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Duccio Demetrio. L'econarrazione
(foto Patrizia Garofalo)
(foto Patrizia Garofalo) 
28 Maggio 2013
 
I concetti, le pratiche, le questioni di senso
Perché raccontare la terra,
perché la terra si racconta

 
 
L’ecologia è narrativa?
 
   Il termine ecologia, parola introdotta alla fine dell’‘800 con intenti esclusivamente scientifici, per la verità sembrerebbe - a tutta prima - già destinata ad evocare argomenti, oggetti ed intenti di carattere narrativo. Qui si incontrano infatti, come è noto, le parole greche oikos (casa, luogo abitato) e logos (racconto dotato di una sua interna coerenza). Attenendoci quindi a tale confronto etimologico, il concetto includerebbe scopi volti a studiare le forme narrative mediante le quali si configura e si racconta a noi un dato ambiente. Sia esso di carattere antropico o, viceversa, quando non sia contrassegnato affatto da una presenza umana o questa non sia tale da essere a tal punto soverchiante da snaturarne le fisionomie naturalistiche originarie. Il riferimento ai luoghi con livelli diversi di concentrazione urbana è uno degli esempi più noti. Le storie, in simili situazioni, saranno quindi soltanto storie di donne e di uomini: flora e fauna non potranno che tacere o parleranno per loro giardini, cortili, aree incolte in attesa di essere edificate. Tutto, qui, è addomesticato, amputato, sorvegliato e conforme agli interessi metropolitani.
 
   Dopo queste considerazioni introduttive, potremmo concludere che la dizione ecologia narrativa (ma le preferiamo eco-narrazione) è ridondante, superflua, pleonastica. Dal momento che, invece, intendiamo attribuirle una legittimazione culturale, ne sosterremo la ragion d’essere. Non in astratto, bensì attingendo alla vicenda stessa dell’ecologismo e dell’ambientalismo che, a differenza delle sue declinazioni più educative, mi sembra abbia trascurato un simile punto di vista, che merita di essere evidenziato nella sua peculiarità semantica. Essa gli viene conferita da saperi riconducibili alle tradizioni umanistiche della poesia, della letteratura, dell’arte, dell’estetica. Senza che, per questo, le Muse debbano avere il sopravvento sulla ragione. L’eco narrazione vuole rappresentare, anzi, un tramite di riconciliazione tra saperi scientifico e saperi che la consuetudine classica attribuiva alle Muse e alla loro madre Mnemosyne.
   L’adozione della nozione di logos, quando non venga assunta nella sua immediatezza arcaica (semplicemente come parola, voce, storia), dovrebbe insospettirci. Perché tale sostantivo non è esente da una sua intrinseca problematicità. È stato piegato alle esigenze del pensiero speculativo. La filosofia platonica - e non soltanto questa - lo intense ed impiegò in riferimento a discorsi di tono elevato, di natura logica e razionale. Per il filosofo ateniese il mito, la poesia, ogni forma d’arte non meritavano di fregiarsi di questo concetto perché dedite a racconti di ben altro carattere. La posizione del filosofo è fin troppo nota per ricordarla. Platone riteneva che il linguaggio non filosoficamente sorvegliato allontanasse dalla ricerca della verità. Lirica, tragedia, pittura, musica… altro non potevano essere considerate che imitazioni (mimesis) del vero. Invenzioni della mente, storie, racconti, dicerie, chiacchiere. Logos è da allora, per convenzione, emblema del pensiero speculativo e di una narrazione dotata di una sua ragionevolezza, dimostrabilità, dialettica argomentativa. Per non accennare al fatto che il termine in questione, adottato anche in altri contesti (misterici, religiosi e teologici: ebraici e cristiani in particolare), come pure sappiamo, indicava e ancora designa il soffio vitale, o spirituale, che diede inizio ai racconto della creazione. Alle infinite storie della Genesi, alle grandi narrazioni sulle quali ogni popolo si è espresso in merito alle sue origini. La parola divina dall’istante in cui irruppe, dando luogo alla terra, alle acque, alla luce, alle tenebre, ai pesci e agli uccelli, alle erbe… si incaricò di moltiplicarne l’apparizione in una miriade di incalzanti e stupefacenti racconti.
   Come dimenticare l’inizio della Genesi (…E Dio disse…?) o l’incipit celebre e maestoso del Vangelo di Giovanni?
 
