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Wendy Guerra. Cuba e l’uragano Irma senza la meteorologia ideologica di Fidel Castro
(Ernesto Mastrascusa - EFE)
(Ernesto Mastrascusa - EFE) 
17 Settembre 2017
 

Mi preparo ai cicloni da quando ho l’uso della ragione.

In realtà credo che la mia vita sia stata solo un breve spasmo tra un ciclone e l’altro.

Caricare acqua, raccogliere viveri, comprare o fabbricare da soli le candele, cercare il cherosene per accendere lo stoppino, l’alcool per il fornello e poi affidarsi a una strana, tenebrosa deriva in cui ti accompagnano i tuoi santi, i tuoi fantasmi e gli essere amati che ancora rischiano per vivere con te in un paese circondato da cataclismi.

La radio a batterie – bene o mal sintonizzata – trasmette ciò che accade tra il cielo e la terra e un dettagliato bollettino del tempo accompagnato, fino a pochi anni fa, dalle postille di Fidel nel suo ruolo di meteorologo ideologico. Al Comandante Capo piaceva prevedere e addirittura correggere a suo favore le traiettorie degli uragani. Al passaggio del fenomeno parlava per ore delle sue lotte rivoluzionarie, citava cifre, precedenti e perfino tecnicismi rapportati a fenomeni passati, elencava curiosità scientifiche e raccontava aneddoti della Sierra Maestra, che ben poco avevano a che fare con la condizione del tempo. Il suo tempo era un altro, molto diverso dal nostro che lo ascoltavamo in silenzio dalle nostre case, preoccupati, tormentati nel mezzo di una quotidianità lontana dal suo senso della trascendenza.

Il suo monologo ci distoglieva dall’argomento e ore dopo, quando qualche laureato o dottore in meteorologia doveva annunciare una notizia dell’ultimo minuto, al momento cruciale di prendere la parola per illustrarci la nuova evoluzione del meteo, la cosa si complicava. Chi gli avrebbe tolto il microfono? Chi gli avrebbe spiegato che l’uragano non avrebbe più seguito la traiettoria che lui aveva tracciato?

Ci svegliamo ancora una volta tra gli uragani e, purtroppo, qui dopo la tempesta la quiete non arriva mai. Facciamo colazione con ciò che si può, con la fatale notizia che il paese – da capo a piedi – è stato devastato dalla forza dei venti. Nessuno parla più, in modo epico, delle operazioni di recupero e salvataggio. Gli stagisti delle scuole vicine come l’Istituto Superiore d’Arte (ISA) non sono stati trasferiti alle loro abitazioni né ai rifugi abituali, poiché l’Avana non avrebbe dovuto essere colpita dal fenomeno.

Al Comandante Capo piaceva prevedere e addirittura correggere a suo favore le traiettorie degli uragani. Al passaggio del fenomeno parlava per ore delle sue lotte rivoluzionarie, citava cifre, precedenti

Ieri all’imbrunire, mentre percorrevo la città in un lungo giro di ricognizione, mi sono resa conto del disastro che le raffiche hanno causato. Nella maggior parte dei quartieri ci sono alberi abbattuti, perfino bellissimi esemplari centenari che sono stati sradicati e ancora oggi giacciono al suolo, esposti come dinosauri feriti sulle strade. I vicini tentano di spostarli, ma c’è bisogno di gru, camion e carriole per toglierli dalla via pubblica. Pali, cavi, semafori, lampioni, grondaie, tetti, persiane e taniche di acqua languono lungo le strade senza essere raccolti dai camion che non ce la fanno già più con i lavori di risanamento.

I volti degli abitanti dell’Avana che camminano storditi, schivando scrupolosamente il disastro, senza calpestare i cavi caduti, evitando le zone colpite, cercando cibo e acqua potabile o semplicemente un po’ d’aria fresca nelle zone che arrivano al mare, questo è senza alcun dubbio il vero ritratto interiore dei nostri giorni.

La radio nazionale sputa cifre su cifre con alte statistiche sui disastri nella zona turistica, le canzoni patriottiche rianimano le brutte notizie. La metà degli hotel di Varadero e un’alta percentuale degli impianti sugli isolotti sono stati devastati.

Si annuncia alla popolazione che non potranno più essere mandati lavoratori dalle province vicine per aiutarci nel recupero. Ogni provincia deve essere recuperata a poco a poco e con le proprie risorse tecniche e umane.

Noi che ancora abbiamo un telefono ci chiediamo dove e chi chiamare per chiedere aiuto. I numeri di sempre, quelli di emergenza, sono fuori servizio. Scorro il cursore da un lato all’altro. Quale emittente ci può comunicare in che momento verrà ripristinato il nostro servizio elettrico e dove trovare un po’ di cibo, acqua potabile o combustibile per resistere fino al prossimo fenomeno atmosferico?

La speranza si è volatilizzata come un aquilone alzato dai bambini nel bel mezzo della tormenta. Camminiamo come zombie grati, almeno, per il miracolo di essere vivi nonostante la furia degli elementi. La città spenta ricorda i terribili anni del Periodo Speciale. Le calde, interminabili notti di black-out non ci lasciano dormire in pace e i nostri pensieri sono il vero tifone che può demolirci.

Perfino gli uragani più violenti hanno un asse, un centro da cui girare in direzione dei suoi obiettivi, ma quale è il nostro obiettivo?

Cammino nelle zone in cui è arrivato il mare cercando di portarsi via ciò che già non possediamo.

Che cosa vuole la natura da noi? Ormai non abbiamo più niente da offrire. La nostra vita oggi è acqua in un cesto. Guardo l’invasione del mare che reclama il suo spazio tra noi, il tunnel di Línea, quello che separa El Vedado da Miramare, trasuda alghe e salnitro. Osservo il paesaggio dopo la battaglia e mi domando: L’asse dov’è? Quale sarà il nostro centro? A chi posso chiedere una spiegazione sulle cose? Qualcuno ci ascolta?

Penso alla domanda che fanno poco prima di salire su alcuni aerei. Chi chiamare in caso di emergenza?

 

Wendy Guerra

(da el Nuevo Herlad, 12 settembre 2017)

Traduzione di Silvia Bertoli


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