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Annagloria Del Piano. 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
30 Aprile 2015
 

 

Sono passati ventun anni dalla morte della giornalista RAI Ilaria Alpi e del suo collega, l’operatore Miran Hrovatin, e molte sono le ombre. Troppe.

Anche se, dopo tutto questo tempo, per decisione del governo Renzi, molti documenti, migliaia di informative segrete, le videocassette di Ilaria e altro materiale sono stati finalmente desecretati.

Per cercare il bandolo della matassa di un altro dei tanti casi intricati della nostra storia recente, bisogna tornare alla Somalia di quegli anni, un Paese in piena guerra civile, provato da una tremenda carestia; uno scenario di traffici illeciti, complotti e omicidi.

 

La Somalia in quegli anni.

Nel gennaio del 1991 è caduto Siad Barre, il dittatore, e le due fazioni rivali combattono senza tregua. A sud, il generale Aidid; Ali Mahdi al nord. E in mezzo, la linea verde, che si sposta a seconda di come procede la guerra. Zona rischiosissima, in cui non avventurarsi. Così come ogni spostamento da una parte all’altra della Somalia è da pianificare attentamente.

La prima volta di Ilaria in Somalia è nel dicembre ’92 (poi tornerà altre sei volte). Il suo primo servizio, sulle donne somale. Grazie a loro capirà il Paese, i suoi problemi sociali; sarà visitando i campi profughi, le carceri, le scuole… che Ilaria si innamorerà di quella terra.

«Lei girava come fosse a casa sua, era sempre in mezzo alla gente, non su posizioni dominanti, non osservando dall’alto in basso, ma in mezzo alla gente, con la gente, in ciabatte! Sempre, seppur in un territorio tanto ostile» ricorda Alberto Calvi, collega operatore della giornalista e suo amico, nel documentario di Rai Fiction “Ilaria Alpi – L’ultimo viaggio”.

«Non voleva fare mai lo stand up classico» continua «non voleva farsi vedere in video, preferiva mostrare solo i luoghi e le persone, accompagnando con la sola voce le immagini che dovevano essere loro, a parlare…»

A poco, a poco, Ilaria comincia a dar voce e ad evidenziare le polemiche dei Somali contro l’Italia: perché ci mandate uomini armati e non cibo? Perché mandarci i vostri militari? Avrebbero fatto meglio a restare a casa…! Per i Somali, già dopo i primi mesi della missione di pace, l’accusa per l’Italia è che abbia tanto da farsi perdonare.

Effettivamente gli interessi del nostro Paese in quella che fu una colonia italiana, sono ancora tanti. E i Servizi segreti sono lì per tutelarli. Girano tanti soldi… Che fine fanno? si chiede sempre più spesso Ilaria.

Anche la magistratura, dall’Italia, indaga e il vento di Tangentopoli soffia contagioso.

Illegalità e malaffare vengono denunciati più volte, ad esempio dall’ex funzionario del Ministero degli Esteri Franco Oliva, che sarà vittima, poco prima di Ilaria, di un attentato mai indagato, dal quale si salverà per il rotto della cuffia, senza che mai vengano individuati colpevoli.

Si scoprono, così, nel corso delle inchieste, strade costruite solo per scopi militari, farmaci destinati solo all’esercito, navi da pesca molto particolari, donate dall’Italia alla Somalia, particolari perché senza celle frigorifere. Già, perché il loro carico non sembra averne bisogno giacchè si tratta di armi. Esistono, infatti, svariate dichiarazioni, verbalizzate da chi indaga, di marinai a bordo a quei tempi, che parlano di grosse partite di armi, di veri e propri traffici su larga scala, e anche di rifiuti illegali trasportati su quelle imbarcazioni. Si tratta delle navi della flotta Shifco, proprio quelle donate dalla cooperazione italiana alla Somalia. E sarà proprio su questo traffico che l’interesse di Ilaria Alpi si concentrerà attentamente.

«Noi eravamo lì per raccontare cosa succedeva in Somalia, e anche per dire cosa faceva l’Italia lì, nel bene e nel male» afferma Calvi.

