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Maria G. Di Rienzo. Morire di poesia
06 Maggio 2012
 

Nadia Anjuman, artista afgana (foto), morì nel 2005 del brutale pestaggio di suo marito. Aveva 25 anni. Le sue “colpe” erano l’aver pubblicato le sue poesie ed essere diventata famosa in ragione di ciò. In Afghanistan si può morire di errori umanitari, di armi intelligentissime maneggiate purtroppo da perfetti idioti, di matrimonio, di parto, di religione, di etnia, di papaveri da oppio, persino di scuola. La scelta è così vasta, soprattutto per le donne, che sono qui a domandarmi se era proprio necessario aggiungerci dell’altro. Ma tant’è: le mie simili, in Afghanistan, possono morire anche di poesia.

La maggiore associazione di scrittrici e letterate, nel paese, si chiama Mirman Baheer ed è la versione contemporanea dell’associazione Ago d’Oro dell’epoca talebana in cui le donne di Herat, fingendo di cucire, si riunivano per discutere di letteratura. A Kabul, l’associazione odierna non ha bisogno di nascondersi: ne fanno parte insegnanti universitarie, parlamentari, giornaliste, intellettuali che hanno una vita pubblica e le facce scoperte. Ma per le restanti 300 socie delle province Mirman Baheer funziona come una setta segreta. Al telefono dell’associazione c’è sempre una donna, Ogai Amail, che aspetta in orari concordati le loro chiamate: le socie le recitano le poesie che non è loro permesso creare e la volontaria, anch’ella poeta, le trascrive verso dopo verso.

Zarmina (che firmava le sue poesie con lo pseudonimo “Rahila”) viveva a Gereshk, a circa 600 chilometri da Kabul. Si mise in contatto con il gruppo dopo aver ascoltato alcune sue socie recitare poesie alla radio. A Zarmina, adolescente, non era permesso uscire di casa. La radio era il suo solo tramite per il mondo esterno e le telefonate doveva farle di nascosto. «Era giovanissima, ma il suo lavoro era già impressionante per ricercatezza, originalità e coraggio», ricorda Ogai Amail. «E la sua urgenza di creare era assoluta. Ad esempio, non sopportava i ritardi o le dilazioni nei nostri colloqui telefonici e a volte mi rimproverava con un landai di questo tipo: Io sto gridando ma tu non rispondi. / Un giorno mi cercherai ed io me ne sarò andata da questo mondo».

Landai significa “piccolo serpente velenoso” in lingua Pashto: si tratta di poesie popolari, composte da due versi, che perdono la loro origine non appena vengono recitate. Un landai non appartiene neppure a chi lo crea, le persone dicono di “ripeterlo” o di “condividerlo” anche quando è nato nella loro mente. Gli uomini possono inventare e recitare queste poesie che però, quasi esclusivamente, hanno per voce narrante una donna. «I landai appartengono alle donne», dice Safia Siqqidi, poeta ed ex parlamentare afgana. «Nel nostro paese, la poesia è il movimento delle donne dall’interno». La poesia pashtun ha una lunga storia come forma di ribellione delle donne afgane. E i landai sono di solito micidiali proprio come il morso di un serpente velenoso: diretti, sboccati, concreti, arrabbiati, sensuali, buffi, tragici, vanno diritti al cuore della questione che affrontano. I matrimoni imposti, odiati e derisi tramite dettagli grafici, sono un bersaglio frequente di questo tipo di poesia.

Zarmina usava diversi metri poetici per descrivere “la buia gabbia”, cioè le costrizioni che soffocavano la sua vita, e chiedeva ragione a dio e all’umanità di tanta sofferenza: Perché non mi trovo in un mondo in cui la gente possa sentire quel che io sento ed udire la mia voce? Nell’Islam, Dio amò il Profeta Maometto. Io sto in una società dove l’amore è un crimine. Se siamo musulmani, perché siamo nemici dell’amore?

