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Matteo Angioli, Claudio Radaelli. Le “confessioni” di Blair  
La guerra in Iraq, il diritto umano alla conoscenza da conquistare
28 Ottobre 2015
 

Il 25 ottobre, dagli schermi della Cnn, Tony Blair ha chiesto scusa per gli errori commessi in Iraq e ha riconosciuto una parte di responsabilità per l’avvento dell’Isis. Le scuse giungono probabilmente in vista della consegna del rapporto Chilcot al Primo Ministro David Cameron. Consegna, non ancora pubblicazione, per la quale dovremo attendere ancora mesi.

Giungono anche dopo che, dalle email rivelate dall’account di Hillary Clinton, il 18 ottobre scorso è filtrato un memo redatto dall'allora Segretario di Stato Colin Powell, preparatorio ad un incontro cruciale tra Bush e Blair a Crawford, in Texas, il 5-7 aprile 2002. La nota confidenziale da Powell al Presidente, così illustrava la posizione del partner britannico: «Blair continua a stare al fianco tuo e degli Stati Uniti rispetto alla guerra al terrorismo e all'Iraq [...] ha prontamente messo a disposizione 1.700 commandos». E ancora: «Sull'Iraq, Blair sarà con noi in caso l'intervento militare si renda necessario [...]» perché ritiene che «[...] il successo contro Saddam Hussein sarà foriero di altri successi nella regione».

All'epoca, il Partito Radicale si mobilitò tempestivamente, con un’iniziativa che rimuoveva la ragione fondante dell'azione militare e andava oltre gli sterili e faziosi slogan pacifisti “no alla guerra” o “pace”. Il 19 febbraio 2003, un mese esatto prima dell'inizio dei bombardamenti su Baghdad, la Camera dei Deputati approvò una risoluzione, presentata dall’On. Volonté che raccolse la proposta di Marco Pannella, che impegnava il Governo Berlusconi a promuovere in ogni sede istituzionale internazionale una iniziativa intesa all'esilio di Saddam Hussein. Se accolta, la proposta avrebbe consentito di guadagnare tempo rispetto all'agenda di Bush e Blair, a favore degli ispettori Unmovic guidati dallo svedese Hans Blix e soprattutto a favore della comunità arabo-musulmana, che al suo interno già dibatteva sull'ipotesi dell’esilio per il dittatore.

Perché parlare di eventi accaduti 12 anni fa? Perché nessuno Stato, a maggior ragione una democrazia, dovrebbe prendere decisioni di tale gravità senza risponderne in termini di trasparenza e accountability. Questa vicenda da ‘inverno della democrazia’ dovrebbe stimolare la costruzione di un progetto di nuova ‘primavera’. Da anni i Radicali tentano di tirare il filo di quella vicenda. Un filo che si snoda lungo le de-secretazioni di documenti avvenute negli Stati Uniti e nel Regno Unito, lungo le memorie scritte da alcuni dei principali attori coinvolti e lungo il lavoro – ancora incompleto – dell'inchiesta indipendente istituita nel luglio 2009 da Gordon Brown e guidata da Sir John Chilcot per far luce sulle circostanze in cui fu presa la decisione sull'intervento.

La lista degli scempi compiuti dalle democrazie negli ultimi 15-20 anni è insopportabilmente lunga, lo Stato di Diritto sta cedendo sotto i colpi della Ragion di Stato. Per questo abbiamo lanciato un’iniziativa che rovesci la deriva, rafforzando il diritto alla conoscenza sul come i governi operano, formalmente in nome dei cittadini in realtà ignorandoli e calpestandoli. L’obiettivo è quello di ottenere in sede di Nazioni Unite il riconoscimento di un nuovo diritto: il diritto universale alla conoscenza. Un diritto che contrasti l’abuso del segreto di Stato, ma che si applica anche a innumerevoli dimensioni di intervento pubblico, regolativo, anche locale – come nel caso della trasparenza patrimoniale sui nominati e gli eletti nelle municipalizzate e nei consigli comunali. Un diritto che è essenziale nel momento che precede la decisione (vogliamo sapere le ragioni e l’evidenza empirica a supporto delle scelte pubbliche), o durante l'iter decisionale (consultazione e commenti); ma vale anche per il dopo (revisione giurisdizionale, notifiche e pubblicazione).

Il Presidente Mattarella ci ha dato coraggio con il suo messaggio alla conferenza del 27 luglio al Senato su “Universalità dei Diritti Umani per la transizione verso lo Stato di Diritto e il Diritto alla Conoscenza”. In Inghilterra, l’Università di Exeter ha assegnato una nuova borsa di dottorato in scienze politiche su Setting the Agenda for the Right to Know in co-tutela con il Partito Radicale. Con questa borsa si approfondisce un filone di ricerche sugli strumenti di politica pubblica che concretamente rendono esigibile il diritto alla conoscenza: accesso sistematico agli atti, obblighi di motivazione, consultazione e notifica, una regolazione liberale delle clausole sul segreto di Stato, la pubblicazione di analisi dei costi e dei benefici delle decisioni, e revisione giurisdizionale delle scelte dei regolatori pubblici. Queste ricerche, condotte da Claire Dunlop e Claudio Radaelli a Exeter e Alessia Damonte all’Università degli Studi di Milano, ci hanno permesso di vedere empiricamente come gli effetti maggiori in termini di diritto alla conoscenza e accountability non vengano creati dal singolo strumento ma dall’interazione fra i diversi meccanismi attivati dagli strumenti.

Serve un’ecologia coerente di strumenti di politica pubblica, non la singola riforma o innovazione giuridica. Per rafforzare la Pubblica Amministrazione bisogna farla rispondere a tanti diversi stakeholders (cittadini, gruppi di interesse, esperti, parlamentari), altrimenti diventa auto-referenziale o, come nel caso Iraq, preda di Presidenti e Primi Ministri che non rispondono a nessuno, protetti dal Segreto di Stato e da apparati tecnologici intrusivi e opachi. La borsa di studio di Exeter punta a trasformare questi saperi scientifici in conoscenze utilizzabili – per questa dimensione di impatto viene finanziata dal South West Doctoral Training Centre dell’Economic and Social Research Council inglese. Una goccia nell’oceano? Possibile. Ma anche un richiamo al mondo delle università, della diplomazia e degli intellettuali che questi saperi utilizzabili devono e possono essere incoraggiati con forme e modi innovativi.

Più in generale, il diritto alla conoscenza è oggi la leva per rilanciare la mobilitazione transnazionale, per capire come rifondare il concetto di sicurezza sia nelle nostre democrazie malate che nei paesi in transizione verso la democrazia, e per ri-stabilire una rete di politiche pubbliche per l’accountability; così celebrando adeguatamente i 70 anni di vita delle Nazioni Unite e i 60 anni del Partito Radicale.

 

Matteo Angioli e Claudio Radaelli

(da Notizie Radicali, 26 ottobre 2015)


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