Ilaria, con i suoi servizi, mette in scena le contraddizioni e i dubbi della cooperazione italiana. Scrive: «A Mogadiscio le organizzazioni umanitarie sono presenti ovunque. Lavorano con diverse filosofie, a volte in contrasto fra loro. Qualcuna con la speranza di arricchirsi. Qui girano molti soldi e le accuse fioccano: di corruzione, sperpero…»

Anche Franco Oliva, intervistato nel documentario, conferma questa situazione: «Mi resi conto di grosse anomalie. Un volume immenso di farmaci, per esempio. Giaceva in un deposito a oltre 40 gradi, destinato a deperire. In Somalia tutto poteva essere fatto, e tutto nascosto. La Somalia era terra di nessuno. Per di più, in bancarotta. Nessun fornitore era disposto, perciò, a vendere armi a quel Paese, così cominciarono gli scambi illegali: di armi contro rifiuti. Ossia, la Somalia accettava si scaricassero rifiuti radioattivi a basso costo sul suo territorio, e in cambio otteneva i rifornimenti di armi. Scorie nucleari, rifiuti speciali venivano sotterrati, gettati nei fiumi e nel mare, inquinando tutto… Venivano portati là con aerei e con navi, soprattutto…»

La svolta nella guerra somala è datata 5 giugno ’93: Un’azione combinata terra-aria porta i militari americani nella zona di Aidid, che hanno deciso essere il nemico da abbattere, la Primula Rossa, con una taglia pendente. Gli Italiani cercano ancora una mediazione fra le parti, evitando di schierarsi con una delle due fazioni. Ali Mahdi collabora con gli Americani, ricevendo in cambio armi e aiuti.

Nel mese di luglio, Ilaria torna con Calvi a Mogadiscio e si sistema nella zona sud, quella di Aidid, presso l’Hotel Sahafi, anziché al solito Hotel Amana, scelto da tutti gli occidentali e dai giornalisti esteri. È il 12 luglio: parte un raid dei militari americani contro una palazzina, dove in quel momento si ritiene possa trovarsi Aidid. Alcuni giornalisti Reuters trovano la morte mentre provano a scappare. Anche Ilaria e Alberto tentano la fuga e vengono accerchiati dalla folla; rientrano al Sahafi. Nel pomeriggio un camion trasporta il macabro resoconto di quel raid: decine di corpi massacrati. «Un ragazzo ci fece avere una cassetta con quelle immagini inedite. La consegnò a Ilaria, perché Ilaria era conosciuta. Perché di lei si conosceva l’onestà intellettuale; quelle riprese non sarebbero sparite, sarebbero state mandate in onda» rivela Calvi. «E così avvenne. Il fatto che l’avessimo mandata in onda prima della CNN, costringeva la CNN a fare lo stesso».

Il 14 luglio viene sostituito il generale Loi. Da questo momento l’Italia non media più e si assesta su posizioni sempre più affiancate agli Americani. Ormai è evidente a tutti che la partita si gioca fra gli Americani e Aidid, che non si vuole cercare più – se mai si è cercato –uno spazio di pacificazione. È ormai guerra aperta e i vari contingenti ONU si preparano a lasciare la Somalia.

È in questo scenario che Ilaria va ad intervistare dapprima la moglie di Ali Mahdi, la quale ricostruisce i traffici illeciti di armi e rifiuti in cui erano coinvolti imprenditori e istituzioni italiane dai primi anni ’90, e poi lo stesso Ali Mahdi, su richiesta di un emissario che si lamenta con la giornalista del fatto che non dia voce al loro punto di vista, che la sua informazione sia troppo sbilanciata a favore di Aidid. La Alpi con Calvi decide immediatamente di contattare Ali Mahdi, di portarlo a rilasciarle un’intervista. Intervista che, seppure non andrà del tutto liscia, sarà, come ovvio, fondamentale per ricostruire gli avvenimenti successivi.

Nel girato che è giunto fino a noi, Ilaria non appare per niente in soggezione; accusa Mahdi di essere colluso coi vecchi poteri legati a Siad Barre, di attorniarsi dei suoi vecchi ministri, di trafficare e lo fa con dettagliate precisazioni. Lui nega e tergiversa o non risponde seriamente. L’intervista non verrà mandata in onda.

«Ci era chiaro che Ali Mahdi fosse legato alla cooperazione italiana, ai militari italiani! Questa è la filiera, le persone a cui noi rompevamo le scatole è dentro a questo cerchio magico. È qui che si deve cercare, non c’è tanto da guardarsi intorno!!» si accalora Alberto Calvi.

Intanto, il 28 ottobre ’93 Franco Oliva, che ha denunciato apertamente gli sprechi della cooperazione, è come già scritto, vittima di un attentato. Poi, il 12 novembre, è la volta di Vincenzo Licausi, uomo dei servizi segreti, e infine viene uccisa la cooperante Maria Cristina Luinetti. Tutte casualità? O c’è una perversa logica comune?

