ma ciò che distingue nettamente la Tunisia da altri paesi arabi o a maggioranza musulmana, sono le sue politiche rispetto a matrimonio, divorzio, sostegno ai bambini, interruzione di gravidanza, delitti d’onore e violenza domestica. Dopo tutto, ha importanza che una donna possa andare all’università, dirigere i propri affari ed essere eleggibile ad una carica politica, se non può scegliersi il marito ed essere libera dalla violenza perpetrata su di lei dalla sua stessa famiglia?

La Tunisia ha le politiche più progressiste del mondo arabo, rispetto alle donne, sin da quando il Presidente Habib Bourguiba proclamò il Codice sullo status personale nell’agosto 1956, subito dopo aver dichiarato l’indipendenza del paese dalla Francia. Il Codice abolisce la poligamia senza eccezioni, e punisce l’uomo che sposi una seconda moglie con un anno di prigione e una multa. Proibisce ai mariti di divorziare unilateralmente e dà alle donne più diritti di custodia sui bambini. Bourguiba e i liberali nazionalisti che andarono al potere nel 1956 non stavano rispondendo alle richieste di un movimento femminista, perché all’epoca non ve n’era alcuno. Vedevano il miglioramento dei diritti delle donne come una parte integrante del loro sforzo per fare della Tunisia un paese moderno, libero da «anacronistiche tradizioni e mentalità da retroguardia». Si basarono molto sulle idee di Tahar Haddad, il riformatore islamico tunisino che scrisse il famoso libro Le nostre donne nella sharia e nella società più di settant’anni orsono.

«L’Islam è un’infinita fonte di progresso», scrisse Haddad. «Predica l’uguaglianza fra tutte le persone, in particolare fra uomini e donne, che Dio ha creato come uguali». Haddad si batteva contro i matrimoni forzati di ragazze molto giovani e voleva che le donne avessero il pieno diritto di lavorare fuori casa.

Il dott. Kamel Omran, un imam tunisino di gran nome, e lettore al Dipartimento Arabo dell’Università di Al-Zaytouna, segue la tradizione di un Islam moderno nella sua interpretazione dei versi coranici sulla poligamia. La maggior parte dei musulmani, e dei non musulmani, crede che il Corano permetta ad un uomo di avere sino a quattro mogli. Ma non è così, spiega il dott. Omran: «Il Corano limita la poligamia ad un contesto specifico. Agli uomini era permesso sposare altre donne se erano vedove o orfane di guerra, perché durante la guerra i loro mariti e padri erano stati uccisi. (Corano, Sura 4, Verso 3) In Tunisia vi è un consenso condiviso fra religiosi, laici ed opinione pubblica che rende la poligamia assolutamente improponibile». Confrontate l’interpretazione tunisina del Corano con quella che ne fanno in Arabia Saudita, dove nello scorso marzo si è permesso ad un uomo di 110 anni di sposare una trentenne, perché «la moglie, di 85 anni, non è in grado di soddisfarlo».

«È il costume, non la fede, ad essere responsabile di questo tipo di interpretazione patriarcale dell’Islam», dice ancora l’imam Omran. «Seguire il Corano e la Sunna, le tradizioni del Profeta Maometto, dovrebbe rendere le persone più consce del valore delle donne, non meno». Omran aggiunge che non vi è precetto religioso che obblighi le donne a coprirsi la testa.

La Tunisia è il solo paese arabo a maggioranza musulmana dove l’interruzione di gravidanza è legale durante il primo trimestre, e dove le donne possono ottenere l’intervento a spese dello stato e senza che sia richiesto il permesso del marito. Ma non devono usare l’interruzione di gravidanza come metodo di controllo per le nascite, come sono costrette a fare in alcuni paesi in via di sviluppo: la Tunisia ha realizzato un ambizioso programma di pianificazione familiare, tramite l’informazione e l’accesso ai contraccettivi.

