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Roberto Fantini. Ancora suicidi nelle carceri italiane 
Conversazione con Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”
(effemeridi.it)
(effemeridi.it) 
06 Agosto 2015
   

È mia convinzione che, all’interno di una comunità civile moralmente evoluta, l’evento tragico di un suicidio dovrebbe essere avvertito come una ferita profonda, come una mutilazione, come un collettivo fallimento etico e politico. Quando un membro della grande famiglia umana, cioè, sceglie di rifiutare la vita, dovremmo sempre sentirci tutti colpiti e tutti chiamati ad interrogarci sulla sofferenza, sulla solitudine, sulla disperazione che non abbiamo saputo o voluto scorgere e alleviare. Sofferenza, solitudine e disperazione che, probabilmente, per disattenzione, per pigrizia, per chiusura mentale, non abbiamo saputo percepire o, addirittura, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare.

E questo sentimento di responsabilità dovrebbe essere avvertito ancora più spiccatamente quando, a strapparsi la vita di dosso, sono persone affidate alle istituzioni, persone sotto il pieno controllo dello Stato.

Ma le morti in carcere fanno, in genere, scarso clamore. Finiscono spesso per essere guardate con indifferenza, se non addirittura con un compiaciuto pizzico di sollievo e soddisfazione. Assai raramente, ci si sofferma a riflettere sull’entità e sulle responsabilità del fenomeno, nonché a riflettere sui numeri oltremodo inquietanti che ci provengono da dietro le sbarre: 44 suicidi nel 2014 e 22 fino al 20 luglio 2015; 6.919 detenuti coinvolti in atti di autolesionismo nello scorso anno e ben 933 che hanno tentato il suicidio e sono stati salvati dai poliziotti penitenziari. A Regina Coeli, carcere storico della capitale, in particolare, la situazione appare estremamente allarmante: si lamentano 250 agenti in meno rispetto all’organico previsto e 200 unità distaccate presso il Tribunale, la Corte di Cassazione, ecc. (fonte: Sappe). Al fine di tentare di delineare un corretto quadro della situazione abbiamo interpellato Patrizio Gonnella (foto), presidente di Antigone.

 

– Nelle nostre carceri si continua a morire. Ancora suicidi, ancora troppi suicidi. Eventi inevitabili, potremmo dire “fisiologici” del sistema carcerario in quanto tale o qualcosa da mettere in relazione alle ben precise condizioni del nostro attuale sistema carcerario?

Il numero dei suicidi e delle morte naturali è in linea con il dato europeo. Non è questa una specificità italiana. Negli ultimi anni il dato è sempre stato costante e proporzionato al numero dei detenuti presenti. Tutto questo non ci impedisce di affermare che ogni suicidio, pur quello legato a scelte di disperazione personale, è anche una sconfitta per il sistema dell'accoglienza in carcere, incapace di far cambiare un'intenzione così tragica.

– L’Unione delle Camere Penali italiane, a proposito degli ultimi casi, ha parlato di “morti annunciate”, mentre Santi Consolo, capo del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), preferisce parlare di “triste coincidenza” (Il Messaggero, 22 luglio 2015, p. 13, intervista di Silvia Barocci).

Tu che ne pensi?

Regina Coeli, carcere romano dove ci sono stati due suicidi in due giorni, è un istituto ben gestito dove la direzione sta sperimentando un'ipotesi di gestione più aperta in modo da assicurare maggiore socialità durante le giornate di detenzione. Purtroppo, questo modello avanzato non era applicato nel reparto dove erano ristretti i due detenuti suicidi. Quello è un “reparto nuovi giunti” dove i detenuti sono tendenzialmente chiusi tutto il giorno in cella. Speriamo che ora cambino le regole, rendendole più flessibili. Il detenuto deve essere sostenuto nelle prime giornate di carcerazione. Quelli sono i momenti più difficili, pieni di rimorso e vuoti di speranza.

– L’ex garante per i detenuti Angiolo Marroni sostiene che la struttura del carcere di Regina Coeli sarebbe in sé e per sé inadeguata e che meriterebbe, pertanto, di essere chiusa. Giudizio realistico o esageratamente severo?

Non sono d'accordo. Regina Coeli, pur essendo un carcere antico con tanti problemi logistici, è in pieno centro. La sua ubicazione consente maggiori contatti con difensori, parenti, amici. Un carcere periferico è spesso un carcere destinato all'isolamento sociale.

– Una cosa che, molto spesso, non viene sufficientemente sottolineata è che, accanto ai suicidi attuati, ce ne sono moltissimi altri scongiurati grazie all’intervento del personale penitenziario. Non credi che questi servitori dello Stato meriterebbero una maggiore considerazione e che il loro impegno meriterebbe di essere meglio conosciuto ed apprezzato?

Sono totalmente d'accordo. Lo staff penitenziario svolge un lavoro straordinario. Dalla loro gratificazione sociale ed economica dipende la qualità della vita in un carcere. Vanno prese misure in questa direzione. In particolare, i media devono assumersi questa responsabilità. Detto questo, i sindacati autonomi di polizia penitenziaria non devono costituire una resistenza a ipotesi di ammodernamento della vita in carcere e non devono difendere in modo corporativo chi fuoriesce dal solco della legge.

– A che punto sono i progetti di miglioramento delle condizioni delle nostre carceri? Stiamo finalmente cercando di rispettare gli impegni e i richiami internazionali? E cosa rimane, soprattutto, da fare?

Prima della condanna europea del gennaio 2013 i detenuti erano 68 mila. Oggi sono 53 mila. Di conseguenza, le condizioni di vita sono migliorate indubbiamente. Sono stati assunti provvedimenti tesi a ridurre l'impatto della custodia cautelare, a rilanciare le misure alternative alla detenzione. Non devono essere fatti passi indietro altrimenti è facile tornare nella melma e nell'ammasso di corpi.

 

Roberto Fantini

(da Free Lance International Press, 4 agosto 2015)


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