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Daniele Mutino e il tempo che verrà 
Il “teatro povero” e i magnifici cartelloni illustrati di Assunta Petrocchi
(foto di Adolfo Brunacci)
(foto di Adolfo Brunacci) 
03 Marzo 2023
 

Visione e progetti del musicista e cantastorie ‒ Premio di Street Theatre “Dante & Shakespeare” 2022, attualmente in tournée con lo spettacolo teatrale di Silvio Orlando “La vita davanti a sé”

 

La figura del cantastorie è in effetti un ponte tra passato e futuro. Anzi, di più: fra leggenda e cronaca, mito e storia. Il cantastorie guarda all’urgenza della storia attingendo ai simboli onirici del mito, rinchiusi in forzieri senza tempo posti alle radici stesse dell’animo umano”

 

Nella Grecia arcaica, agli albori della nostra civiltà, l’aedo omerico, prototipo della figura del cantastorie, raccontava attraverso il mito cantato i fatti della guerra di Troia, avvenuti diversi secoli prima. Analogamente anche i cantastorie medioevali trasformavano la Storia in Mito cantato […].

Ancora nel recente dopoguerra, le vicende del bandito Salvatore Giuliano sono state narrate dai cantastorie, nelle piazze della Sicilia, con grande seguito popolare. In quegli anni nel Sud Italia ancora non c’era la televisione e la gente comune, essendo in gran parte analfabeta, non poteva leggere i giornali: l’informazione era portata dai cantastorie che giravano di paese in paese, raccontando e cantando i fatti di cronaca recentemente accaduti, come una sorta di telegiornale ambulante […].

Alla fine degli anni sessanta, con l’avvento della televisione, con la scolarizzazione, l’invasione delle piazze da parte delle automobili, l’uomo sulla Luna, il cantastorie scompare e permane ormai solo come sporadica sopravvivenza relegata nella marginalità del folklore e del teatro per bambini. La diffusione delle notizie di cronaca è oggi monopolio dei media, che hanno acquisito un ruolo davvero preponderante nella nostra vita: siamo infatti ormai oggetto di un vero e proprio bombardamento mediatico di notizie, in gran parte cariche di violenza e negatività, che ci vengono scaricate addosso a palate, senza sosta, ogni giorno, spesso mischiate alle fake news senza criterio di verifica possibile, tanto che diventa sempre più difficile trovare chiavi di comprensione ed elaborazione di quel che ci succede intorno […].

Rispetto a tutto questo sono convinto che il recupero della figura del cantastorie possa avere una sua funzione socialmente terapeutica. Il cantastorie opera con uno scarto temporale decisivo, non interviene nell’urgenza continua imposta dalla frenesia del mondo, ma lascia che le notizie, consumate velocemente dai fast food dell’informazione, vengano puntualmente dimenticate; allora va a guardare nelle discariche della memoria per scegliersi, tra tutte le notizie lì abbandonate, solo quelle veramente importanti, che vale la pena recuperare alla luce della coscienza collettiva. Questo scarto temporale consente di riguardare ai fatti di cronaca attraverso i valori e i simboli sedimentati da sempre nel mito, che forniscono precise chiavi di comprensione: gli stessi eventi sono già avvenuti milioni di volte, ed appartengono ad una storia in gran parte già scritta e già compresa dalla civiltà, che su questi fatti ha forgiato il proprio buon senso comune. Questo buon senso comune ci fornisce in ogni caso strumenti utili a comprendere anche quanto c’è di effettivamente nuovo negli eventi raccontati.

È necessario per questo trovare oggi nuovi spazi e nuove forme d’espressione. In questo senso io guardo comunque e sempre al teatro, come luogo di presenza reale e non virtuale, anche se un teatro povero, in grado di svilupparsi autonomamente dai mass media e senza grandi strutture produttive e finanziarie, e soprattutto in grado di muoversi agilmente anche fuori dai teatri e dai luoghi preposti allo spettacolo, per andare ad incontrare la gente nei luoghi dove essa normalmente vive: piazze, mercati, scuole, parrocchie, e magari anche centri commerciali e carceri. Il teatro, secondo me, specie quando sviluppa una vicinanza significativa tra attori e spettatori, è una forma comunicativa privilegiata in grado di incidere profondamente nelle coscienze delle persone, ma il problema attuale del teatro è che finisce per coinvolgere solo determinate selezionate categorie di persone, mentre dovrebbe tornare ad avere un impatto generico, sulla gente comune. La mia formazione artistica, come abbiamo raccontato, è legata al teatro di strada e al teatro grotowskijano, insomma ad un teatro “povero” che vive fuori dai circuiti dello spettacolo senza bisogno di grandi finanziamenti, e che, come teatro di strada, è in grado di coinvolgere gente di ogni tipo e condizione.