 

L’agguato e l’uccisione di Ilaria e Miran.

Arriviamo, dunque, al marzo 1994. Il giorno 12 Ilaria torna, per quella che sarà la sua ultima volta, in Somalia. Questa volta è accompagnata da un altro operatore: Miran Hrovatin. Alberto, suo compagno di sempre, amico, collaboratore e guardia del corpo, non ha potuto seguirla; è impegnato per un contenzioso con la Rai. Insieme a Miran, misteriosamente, la giornalista si reca a Bosasu, a nord della Somalia. È un comportamento strano; tutti i giornalisti si sono ormai messi in salvo sulle navi nel porto. Loro, invece, si dirigono in tutta fretta nel luogo più rischioso. Lì, si verrà a sapere, incontrano un personaggio importante, il fratello del sultano di Bosasu, una sorta di governatore del posto. Ilaria lo intervista. Dopo dieci minuti di domande sulla situazione di guerra e altro, ecco la domanda che le sta a cuore: «Si parla da tempo di questo scandalo… di un proprietario somalo con passaporto italiano, che si chiama Munye, che avrebbe preso queste navi di proprietà dello Stato e le avrebbe destinate a suo uso privato». Il governatore risponde, con un sorriso quasi imbarazzato e al contempo di chi sta per fare una rivelazione che sa determinante: «Sì, era a capo della flotta. La flotta appartiene a una società italiana, lui non contava niente e non conta niente. È la società che fa tutto». Ebbene, proprio la Shifco, ancora una volta torna questo nome, della flotta regalo della cooperazione italiana, invischiata in quei traffici di armi e rifiuti, che ormai tutti conoscono. In collusione con Munye. E la nave Faarax Omar, della Shifco, è appena stata sequestrata dai Somali, con a bordo tre Italiani… I Servizi lo sanno e hanno avvertito il Ministro degli Esteri; si sarebbe dovuta attivare l’Unità di Crisi della Farnesina. Ma nulla è accaduto. Ilaria chiede dove sia, la vorrebbe vedere, ma il fratello del sultano dice che non è possibile, è pericoloso, si sottrae alla richiesta, pericoloso è finanche parlarne…

Un’operazione delicata coinvolge la Shifco, ormai è chiaro. Ilaria lo sapeva già, e stava indagando. Quello che le mancava erano le prove, ma ci era molto, molto vicina. La Faarax ha a bordo armi. Tutta la struttura dell’intelligence italiana ne deve essere al corrente. Si scoprirà in seguito addirittura un rapporto ONU, riguardante le violazioni dell’embargo al commercio d’armi con la Somalia, in cui si afferma che, due anni prima della morte di Ilaria e Hrovatin, un carico di armi era partito con una nave Shifco dalla Lettonia ed era arrivato in Somalia. Ma a dominare resta il silenzio.

Il 20 marzo Ilaria e Miran rientrano nella capitale e vanno all’Hotel Sahafi. Arriva una telefonata per la giornalista che, con Miran, si precipita fuori, in auto, con l’autista e una sola guardia del corpo. Vanno verso l’hotel Amana, attraversando la linea verde, pericolosissima, soprattutto in quelle ore, in quei giorni. Per di più, l’Amana è nella parte nord di Mogadiscio, la più rischiosa. «Perché andarci? Era inconcepibile! Perché Ilaria sei andata lì? È il motivo per cui io sono ancora incazzato con lei!» dice piangendo Calvi.

Si è sempre detto ufficialmente, per trovarsi col corrispondente ANSA Remigio Benni, come dire che, per una casualità, subirà poi l’attentato. Ma Calvi e tutti i colleghi immaginano la meta di Ilaria: un incontro per parlare con qualcuno che lei sa poterle fornire quelle ambite prove di cui necessita il suo impianto di inchiesta. Quelle prove che aiuteranno il popolo somalo che lei ama, che aiuteranno quella terra a redimersi. La spiegazione dell’appuntamento con Benni non regge al semplice incrocio dei dati: un collaboratore somalo del giornalista afferma senza ombra di dubbi di avere incontrato Ilaria al suo arrivo in aeroporto e di averla informata che Benni e i suoi colleghi erano partiti per Nairobi.