Nel 1993, Zine El Abidine Ben Ali, che successe a Bourguiba come Presidente, emendò il Codice sullo status personale per garantire alle donne maggiori diritti. In quel momento vi era un movimento femminista attivo a cui si deve molto per questi cambiamenti. Non era più richiesto ad una donna di obbedire a suo marito, fu stabilito un fondo speciale per dar sostegno alle madri divorziate, e fu possibile da allora per le donne tunisine trasferire la propria nazionalità ai figli. E l’articolo 207 del Codice penale che riduceva le pene per i “delitti d’onore” fu abolito. Precedentemente, un uomo che ammazzasse la moglie perché adultera era colpevole semplicemente di “condotta disordinata”, oggi è passibile di ergastolo per omicidio. In Pakistan, se vogliamo fare un confronto, un fratello che uccide sua sorella può scampare a qualsiasi conseguenza “confessando” il delitto al padre, che prontamente lo “perdona” e chiude la questione.

Souad Khalfallah, presidente dell’Alleanza delle donne avvocate, ricorda che i fondamentalisti islamici si opposero alla cancellazione dell’articolo 207. «All’epoca ero studente all’Università di Tunisi. I fondamentalisti venivano a distribuire nel campus i loro volantini, con su scritto: “Applichiamo la legge coranica! Il Codice sullo status personale è anti-coranico”. Ma il governo rifiutò di lasciarsi intimidire».

La Tunisia continua ad essere il baluardo dei diritti delle donne arabe nel 21° secolo. Quest’anno, incoraggiato dall’Unione Nazionale delle donne tunisine, dall’Associazione tunisina delle donne democratiche e da altri gruppi femminili, il governo ha lanciato una campagna su larga scala per contrastare la violenza domestica. La coordinatrice del progetto è Nabila Hamza, del Consiglio nazionale per la famiglia e la popolazione, che dirige i programmi di pianificazione familiare e di salute riproduttiva. Il progetto contro la violenza domestica sta monitorando il territorio nazionale per accertarne la frequenza, e sta lavorando con imam, consiglieri religiosi, poliziotti, giudici, medici, ostetriche ed assistenti sociali per alzare il livello di consapevolezza rispetto alla violenza domestica e trovare le misure più adatte per ridurla.

Sin dal gennaio 2007 si sono organizzati seminari in quattro “governatorati”, o stati (Gabes, Kairouan, Monastir e Jendouba), dove si sono incontrati imam maschi e femmine e sapienti religiosi. «In marzo, in Jendouba, ne abbiamo incontrati sessanta», racconta Hamza. «Hanno discusso di come il Profeta si rivolgesse alle donne per consiglio, e come le sue mogli, soprattutto la giovane Aisha, fossero leader religiose e persino militari. Gli imam, uomini e donne, erano d’accordo sul fatto che un’interpretazione corretta dell’Islam non può che rigettare completamente la violenza contro le donne. L’unico punto su cui si dividevano, era se considerare tale violenza un fenomeno isolato o un problema sociale più pervasivo. Molti si sono comunque impegnati a parlare contro la violenza domestica durante il “khutba”, e cioè il sermone che dicono nelle moschee ogni venerdì».

Può un paese piccolo come la Tunisia, la cui popolazione è di dieci milioni, dare la misura del futuro delle donne nel mondo arabo? Secondo il rapporto NU sullo sviluppo umano nel mondo arabo (2005), l’avanzamento delle donne è «un prerequisito per il Rinascimento arabo, inseparabilmente legato al destino del mondo arabo ed al suo raggiungimento di sviluppo umano».

Per chiunque voglia vedere questo tipo di Rinascimento nel mondo arabo, i notevoli progressi delle donne tunisine sono una storia di successo che non ci si può permettere di ignorare.

 

Andrea Barron

(per The Globalist, luglio 2007 – traduzione di Maria G. Di Rienzo)


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