In principio era il Verbo (il Logos),
e il Verbo era presso Dio,
e il Verbo era Dio.
Era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste. (1. 1-4)
 
   Il Logos, in quanto parola dell’Altissimo, espressione della ragione creazionista, si rendeva mediatore dell’opera dell’universo e del mondo, la fonte primigenia di ogni narrazione così come le sacre scritture raccontano.
   Sia il logos platonico, sia il Logos spirituale (il Verbum latino) si avvalgono di questa parola in funzione di messaggi il cui senso asserisce verità. Umane le une, rivelate e metafisiche le altre. L’ecologia, tutt’al più, potrebbe essere ritenuta una scienza e una filosofia di tono discorsivo. Critica certamente, non dogmatica, per il fatto che se accettiamo che siano anche le storie di vita della terra ad interessarle, queste non potranno che discostarsi dall’obbiettivo, implicito ad ogni scienza, di perseguire generalizzazioni empiriche onde pervenire alle leggi della fisica, della biologia, della genetica, del linguaggio, ecc. Le storie di vita, quali esse siano, introducono nella ricerca, e di essi si avvalgono, invece metodi di tipo qualitativo che lavorano attraverso la raccolta, sistematica o esplorativa, di racconti, narrazioni, resoconti centrati sulle soggettività umane e non solo.
 
L’eco-narrazione: sostituire al logos le altre sue possibilità
 
   L’ecologia scientifica, messe perciò tra parentesi le questioni teologiche, coerentemente a quanto detto, dovrebbe comunque avvalersi elettivamente della narrazione in una versione coerentemente ordinata dal pensiero razionalistico e per alcuni versi positivistico. Proprio per questo motivo l’eco-narrazione è nozione che intende invece sottolineare che le parole (la stessa parola logos) vanno intese in un’accezione più ampia. Ne vanno riproposte le origini: nella immediatezza di una lettura e di un uso che ci riconduca alle parole, ai racconti umani, ai linguaggi più semplici. Accogliendo e valorizzando anche quelli che la terra ci comunica e ispira. La terra, come diremo tra breve, “sembra” parlarci, avvertirci, tranquillizzarci, inquietarci. Sono “parole” trasmesseci dalle sue leggi, le quali però si alternano a quelle che non è possibile cogliere soltanto all’interno degli interessi scientifici. D’ altro canto, non è possibile dimenticare che la cosiddetta svolta narrativa introdotta dallo psicologo culturale Jerome Bruner sul finire degli anni ’80 è stata raccolta anche dalla ricerca ecologica. Anticipata dagli studi fondamentali dell’epistemologo Gregory Bateson. Avvertiamo pertanto come urgente il bisogno di rafforzare ed enfatizzare, in chiave narratologica, un’idea che intrinsecamente già include in sé un’attenzione esplicita e indubbia per le storie: dei luoghi, delle genti che vi dimorano, delle manifestazioni connesse alla natura di ogni genere, della terra e di coloro che la coltivano, da essa traggono cibo per se stessi e per tutti. Per almeno tre considerazioni riassuntive.
 
   1. L’eco-narrazione, pur prefiggendosi gli stessi scopi dell’eco-logia, si propone come una sua declinazione di pensiero, tematica ed operativa più attenta ad un impiego plurimodale del concetto di logos. Troppo limitativo, come accennato; troppo implicante una versione della narrazione vincolata a coerenza, sistematicità, rigore: qualità rispetto alle quali la scienza da un lato, e la filosofia dall’altro, sostengono di essere maestre.
   2. L’eco-narrazione intende invece confrontarsi con ogni forma narrativa in grado di rappresentare la vita, la natura, la terra con altri linguaggi, codici, cifre: siano esse sia descrittive, che interpretative o espressive.
   3. L’eco-narrazione accetta ogni racconto, storia, evento, quando siano questi connotati da una loro significatività espressiva, anche la più enigmatica, in funzione di obiettivi ecologici ed ecologistici basati sulla grande flessibilità e versatilità del pensiero narrativo. Ai cui metodi, oltre che alle tecniche, è dato ricorrere per la maggior libertà comunicativa che accettano. Dove le storie, da cercare, promuovere, immaginare, possono essere raccolte, studiate, senza vincoli eccessivi. Per il piacere o il dovere civile di farle raccontarle, di tradurle adottando ogni mimesis di cui si sappia e voglia disporre. La conoscenza narrativa accoglie ogni linguaggio, sperimenta ogni modalità del dire, dell’ascoltare, della scrittura: tenta di aderire alla creatività della vita e della terra contro ogni tentativo di omologarne le manifestazioni.
   Lo scrittore israeliano David Grossman ha così riassunto quale significato vada attribuito al nostro bisogno insopprimibile di parlare, pensare, scrivere, comunicare, attraverso le storie. Egli sostiene, nel saggio famoso Con gli occhi del nemico che non possiamo sottrarci dalle origini del linguaggio:
Al potente impulso a creare delle storie; a organizzare entro il contesto di una trama quella realtà che non di rado risulta caotica e incomprensibile; a trovare in tutto ciò che accade i nessi evidenti e quelli occulti, capaci di dare un significato particolare; a evidenziare in ogni evento i tratti avvincenti, e a farvi spiccare i protagonisti.
   E così prosegue:
L’impulso a raccontare una storia, a inventare o ad attingere alla realtà, è quasi un istinto a sé, l’istinto narrativo: per determinate persone – alcune delle quali finiscono poi per diventare scrittori – questo istinto è potente e primario come ogni altro. La grande fortuna sta nel fatto che esso trova nel mondo l’istinto parallelo: quello di ascoltare storie.
 