L’auto con Ilaria e Miran arriva davanti all’Amana. Quella degli aggressori è già parcheggiata davanti a un chiosco che c’è di fronte. Entrano nell’hotel per pochi minuti, ne escono di corsa e risalgono in auto, ma la vettura degli aggressori a questo punto taglia loro la strada. Due Somali scendono, uno inizia a sparare, la macchina di Ilaria innesta la retro, fino a che si incastra contro un muro e lì si ferma.

Alcuni giornalisti accorrono, chiamati al telefono da Giancarlo Marocchino, imprenditore italiano in Somalia dal 1984, che lì ha fatto la sua fortuna. Uomo a cui tutti gli Italiani in Somalia sanno di poter rivolgersi per ogni cosa, per ogni supporto logistico, trovando ospitalità nella sua grande villa con decine di soldati a guardia, o di poter stipare merce nei suoi magazzini, o di poter noleggiare camion o adoperare il suo personale sistema di comunicazione, formato da una grande antenna e da una serie di ricetrasmittenti.

Marocchino è sul luogo dell’agguato. Chiama l’ambasciatore per informarlo dell’accaduto e chiedergli di accorrere e dare precise dritte sul da farsi, ma inspiegabilmente riceve un diniego: l’ambasciatore non può giungere sul posto. Marocchino impreca, è fagocitato dagli eventi, decide di far caricare su un suo camioncino i corpi di Ilaria e di Miran. Nel prenderla fra le braccia, le pare ancora viva… Intanto si nota sul luogo il colonnello Gaffo, alto ufficiale della polizia di Ali Mahdi. Era già lì? Sapeva forse dell’attentato? Nessun altro interviene, pur essendo la scena dell’imboscata a pochi passi dalla sede della polizia di Mogadiscio. Come è possibile? E perché non si palesa nessuna autorità italiana?

Marocchino, già in quegli attimi, parla subito di agguato: agguato bello e buono – dice – premeditato, avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. Intanto l’imprenditore compie approssimativi rilevamenti, fa partire indagini, raccoglie testimonianze. Tutto paradossalmente resta in mano sua. Chiama anche la nave Garibaldi, dove si trovano i militari italiani, ma nessuno arriva. I militari si limitano a dirgli di portare Ilaria e Miran all’aeroporto. Ma lui rifiuta: l’aeroporto è troppo lontano. Li porta, invece, al Porto Vecchio, che dista circa 800 metri da lì. I corpi vengono adagiati su una banchina del porto, arriva un medico con una specie di pompa per tentare la rianimazione – così testimoniano i giornalisti, nel frattempo accorsi – ma a breve il medico fa cenno di no, che non c’è più niente da fare. Le salme vengono caricate sull’elicottero che poi atterra sulla Garibaldi. Una collega giornalista presente, Marina Rini, si accorge che il sangue pompa ancora dal corpo di Ilaria che è stata immediatamente presa e portata nella piccola infermeria della nave. «Io l’ho ritrovata coperta dal lenzuolo» dirà, «le ho toccato una mano e l’ho sentita ancora tiepida, e poi mi han portato via».

 

Il mistero del materiale scomparso e i depistaggi.

La giornalista Mediaset Gabriella Simoni, col collega Giovanni Porzio, decidono intanto di andare a raccogliere gli effetti personali di Ilaria, in albergo. Ma qualcuno è probabilmente entrato prima di loro. In camera di Miran si trovano, infatti, solo poche cassette, la Simoni parla di 7 o 8 videocassette del girato, che si premura di riporre in un borsone blu; nella camera di Ilaria i taccuini ritrovati sono 5 (2 erano vuoti, secondo la Simoni), pieni di time code, questo se lo ricorda chiaramente, poi c’è il passaporto, gli oggetti personali… Tutto viene messo in una borsa Mandarina Duck.

Cosa è successo a quel materiale importantissimo? Sì, perché solo una parte arrivò poi a Roma. «Io ho preso questa borsa con le cose di Ilaria e l’ho sempre tenuta con me» dice Simoni. La borsa blu di Hrovatin viene presa e messa sotto chiave in una stanza della nave dal commissario di bordo. Infatti nell’inventario dei militari risultano solo le 10 cassette vergini.

