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Marisa Cecchetti. “Mi sa che fuori è primavera” di Concita De Gregorio
18 Ottobre 2015
 

Concita De Gregorio

Mi sa che fuori è primavera

Feltrinelli 2015, pp. 128, € 13,00

 

Colei che accoglie Irina Lucidi le dà ascolto e dà voce alle sua storia, sa capirne l’anima, sa accompagnarla nei recessi più ineffabili del dolore, quasi a prenderlo un po’ sulle sue spalle per renderlo più gestibile. È immediato un rimando alla ricerca d’autore dei sei personaggi pirandelliani.

Mi sa che fuori è primavera si ispira a fatti realmente accaduti che Concita De Gregorio ricostruisce in modo romanzesco. Si tratta delle gemelle Alessia e Livia, di sei anni, che il padre Mathias fece scomparire prima di togliersi la vita buttandosi sotto un treno a Cerignola. Lui ingegnere svizzero, la madre avvocato di origine italiana, entrambi realizzati nel lavoro e genitori premurosi. Poi la manifestazione di una nevrosi sempre più sconcertante in Mathias porta la moglie a chiedere la separazione che lui accetta con apparente razionalità, in realtà motivo scatenante di gesti folli.

Non si sono più trovate tracce delle bambine, non si sa che fine abbiano fatto dopo essersi imbarcate col padre per la Corsica -viaggio di cui esistono prove-. Il padre è tornato solo dalla Corsica.

È un romanzo sull’assenza, oggettivo e toccante, realistico e ricco di umana pietas e insieme di poesia. Non ci sono parole italiane, secondo la ricerca della De Gregorio, per definire la condizione di una madre che perde un figlio, esistono solo in ebraico, in arabo, in sanscrito. Ne è espressione ciò che dice una madre sulla tomba del figlio: la mia vecchiaia sarà vuota di te.

Perdere un figlio è il dolore in assoluto per una madre con cui deve fare i conti per tutta la vita, non c’è uno scorrere del tempo che possa lenire quel dolore o farlo dimenticare. C’è solo da trovargli il posto giusto dentro di noi, vicino al cuore, per camminare insieme, accarezzandolo anche quando si torna a sorridere.

Il luogo dove giace un figlio è il suo ultimo posto sulla terra, e lì il dolore prende forma di un fiore e di una carezza fredda. Non sapere niente della fine di due figlie – se sono morte e dove riposano, chi ha tolto loro la vita e come, se sono altrove e con chi – è avere un cane che morde il tuo cuore. Sempre.

Già il Foscolo crea la consolazione di una eternità legata al ricordo -non si scompare davvero finché qualcuno tiene vivo il ricordo-, e questo scriveva Albert Einstein per la morte di un amico, “le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione” (In: Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi 2014, pag. 65). Siamo immersi in un eterno presente in cui avviene ogni cosa. Ma anche questo non può bastare a consolazione.

Non è facile per una madre sopravvivere a questa violenza, allo strappo, al vuoto totale. Ma è proprio l’amore per Alessia e Livia che porta di nuovo ad Irina la forza di vivere. Per non arrendersi nelle indagini. Per creare in Svizzera una organizzazione che si occupi dei bambini scomparsi. Per andare fino alle radici del male, per cercare le somiglianze, le coincidenze, i corsi e ricorsi anche nella storia delle famiglie.

Per realizzare questi obiettivi c’è bisogno di ritrovare la forza, e quella può venire soprattutto dalla riscoperta della gioia. Non una madre vestita di nero e senza sorriso per tutta la vita: si può ritrovare la gioia, quella che nasce da un nuovo amore, mentre si tiene dentro un dolore così grande, infinito. Nessuno te lo toglie, come nessuno ti può negare il diritto di vivere la primavera che torna. Per Irina vivere diventa un dovere.

 

Marisa Cecchetti


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