Dal punto di vista produttivo e della qualità espressa, l’ho incontrato solo lavorando a New York nel 2017 con The new light fantastic company, una compagnia teatrale diretta e prodotta dal regista Per Janson: questa è stata in assoluto l’esperienza teatrale più bella di tutta la mia vita. Ho conosciuto Per Janson nel 2007, in un festival di cantastorie in Calabria, diretto da Nino Racco. Lui era lì per studiare teatro, e, sotto la direzione di Nino, mettemmo su insieme un piccolo spettacolo da fare nelle piazze per annunciare il festival. Dieci anni dopo, Janson, diventato regista e produttore dei propri spettacoli, mi ha chiamato a New York a lavorare con la sua compagnia, che ha la particolarità di portare il teatro in quelle che loro chiamano “non traditional venues”, ovvero luoghi non preposti agli spettacoli. Per essere più agili e versatili, e poter fare teatro ovunque, utilizzano pochissime strutture accessorie: scenografie minimali, trasportabili tutte in un piccolo furgoncino insieme ai costumi; non ci sono apparati per l’illuminazione scenica e l’amplificazione, dato che gli spettacoli utilizzano rigorosamente la luce e l’acustica del luogo, anche quando queste non sono favorevoli. Come nel teatro medioevale e in quello di strada, gli attori recitano senza una frontalità, al centro di una scena circolare, anzi quadrata, a contatto diretto con gli spettatori che sono disposti sul perimetro della scena, con gli angoli della stessa utilizzati per le entrate e le uscite. Teatro povero, quindi, finanziato all’origine da un crowdfunding che fa leva sul particolare sistema fiscale statunitense, per cui i finanziatori sono invogliati dal fatto di poter scaricare dalle tasse le loro donazioni, come forma di beneficenza. La compagnia fa infatti spettacolo in luoghi di sofferenza e bisogno: carceri, residence per homeless, centri per anziani, centri per veterani di guerra.

Per due mesi ho fatto da musicista in scena, con la mia fisarmonica, nel loro allestimento di A view from the bridge di Arthur Miller, capolavoro in cui viene raccontata una torbida vicenda di emigrati siciliani realmente avvenuta a Red Hook, il quartiere portuale di Brooklyn. Abbiamo portato questo spettacolo in numerosi istituti sparsi negli immensi quartieri di New York City. Al di là dell’incredibile esperienza umana, mi ha colpito la dedizione assoluta del lavoro di Per e della sua straordinaria compagnia: hanno dedicato mesi e mesi di lavoro quotidiano alla costruzione di questo spettacolo, con grande rispetto del testo, meticolosità nel lavoro sul personaggio, attenzione ai minimi particolari di ogni cosa, specie riguardo ai tempi scenici, e tutto ciò anche se lo spettacolo era destinato ad un pubblico presumibilmente non esperto. Eppure, proprio in virtù del grande lavoro svolto nella dedizione assoluta, il risultato è stato uno spettacolo in grado, pur nella sua essenzialità, di tenere incollate per due ore le persone alla sedia, in un crescendo emotivo sempre straordinario, tanto che poi alla fine, dopo lo spettacolo, gli spettatori rimanevano ancora a compilare con entusiasmo il modulo in cui si chiedeva loro un feed back.

In alcuni luoghi poteva succedere che inizialmente ci fossero persone non predisposte favorevolmente, che di proposito disturbavano, anche provocando, proprio come spesso può capitare nel teatro di strada: ma la forza interiore dello spettacolo era tale che, puntualmente, alla fine del primo atto, ogni disturbo era svanito, e tutti i presenti erano talmente avvinti e partecipi alla storia rappresentata che sembrava non esistesse più nient’altro al mondo. Certo un ruolo importante lo giocava il testo, scritto da Arthur Miller su un vero fatto di cronaca, una storia di immigrati in cui magari tanti dei nostri spettatori, vissuti nella marginalità sociale, finivano per identificarsi. Ma era sicuramente la qualità e la profondità del lavoro a costituire l’elemento decisivo per riuscire ad entrare con tanta forza in luoghi di dolore e marginalità dove il teatro non è nemmeno previsto. La cosa più bella di questa formula produttiva è che gli istituti dove fare lo spettacolo vengono scelti liberamente dalla compagnia, che si propone gratuitamente senza alcun tipo di rimborso o biglietto, in quanto il progetto è già interamente finanziato all’origine.

Ecco, il sogno che ho è di realizzare il mio progetto per la rivalutazione della storia cantata proprio con una formula produttiva di questo tipo, con alla base un finanziamento per cui non sia necessario invogliare la gente ad andare a teatro, ma sia il teatro che va dalla gente, gratuitamente, semplicemente come dono. Certo, a dire il vero, anche la pratica del cappello è un po’ questo.

Ho chiamato l’intero progetto “Cantastorie per Tempi Moderni” in omaggio al meraviglioso capolavoro di Charlie Chaplin, ed in particolare alla scena finale del film, in cui Charlot e la sua compagna, dopo aver in pochissimo tempo ottenuto e perduto ogni cosa, lavoro, casa, successo, si ritrovano all’alba di un nuovo giorno da soli, senza più nulla se non il loro amore, e camminano mano nella mano lungo una strada dritta e desolata che, in un paesaggio del tutto spoglio, conduce verso un orizzonte indefinito e vuoto: lei guarda verso il basso sconsolata, ma Charlot, con un gesto inequivocabile, le indica di alzare lo sguardo e sorridere, e così, mentre una musica meravigliosa li sostiene (Smile), si incamminano sorridendo verso l’ignoto, verso il futuro.

Io, per il tempo che verrà, vorrei seguire questa traccia indicata a tutti noi dal grande Charlie Chaplin, e sviluppare pienamente il mio progetto per raccontare alla gente la drammaticità del nostro tempo, attraverso il sogno della musica e del sorriso.

 

 

Tratto da Storia di un Cantastorie, racconto intervista a cura di Maria Lanciotti, Edizioni Controluce 2014 ‒ Seconda Edizione aggiornata 2018 con la prefazione di Simone Sassu, musicista, presidente dell’associazione culturale Archivi Sassu.

In libreria la ristampa della seconda edizione, dicembre 2022.

 

 




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