Narratori della terra
 
   Ogni luogo della terra possiede dunque le sue innumerevoli storie, collocate negli sfondi geologici e geografici cui esse appartengono. I quali, all’apparenza taciti, concorrono comunque a generare l’una o l’altra vicenda. Producono scenari grandiosi o più circoscritti, dove è difficile distinguere tra primi piani e i panorami circostanti. Fenomeni naturali, culture umane, condizioni particolari inventano e reinventano le storie dei loro ambienti in una correlazione narrativa reciproca. Purtroppo, a causa degli interventi umani, irreversibilmente deturpate e sfregiate nei loro equilibri, di cui si conservano vaghi ricordi e quasi sempre nemmeno questi. Tali vicende non faranno altro che raccontarci la fine degli assetti eco-sistemici originari, per i quali furono necessari milioni di anni affinché riuscissero a trovare una loro composizione. Dando luogo ad epopee, mito-topologie, esemplarità memorabili. Ma ricostruibili soltanto grazie a metodi virtuali, all’adozione di mimesis tecnologiche, a supposizioni, ecc. Si tratta di temi e argomenti che, purtroppo, già conosciamo: il leggerli, indagarne le memorie con un punto di vista narratologico e con le metafore che esso ci offre può aiutarci ad esplorarne ulteriori aspetti. Ovviamente cose, oggetti, paesaggi non possiedono i nostri codici linguistici per comunicare (e non sanno di essere i protagonisti o gli interpreti della loro storia), ma nell’istante in cui essi entrano a far parte della nostra esperienza, suscitando attenzione e curiosità, il paradigma narrativo ci soccorre: per raccontarli, salvarne il ricordo, dar loro un passato, una voce. Fin dalle favole di Esopo o di Fedro, e poi con le prime descrizioni etologiche dei filosofi della scuola aristotelica e fisiocratica, sempre più accurate fino alla fondazione del pensiero scientifico naturalistico, non abbiamo fatto altro che essere ecologi a vocazione narrativa già centinaia di anni prima che questa parola venisse coniata. Abbiamo così dato forma e volto a luoghi, ad esseri animati e inorganici di ogni tipo. Non ci siamo limitati a catalogarli o a imbalsamarli.
   Le letterature di ogni cultura che hanno individuato nella terra una insostituibile ispiratrice, ce ne offrono una sconfinata testimonianza. Il loro ruolo pedagogico ha contribuito a infondere rispetto per quelle storie, grazie al potere di immaginazione della nostra mente. Senza fonti di ispirazione, però, anche l’intelligenza più vivace non è in grado di concepirle. Le storie tratte dalla terra, ci hanno aiutano nel tempo a sopravvivere, a trasmettere informazioni, a educare e a formare le coscienze. Il pensiero filosofico quando nacque in punti diversi del pianeta mosse i primi passi interrogandosi sui fenomeni stupefacenti o quotidiani offertici dalla miriade di sollecitazioni che anche un piccolo spazio vitale può offrirci. Non vi è storia sacra che non attinga alla natura: è dalla visibilità delle cose che si trassero ipotesi rispetto a quanto invece nasconde misteri ed enigmi. Ogniqualvolta abbiamo dato la parola, per le facoltà di cui disponiamo, a chiunque o a qualunque cosa che non ne possedesse una sua propria, abbiamo cessato e cessiamo ancora di essere soltanto econarratori (studiosi di queste storie) e diventiamo militanti di un progetto eco-narrativo.
   Grazie alle suggestioni che tale visione ci offre, ci scopriamo ecologisti più consapevoli di quanto sia importante che la prospettiva narratologica si allei a quella ecologica: scientifica e politica. Possiamo pertanto diventare animatori, educatori, agricoltori, volontari, più desiderosi di dedicare il nostro tempo e impegno, umanamente e politicamente, per difenderle, salvarle, rivelarne il senso profondo agli altri. Tanto più quando, come oggi, dobbiamo occuparci oltre che dei mondi animali, delle foreste, delle specie vegetali a rischio di estinzione e decimazione, di proteggere quanto noi, e non la terra, abbiamo creato conferendole bellezza, equilibrio, utilità non distruttive e autodistruttive. Quando riusciamo a non devastare e annientare i nostri patrimoni artistici, abitativi, paesaggistici di rilievo storico, ottenuti grazie a trasformazioni sapienti e rispettose dei territori, non facciamo altro che celebrare le fatiche umane, le intelligenze, la sapienza di chi ci ha preceduto. Preserviamo noi stessi e la natura, di cui siamo parte. Siamo ecologisti narrativi quando ci battiamo affinché quelle narrazioni non muoiano, affinché le storie della terra possano sopravvivere contro tutte le desertificazioni cui stiamo assistendo. Nell’episodio biblico, ancora riconducendosi all’inizio della Genesi, quando Dio conduce Adamo nel giardino dell’Eden (Genesi, 2. 19-20) per osservare che nomi il primo uomo avrebbe dato a uccelli, alberi, cose, troviamo in questo passo tutto il senso del lavoro ecologico del nostro progenitore, ma certamente non ancora l’ ambientalista. Dal momento che il Dio ebraico, a quanto si dice nella Bibbia, etichettò soltanto le creature che il Creatore man mano gli andava additando. L’epilogo rovinoso della sua storia, della sua progenie, lo vedrà impegnato nell’opera di dominio e sterminio annunciata a Noè da Dio.
 