«La borsa di Ilaria la tenni sempre con me» ripete Simoni; «dopo l’inventario venne chiusa e sigillata, la ripresi così al momento di salire sull’aereo, che fece tappa a Luxor per il rientro in Italia. I bagagli dovettero passare da un aereo all’altro. Io la lasciai solo allora: partì chiusa e sigillata». Sarà poi il giornalista Rai Bonavolontà ad ammettere di aver aperto con altri colleghi sull’aereo la Mandarina Duck, di aver rotto i sigilli e così arrivò a Roma il 22 marzo, aperta, e si verificò poi, senza i taccuini. Sulla Garibaldi non venne fatta una descrizione accurata del materiale. Le cassette non vennero inventariate, una per una e anche a Roma nessuna autorità si premurerà di metterle in sicurezza. Cosicchè resteranno per ben dieci anni custodite negli archivi Rai finchè, nel 2004, una Commissione ne disporrà il sequestro. Ne verranno trovate sei. Poche, si dirà, diranno i colleghi, per le tante e tante ore di girato, di Ilaria e Hrovatin.

Il 23 marzo è il giorno dei funerali di stato. Nessun autopsia è stata disposta sul corpo di Ilaria, non è stato ordinato il sequestro dell’auto su cui ha trovato la morte insieme a Miran, non si è considerata inquietante e degna di indagini la sparizione di tanto materiale, dei taccuini, di alcune videocassette… Inoltre qualcuno ha già messo in moto la macchina del depistaggio.

A poco a poco si inizia a proporre un altro movente, si fa strada la teoria di una sparatoria a scopo di rapina o rapimento dei giornalisti. Anche Marocchino, così categorico in principio nel sostenere l’imboscata, col tempo cambia versione e attesta l’opinione del tentato rapimento di Ilaria.

Nel rapporto stilato dai Servizi segreti italiani, «l’attentato mirato alla persona, ad opera di commando ben addestrato e pianificato sicuramente in precedenza» diventa, grazie a una cancellazione maldestra di queste righe, attentato per cui le indagini «si stanno orientando sulla tesi della tentata rapina». Ed è questo il rapporto definitivo, fatto circolare ufficialmente.

 

Le indagini e lo scoop sul testimone chiave.

Per un anno, nessuna novità sul caso Alpi. Fino ad arrivare al giugno ’95 quando un Somalo che vive in Italia si presenta alla Digos di Udine e dice di voler fornire rivelazioni importanti in merito al caso. Un investigatore del tempo racconta nel documentario di aver protetto la fonte, giudicata attendibile al 100%. Il testimone indica come mandanti dell’attentato Ali Mahdi e Munye, proprio il propietario della Compagnia Shifko. Fa anche il nome degli esecutori materiali, identificandoli in due poliziotti somali, uno dei quali sarebbe cittadino americano, in passato collaboratore della CIA. La procura di Roma, a questo punto, siamo nel luglio ’97, toglie inspiegabilmente l’indagine alla Digos di Udine e la affida alla Digos della capitale. Forse quella era stata la volta in cui, più di ogni altro momento, ci si stava avvicinando alla verità…

Ashi Omar Assan è invece l’uomo che si trova in carcere da 16 anni per l’omicidio di Ilaria e Miran. La soluzione al caso, scelta al tavolino della convenienza, del mascheramento di fatti illeciti e criminali. Una pagina nerissima della giustizia italiana, non esitano a definirla gli avvocati dell’uomo. Ashi, infatti, è stato condannato sulla base di elementi di prova labilissimi. L’ambasciatore Giuseppe Cassini, inviato in Italia dal Ministero degli Esteri, per cercare elementi di prova sull’uccisione di Ilaria e Miran (pur non avendone titolo, non essendo né magistrato né investigatore) in pochi mesi trova Jelle, un Somalo che si dice testimone dell’agguato, certo che a commettere l’omicidio sia stato tale Ashi Omar Assan, visto coi suoi stessi occhi dal momento che lui era lì, in quello stesso luogo. Jelle viene mandato in Italia subito, per formalizzare l’accusa a Ashi, ma incredibilmente, nel descrivere la scena dell’agguato, sbaglia addirittura il riferimento dei posti in cui si sarebbero trovati sull’auto Ilaria e Miran. Affermerà infatti che Ilaria fosse seduta sul sedile anteriore, mentre era su quello posteriore e davanti si trovava Miran. Vengono allora fatte visionare a Jelle delle riprese della televisione svizzera, e lui si riconosce in un uomo lì presente. Non bastando all’accusa un solo teste, anche l’autista di Ilaria viene fatto tornare in Italia. La prima volta dice di non ricordare niente, e la seconda, durante l’interrogatorio, confermerà quanto testimoniato da Jelle.

