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Matteo Moca. Il meccanismo vittimario 
“Critica della vittima” di Daniele Giglioli
11 Luglio 2014
 

Il titolo del libro di Daniele Giglioli (professore di Letterature Comparate all'università di Bergamo), si completa con la dicitura “Un esperimento con l'etica” (edito da Nottetempo). Ed è quanto, appena finito di leggerlo, si realizza. La ricerca che Giglioli persegue attraverso queste pagine, si distacca infatti da una critica intesa in senso accademico e militante. È lo stesso Giglioli a confessarlo in un'intervista a Lo Straniero, dicendo come non si sia soffermato su una critica letteraria tradizionalmente intesa, ma su una critica che sia “postura esistenziale”, una critica che coincida con l'illuminismo, con la modernità e con la rivoluzione. Ed infatti non si parla di autori letterari se non en passant (e non sempre in maniera positiva, come capita ad Arbasino e Moresco), ma ci si concentra su autori fondamentali circa una riflessione sociologica seria ed approfondita; giusto per fare alcuni nomi, Jacques Lacan per “Il discorso del padrone” che sfocia oggi nel discorso del capitalista, Roberto Esposito per il paradigma immunitario, Elias Canetti per il rapporto tra massa e potere e tutti gli autori facenti parte dell'enciclopedia di Giglioli.

Ma quale è l'obiettivo del libro di Giglioli? La sua definizione è chiara fin dalle prime pagine, fin dalla desueta epigrafe tratta dall'enciclopedia Treccani, recante la definizione di vittimario e, ancor più emblematica, nelle prime parole del libro: “La vittima è l'eroe del nostro tempo”. Giglioli procede evidenziando come lo status di vittima consegni prestigio, imponga ascolto, prometta riconoscimento e di come, più in generale, attivi un “potente generatore di identità, diritto e autostima”. Tutto questo perché, ed è qui la base del libro, Giglioli crede che, quella vittimaria, sia la macchina oggi prevalente. Per quanto si debba stare attentissimi circa i confini di questa definizione, è difficile dargli torto. Basta aprire un quotidiano, ascoltare qualche discorso pubblico e, nel nostro mondo più piccolo, dare un'occhiata ai post dei nostri contatti di Facebook, per vedere l'evidenza. Ognuno, che sia per captatio benevoletiae o per altri fini, espone prima di tutto la sua condizione accentuando l'ingiustizia, i torti subiti e tutto ciò che possa essere, nello stesso tempo, identità vittimaria e molla per il rilancio. Giglioli non si concentra, almeno in maniera esplicita, sul mondo politico odierno ma è facile leggere, in controluce, quanto questo meccanismo caratterizzante la nostra epoca sia presente negli schieramenti (più o meno) politici.

Da questi presupposti parte il viaggio di questo pamphlet, mirabile per la sua acutezza e brevità, che coinvolge costume, cronaca, filosofia e diritto. Altra grande intuizione il fatto che, per quanto possa suonare paradossale, il soggetto che si identifica con questo meccanismo vittimario, e che quindi, sottolineo, non è una vera vittima, rafforza la sua figura e il suo status che, già di partenza, lo vede forte. Le conseguenze di questo sono un ulteriore aumento di potenza e quindi un indebolimento dell'altro con l'irrigidimento delle identità, con l'impossibilità di trasformazioni e con la privatizzazione della storia (personale e collettiva); questo potrebbe essere un nuovo tassello per quella mitologia del capro espiatorio che René Girard ha avuto l'arguzia di osservare, in particolare nell'individuare un soggetto che idealizzi le sfortune della vittima.

 

Quando si parla di vittime non si può prescindere dall'Olocausto e infatti neanche Giglioli lo fa, ponendo in luce però aspetti più oscuri e meno noti al grande pubblico. Presupponendo questa storia nera come parametro attraverso cui ricostruire il vero statuto di vittima, Giglioli compie però un passo avanti, non fermandosi alla tragedia intercorsa durante la seconda guerra mondiale ma andando a concentrarsi su quello che è accaduto dopo. Illuminante il breve riferimento alla disputa nata sul finire degli anni'80 in Germania, riguardo alle tesi revisioniste propugnate da Ernst Nolte. Lo storico (fortunatamente poi screditato soprattutto per i suoi riferimenti sull'effettività delle camere a gas), non aveva in mente di riabilitare la figura di Hitler ma di spiegare le azioni del nazismo come risposta alle atrocità perpetrate dai bolscevichi che, camere a gas a parte, avevano già anticipato le tristi opere del terzo Reich. Ecco ancora venire fuori il meccanismo vittimario, “poiché si ritenevano vittime, hanno fatto quello che hanno fatto”. Ancor più importante il riferimento a come gli ebrei hanno tentato di metabolizzare una simile follia omicida. Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, sposta le coordinate dalla “vergogna alla fierezza”, dopo che personaggi come Amery e Levi avevano dedicato la loro vita a cercare di risanare quella ferita insanabile. Giglioli individua nelle teoria di Wiesel (e più in particolare tra il 1961, anno del processo a Eichmann e il 1967, anno delle guerra dei Sei Giorni), “uno sconvolgimento tettonico che ha sottratto i testimoni al cono d'ombra in cui giacevano per proiettarli al centro della scena”. Se questo processo costituiva un comprensibile e giusto punto di partenza per la ricostruzione nazionale ed individuale, con il passare del tempo ha perso questo connotato per imporsi come un “lasciapassare metastorico capace di esentare le leadership israeliane da ogni critica”.

Il libro si chiude con la consapevolezza della necessità di tornare alla prassi secondo itinerari però non ancora conosciuti. Eppure le teorie contenute in questo libro, pur non dando istruzioni, offrono strumenti per fondare una prima guida, un disegno che preveda una caratterizzazione più o meno precisa della prassi, evitando la ricaduta nella macchina vittimaria.

 

Matteo Moca


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