Due anni orsono, Zarmina stava leggendo al telefono le sue poesie d’amore quando la cognata la sorprese. «Quanti amanti hai?», le chiese sprezzante. L’intera famiglia sposò questa tesi. Dall’altra parte del filo doveva esserci sicuramente un giovanotto. I fratelli si produssero in un regolare pestaggio della ragazza e fecero a pezzi tutti i suoi quaderni di poesie. Due settimane più tardi, Zarmina si diede fuoco e morì all’ospedale di Kandahar dopo sette lunghi giorni d’agonia. Non aveva che 17 anni.

Zarmina era stata fidanzata dal padre ad un cugino coetaneo quando era una bambina, ma il fato era stato generoso e i due si erano innamorati sul serio. Quando però saltò fuori che la famiglia del ragazzo non poteva pagare la dote richiesta dal padre di Zarmina, quest’ultimo sciolse il fidanzamento. Il ragazzo, saputo della morte dell’ex fidanzata, ha tentato di uccidersi lui stesso pugnalandosi al petto più volte. L’anno scorso i familiari gli hanno arrangiato un matrimonio e lo hanno spedito ben distante.

Durante le due settimane trascorse fra il pestaggio e il suicidio, Zarmina non disse ad Amail quanto era disperata. Le recitò però un altro landai: O giorno del giudizio, dirò a voce alta / Vengo dal mondo con il cuore pieno di speranza. «Stupida, le risposi, non dire così. Sei troppo giovane per morire», ricorda ancora Ogai Amail, «Zarmina è solo la più recente delle poete-martiri afgane. Ce ne sono centinaia come lei. Tutte le giovani artiste che ci chiamano al telefono sono in una posizione molto pericolosa. Sono tenute dietro alte mura, sotto lo stretto controllo degli uomini. Io sono la nuova Rahila, mi ha detto di recente una di loro, Registra la mia voce, così quando verrò uccisa ti resterà qualcosa di me». Amail l’ha ovviamente rimproverata, ma pensa che sarebbe bello avere un registratore, averlo avuto quando Zarmina-Rahila recitava le sue poesie ed ora poterla riascoltare. La nuova Rahila ha scelto come pseudonimo “Meena Muska” (Sorriso d’Amore, in Pashto). Non sa quanti anni ha, perché è una femmina e nessuno si è preso la briga di registrare la sua data di nascita. Se le chiedete la sua età (dovrebbe avere circa 17 anni) lei vi risponderà poeticamente: Sono un tulipano nel deserto. Muoio prima di sbocciare, e le onde della brezza del deserto soffiano via i miei petali. A differenza della musa che si è scelta, Meena può contare su qualche sostegno in famiglia: sua madre e la sua meira, l’altra moglie di suo padre, amano le sue poesie e la proteggono. Se gli uomini della famiglia sapessero che scrive poesie la loro reazione sarebbe identica a quella dei parenti di Zarmina. «Una brava ragazza non ha voglia di studiare, non scrive, non legge», spiega Meena. Dice anche che deve ancora lavorare molto per raggiungere nei suoi versi uno standard qualitativo che la soddisfi. Io la trovo già interessante. Se la lasciano vivere, l’arguzia che mostra potrebbe regalarci diverse delizie. Uno dei suoi landai recita: O separazione! Spero che tu muoia giovane. / Perché sei tu quella che dà fuoco alle case degli amanti.

Il membro più giovane dell’associazione Mirman Baheer è una ragazza di 15 anni, Lima. Ha iniziato a creare poesie quando ne aveva 11 ed era analfabeta. Indirizzava versi a Dio e li ripeteva a suo padre. Costui, un ingegnere, ne restò meravigliato e compiaciuto («Perché non sa granché di poesia», scherza Lima) e decise di portare tutte le figlie all’associazione delle letterate affinché imparassero a leggere e scrivere. L’ultimo lavoro di Lima è un rubaiyat, un tipo di quartina araba, e dice: Non mi permetti di andare a scuola. / Allora non diventerò una medica. / Ricorda questo: / un giorno anche tu ti ammalerai.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Lunanuvola's Blog, 5 maggio 2012)


Foto allegate

Scuola domestica afgana
 
 
 
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