Si verrà a sapere in seguito che, dopo le prime due ore di interrogatorio, gli investigatori hanno fatto un’interruzione e si sono recati dall’ambasciatore Cassini a raccoglierne la testimonianza. Poi, al ritorno, e alla ripresa dell’interrogatorio, ecco che l’autista ha imporvvisamente ricordato tutto: Ashi era là, è stato lui a sparare a Ilaria e Hrovatin. Così Ashi viene convocato a Roma per testimoniare per un altro fatto, e appena sbarcato, il 12 gennaio 1998, viene arrestato. Jelle scapperà subito dopo la sua deposizione davanti al magistrato e alla Digos di Roma. È dunque irreperibile all’epoca del processo. E non testimonierà mai. Un uomo, Ashi, verrà quindi condannato senza la presenza in aula del fondamentale testimone d’accusa, senza la verifica diretta, il confronto, con la principale prova a suo carico. In Primo grado, nel 1999, viene ritenuto innocente e liberato. Al processo d’Appello, nel 2000, viene invece condannato all’ergastolo e poi definitivamente, in cassazione, a 26 anni di carcere…

Nel 2004, finalmente, viene istituita una Commissione d’inchiesta. A capo di essa, l’avvocato Taormina che, nel 2006, dispone il recupero dell’auto su cui sono stati uccisi Ilaria e Miran, senza peraltro che dalla commissione venga chiesto l’esame del DNA. Lo predispone, però, la Procura, due anni dopo. Si scoprirà così che il sangue ritrovato nell’auto non appartiene ad Ilaria. Il presidente della commissione Taormina, che ritenne senza ombra di dubbi che la macchina fosse davvero quella dell’agguato, chiuderà le sue indagini così: «Si è trattata di una rapina consumata in maniera improvvisa». E il traffico di armi? chiederanno i giornalisti a Taormina. «Tutte buffonate», risponderà. «Non è morta uccisa a causa delle sue inchieste?», insisteranno. «Ilaria non stava conducendo nessuna inchiesta giornalistica» continuerà Taormina, arrivando perfino ad affermare che «disse alla madre nell’ultima telefonata: io sto tanto bene qui, vorrei proseguire questa vacanza. Perché lei era lì in vacanza!» Parole vergognose che si commentano da sole.

Di poche settimane fa lo scoop della nota trasmissione televisiva Chi l’ha visto? Una delle giornaliste, Chiara Cazzaniga, riesce a rintracciare Jelle, il quale ammette di fronte alle telecamere di aver mentito; tutta la sua deposizione si fonda su di una bugia, da anni cerca di dirlo e di farsi credere. «L’accordo era che mi avrebbero aiutato, portandomi via dalla Somalia, dalla guerra, dandomi soldi, facendomi arrivare in Italia. Mi dissero: devi solo dire questo nome, solo questo nome e basta, devi dire che eri lì. Ma non ero io, e mi dispiace, ho mentito».

I genitori di Ilaria non hanno mai creduto alla colpevolezza di Assan. La mamma di Ilaria, Luciana, si è presa cura di lui: «è solo grazie a lei, che chiamo mamma Luciana, al fatto che abbia scritto ai magistrati, che io posso uscire una volta alla settimana dal carcere!» dice Ashi. «Non voglio impazzire, se no vincono loro, che sapevano che ero e sono innocente».

Attraverso Ashi si è voluto provare che il movente dell’agguato a Ilaria e Miran fosse una rapina e che Ashi fosse il rapinatore. Un capro espiatorio e un movente, dicono gli avvocati di Assan.

Perché, per due decenni e più, si fa di tutto per insabbiare il caso Alpi? Una tragica vicenda, così complessa e articolata da investire magistratura, politica, forze dell’ordine e servizi segreti. Per 21 anni, senza mai mollare di un centimetro? Perché la verità sottesa è grande, e deve essere tenuta nascosta. Perché c’è una nozione di Sistema che non collima con la democrazia.

Ilaria, già negli intervalli dei suoi primi viaggi in Somalia, andò dal giudice Casson a chiedere informazioni relativamente alle indagini da lui condotte sul traffico d’armi, con coinvolgimento dei servizi segreti italiani. Era questo il più grande interesse giornalistico, e umano, di Ilaria. «È lo scoop della mia vita», dice Ilaria a Calvi che non può accompagnarla. Quella volta, convinta di poter finalmente portare a casa le prove.

 

Annagloria Del Piano

 

 

ILARIA ALPI. L’ultimo viaggio

Scritto da Claudio Canepari, Mariano Cirino, Massimo Fiocchi, Lisa Iotti

Docu-fiction di Rai 3, trasmesso l'11 aprie 2015


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