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Gianfranco Cercone. “Romeo e Giulietta” a Broadway sono nostri contemporanei
05 Agosto 2014
   

Una nuova, lodevole tendenza sta prendendo piede nelle sale cinematografiche: presentare, sia pure per poche giornate prefissate, le riprese in alta definizione di spettacoli teatrali inglesi e americani. Si tratta perlopiù di opere liriche o di messe in scena di testi di Shakespeare. Tali riprese non costituiscono dei film. Sono documenti di spettacoli, che mancano ovviamente dell’elemento basilare del teatro che è la presenza viva degli attori. Ma ci consentono di farci un’idea di come si faccia teatro a Londra o a New York.

Per esempio, è stata presentata in questi giorni nei cinema italiani, l’edizione del Romeo e Giulietta, andata in scena l’altr’anno al Rodgers Theatre di Broadway, nella quale Romeo era interpretato da un divo del cinema: Orlando Bloom (che però, va detto, era vistosamente l’attore meno bravo di una splendida compagnia).

Romeo e Giulietta è spesso rappresentato anche in Italia; e qualche volta bene e con successo. Ma, generalizzando, l’impostazione dello spettacolo americano si basa su principi diversi dai nostri.

Nei paesi anglosassoni non si è affermato, come da noi, il cosiddetto “teatro di regia”. E lì non capita dunque che l’interpretazione critica del regista sul testo rappresentato, si sovrapponga al racconto scenico, e qualche volta lo complichi e magari lo confonda. Lì si vuole che il teatro sia il più possibile popolare. E dunque il racconto deve essere ben chiaro, agile, avvincente, tale da favorire l’immedesimazione del pubblico nei personaggi, come spesso capita di fronte a un film.

Il Romeo e Giulietta, nell’edizione di Broadway (affidata a un regista britannico: David Levaux) diventa una tragedia a sfondo razziale. Romeo appartiene alla famiglia bianca dei Montecchi; Giulietta alla famiglia nera dei Capuleti. E un muro scrostato verniciato di scritte che fa da fondale ad alcune scene, così come il look da teppisti di strada di alcuni dei personaggi, suggeriscono che l’ambientazione è spostata dalla Verona del Rinascimento alle metropoli di oggi, dai quartieri dominati da bande etniche.

Del resto perché i Montecchi e i Capuleti si combattessero tra loro, Shakespeare non ce lo svela. E non ci pare che sia del tutto chiaro nemmeno ai contendenti. Si tratta di una faida familiare le cui origini si perdono nella notte dei tempi; e che proprio per la sua indefinitezza si presta a fare da modello a ogni scontro armato tra fazioni e a ogni guerra civile.

Certo è che le notti d’estate, oggi come allora, possono accendere i sensi dei giovani disponendoli al sesso come alla violenza. E la sottocultura, uno dei cui ingredienti, oggi come allora, è il virilismo, può far sì che lo scherzo osceno e l’invettiva scurrile degenerino nella rissa e, nei casi più sciagurati, nell’omicidio.

Si dice che l’amore accechi. Ma nel Romeo e Giulietta i due protagonisti, che si perdono nel loro amore come in una fantasticheria, allo stesso tempo si risvegliano dall’incubo di una contesa cruenta, che sembrava destinata a durare per sempre; e che all’improvviso, almeno per qualche tempo, a loro risulta irreale. E poi, quando quella contesa li avrà uccisi, intorno ai loro cadaveri, si “risveglieranno” anche le loro famiglie, comprendendo alla fine, troppo tardi, che in questa vita bisogna moltiplicare gli sforzi non a combattersi e a distruggersi, ma a trovare un modo per andare d’accordo.

È un messaggio semplice, che può apparire ingenuo. Ma lo spettacolo di Broadway ha il merito di farlo rimbalzare, con efficacia, con forza emotiva, per più diramazioni, sui giorni nostri.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 4 agosto 2014)


 
 
 
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