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Wendy Guerra. Vivo all’Avana
Mexico, 2014
Mexico, 2014 
25 Febbraio 2015
   

Mi sveglio presto, un getto di acqua fredda percorre il mio corpo e lo risveglia. Attraverso bagnata il salotto e l’acqua definisce le mie impronte che vanno fino alla cucina, cerco le arance, le spremo fino a riempire di succo una piccola brocca. Metto la caffettiera italiana sul fuoco, e mentre apro porte e finestre, l’aroma del caffè inonda la casa. Assaporo il suo gusto profondo, ed è come se di colpo assaggiassi la realtà, cerco il mare dalla terrazza, poi Monte Barreto e, un po’ più in là, spuntano gli edifici che riflettono la città habaneciendo.

Il postino avrà tirato il giornale di oggi? No, non ci sono ancora notizie a terra.

Qui nulla sembra essere cambiato. Non ha piovuto, non fa freddo, l’umidità offusca ancora i vetri.

La settimana scorsa ho ricevuto tante chiamate dall’estero che mi chiedevano se sapessi qualcosa della morte di Fidel. No, non ne ho mai saputo niente, queste voci fanno parte della nostra quotidianità. Tutto questo mi ricorda quella sirena di allarme aereo, simulacri di guerra che non sono mai stati veri ma che ci mantenevano allerta, permanentemente in guardia.

Mi affaccio al balcone. In strada alcuni bambini corrono per non arrivare tardi a scuola, i genitori li salutano, si affrettano a raggiungere il viale, mentre, laggiù in lontananza iniziano le code, il serio gioco di trovare qualcosa da mangiare, la feroce lotta per la sopravvivenza è iniziata e ancora non sono le 7 e 30.

Inizia il viavai di persone che attraversano una città dove ormai in pochi credono si possa vivere lavorando onestamente.

È ancora tutto uguale? Uguale a cosa? Niente di questo assomiglia a me, a noi. Chi siamo noi? Sembra che mi abbiano lasciato sola e che tutto questo sia un incubo.

Squilla il telefono, è la dottoressa del medico di famiglia che ha bisogno di togliermi il sangue poiché sono stata in viaggio di recente, è la legge.

Un vestito di cotone e un paio di sandali sono lo scudo che mi riveste per scendere nell’arena. È importante passare, non attirare l’attenzione se pensi di risolvere i problemi quotidiani. Scendo le scale di marmo, calpesto la strada e inizio a tradurre i miei pensieri. Devo essere realistica, comprare le cose pagandole ciò che costano e non al valore a cui me le vogliono vendere. Quanto costa la carne in un paese in cui non c’è carne? Protesto perché al mercato alterano sempre i prezzi. Faccio code che mi portano ad altre code interminabili fino a raggiungere la fine di ogni cosa, sapendo che domani mi rimangono altre code per continuare a risolvere i problemi.

Una trattativa ti porta a un’altra e le urla, la musica alta, e il dolore della gente minano il tuo universo di disoccupati, mendicanti, parcheggiatori e lavoratori indipendenti con cui oggi trascorri la giornata risolvendo la tua realtà oggettiva.

Incontri amici del quartiere che, nonostante le illusioni di fine anno, ti ripetono: qui nulla è cambiato.

Ritorno con le borse e le preoccupazioni di tutto ciò che non ho potuto concludere. Non pretendo di essere un eroe, ma come un eroe devo sopportare i colpi degli avvenimenti quotidiani.

Sono le dieci del mattino e sono già sfinita, torno a casa e provo a scrivere quello che ieri ho lasciato a metà sul mio computer. C’è ancora caffè? Non ci posso credere. Non c’è caffè. Controllo il lavandino e vedo che ancora una volta l’idraulico mi ha truffato, la perdita continua. Con chi posso lamentarmi? Lamentarmi qui?

Bussano alla porta, vogliono disinfestare, ispezionare le cisterne e… anche, perché no, quella della tua vita privata. Chiedo loro di venire domani per poter finire il mio lavoro, è orario di lavoro, no? Minacciano di mettermi una multa se non li lascio entrare, le multe finiscono nel tuo dossier e i dossier a Cuba ingigantiscono i tuoi futuri demoni. Li lascio entrare, ispezionano, disinfestano, domandano, prendono nota, scherzano, chiedono, li saluto; e quando vado a chiudere la porta la vicina che ascolta dalla scala mi avverte che ieri mi ha pagato la luce, scendo di corsa riconoscente a restituirle il denaro.

Infine mi siedo al computer e quando sto riprendendo le idee lasciate inconcluse, squilla il telefono, si sente molto molto male. Una voce chiede di Castro. – Qui non vive nessun Castro, si sbaglia. Qui non vive nessuno con quel nome.

Il telefono squilla ancora. È una giornalista straniera che vuole sapere che ne penso della morte di Castro… la linea cade quando cerco di spiegarle che Fidel… Squillo e cade, squillo e cade la linea… non c’è modo di riuscire a spiegarle niente.

Stacco il telefono, chiudo le finestre, e mi siedo a scrivere allora di una realtà che mi mette alle strette e che, dominandomi, mi riporta a una grande verità:

La morte ormai non è la notizia, qui la vera notizia è essere vivo.

 

Wendy Guerra

(Habáname, 13 gennaio 2015)

Traduzione di Silvia Bertoli


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