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Mauro Raimondi. De milanesitate
01 Settembre 2009
 

In questa rubrica che si inaugura oggi parleremo di Lei, la nostra croce e delizia. Della sua storia passata, che l’ha vista spesso all’avanguardia. O di quella attuale, più incerta e contraddittoria. Parleremo Del Nost Milan, insomma, la cui identità è oggetto di discussione. E non solo per i cambiamenti che si succedono veloci (la storia va di corsa, si sa), ma anche perché molti la tirano dalla loro parte, l’identità di Milano, cose se fosse una giacca.

E allora, visto che proprio quelli che si vantano di essere i paladini della milanesità, come vedremo, non sanno cosa dicono, pensiamo sia fondamentale chiarire di cosa si tratti, visto che il genius loci di una città non si può trasformare a proprio uso e consumo: è qualcosa che c’è sempre stato, e comunque rimane anche se talvolta si nasconde.

Nei tempi passati, molti hanno definito Milano e i suoi abitanti. Il poeta Ausonio, nel IV secolo d.C. e perciò all’epoca di Sant’Ambrogio, parla della “nostra” indole affabile, della contentezza nel vivere tipica dei milanesi. Un’impressione confermata più di mille anni dopo dal pellegrino Von Harff, di passaggio a Milano nel 1496, che diceva: «I nostri milanesi sono splendidissimi in tutti i loro conviti e par loro di non saper vivere se non vivono e mangiano sempre in compagnia».

Gente che se la gode, insomma, anche se già allora un po’ attaccata ai soldi, come ci rivela Montesquieu nel 1728, scrivendo che «i francesi lavorano per accumulare e spendere subito. Sembra che abbiano una mano avara e l’altra prodiga. Sono al tempo stesso, milanesi e fiorentini». Una caratteristica, quella dell’amore per i danee, che ritorna in Pierre Jean Grosley, il quale nello stesso periodo ci rivela come i milanesi dividessero a Parigi con gli ebrei tutti i commerci in denaro o valori e che «i piccoli guadagni li allettano tanto, che non vi possono rinunciare, sia nei più grossi affari, sia in quelli fatti a titolo d’amicizia». E sulla stessa strada si pone l’astronomo Joseph Jerome De Lalande, secondo cui i milanesi «sono noti per la loro diffidenza; inoltre si rimprovera loro di fare economia sino all’eccesso. I mercanti aprono presto e chiudono tardi, e qui ciascuno lavora più che nel resto d’Italia».

Laura laura la vita la va in malora”, dice infatti un noto proverbio meneghino, ed evidentemente questo modo di dire ha origine lontane. Ma la nostra identità ha anche altri aspetti, come espone il Parini: «Noi milanesi, siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e la schiettezza dell’animo; e per quella cruda e amorevole cordialità che è il più soave legame della società umana». Certo, il nostro abate, forse non era proprio obiettivo. Tuttavia questo carattere diretto e nello stesso tempo gioviale, che riprende la definizione di Ausonio, ricompare pure in Stendhal: «Il popolo milanese riunisce in sé due cose che non ho mai visto insieme nella stessa misura: la sagacia e la bontà». E se anche lui potrebbe non sembrarvi al di sopra delle parti, vista la sua passione per Milano, vi proponiamo il giudizio del meno conosciuto Burckhardt, uno storico dell’arte svizzero che così ci definisce nel 1838: «Sempre allegri e sempre curiosi, cosicché non ci si sazia mai di starli a guardare essendo il milanese, a dispetto del berlinese, una persona di spirito».

Al che, la mazzata che ci picchia Shelley («Gli uomini possono a stento definirsi tali, sembrano una tribù di schiavi stupidi e avvizziti e, da quando ho varcato le Alpi, non mi pare di aver scorto nel loro volto un barlume di intelligenza»), pare più motivata da un momento di cattivo umore che di verità. Pure il londinese John Ruskin, di fatti, negli stessi anni sostiene che «questa Milano continua a piacermi come sempre; è assai più italiana di Firenze per quanto riguarda la gente: non vieni infastidito o interrotto di continuo». Una riservatezza (che qualcuno scambia ancora, erroneamente, per freddezza), in seguito confermata dallo scrittore ceco Karel Capek nel 1923: «La popolazione non dorme sui marciapiedi, né appende per strada la biancheria sporca, non bastona le bestie, non cuce le scarpe in mezzo alla strada, non canta le barcarole, in breve, non fa nulla di pittoresco; ma diamine, qui si respira meglio, sebbene non sia la stessa aria di un glorioso passato».

Come vedete, le caratteristiche della nostra identità, nel bene (amare una vita agiata, l’allegria, una sobrietà che tra l’altro nega la milanesità della figura del bauscia) e nel male (un eccesso di attaccamento ai soldi e al lavoro) ci sono tutte, ma chi le riassume alla perfezione è Carlo Castellaneta che nel Dizionario di Milano così scrive: «A me sembra di poterle ravvisare anzitutto nella professionalità, cioè nel culto del lavoro ben fatto, nella intraprendenza, nella bonomia, nella adattabilità alle situazioni più diverse. Il risultato di questo mixing è appunto la milanesità, una specie di filosofia della vita fondata sull’analisi della realtà, che non tiene tanto in conto le origini sociali degli individui o il censo, quanto il loro attaccamento al lavoro, al piacere del guadagno, e insieme alla generosità verso il prossimo e all’apertura mentale, cioè alla mancanza di pregiudizi razziali, religiosi o politici».

E sottolineando queste ultime parole, vi invito assolutamente a diffidare di chi dice e fa il contrario: attualmente, purtroppo, molti che amano definirsi “milanesi”. Ma non lo sono. E lo dice la Storia. Salùdi.

 

Mauro Raimondi


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