Il timore e il terrore di voi
Sia in tutte le bestie selvatiche
E in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo.
Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare
Sono messi in vostro potere… (Genesi 9. 1- 4)
 
   Ma la parola divina non avrebbe potuto nemmeno immaginare di che cosa sarebbero stati capaci gli uomini, agendo contro i loro stessi interessi.
   L’eco-narrazione ci offre, come accade nella lettura di un romanzo, nell’assistere ad uno spettacolo teatrale o cinematografico, musicale, l’occasione di evitarci ogni catalogazione, classificazione, ordinamento della realtà. Adottiamo modalità cognitive diverse, altri registri, privilegiando questo approccio: e, così facendo, ci scopriamo co-autori delle storie incontrate. Così pure siamo chiamati ad essere creativi dinanzi alle storie incomplete, indiziarie, oscure che la terra ci offre. Senza sostituirci agli esseri che ce le offrono e suggeriscono, il nostro compito è tirarne le fila, ricomporle, scoprire in esse anelli mancanti. Sarà nostro compito analizzarle e ricomporle dotandole di una trama plausibile, dando loro la dignità di un testo. Ricordiamo i versi di Rilke della nona Elegia duinese:
 
Siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra...
ma per dire, comprendilo,
per dire così come persino le cose intimamente mai
cedettero d’ essere...
Terra, non è questo che vuoi: invisibile
Sorgere in noi? – Non è il tuo sogno questo,
d’ essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!
Che cosa, se non metamorfosi, è il compito a cui ci solleciti?
Terra, tu cara, io voglio – Oh credi, neppure le tue
Primavere occorrerebbero più; per conquistarmi
 
La terra ci ha insegnato a narrare e a tacere
 
   Non siamo solamente i mediatori tra la terra e quanto non può con voce umana narrare di sé. Da epoche di cui è si persa memoria, essa si racconta attraverso se stessa, ci parla con i suoi silenzi, ci scrive con tutto ciò che la sua natura ci mostra, che si incide nei corpi, nelle memorie, nei gesti. Colpisce i nostri sensi, genera immagini, suscita simboli. I suoi racconti li ricostruiamo e li comprendiamo con la scienza, li abbiamo affidati alle leggende e ai miti; li rintracciamo nelle parole degli scrittori e dei poeti. Interpretiamo i sintomi di quanto continua a nasconderci. Le sue parole sono i boati del vento, i mormorii della pioggia, il fragore delle slavine e le risacche del mare. Si racconta attraverso suoni e forme che non sanno però udirsi, che allertano o tranquillizzano. Da millenni, ci spiega chi è a suo modo con i fatti, con i segnali di cui abbiamo imparato i codici: ora di pericolo, ora tranquillizzanti. La terra ha le sue voci, ma non sa di averle; narra storie producendole,ma non sa di possederle. Ma, soprattutto, si narra quando riusciamo a cogliere i nessi, i rapporti armonici o in squilibrio, in quanto ci offre e in quanto chiamiamo natura, mondo, pianeta. La terra è parte determinante in tutto questo, però possiede, a differenza dei suoi sinonimi, quella evidenza materiale, quell’immediatezza, che ci consente di definire terra, al di là del suo essere mondo o pianeta, quanto calpestiamo, coltiviamo, ammiriamo quotidianamente. Il patto e il conflitto narrativo tra noi e la terra, con ogni terra del mondo, non ha conosciuto sosta. Il legame è stato sempre profondo, intenso, e tale dal consentirci di creare i nostri linguaggi imitando talvolta i suoi. Abbiamo imparato a parlare, a scrivere, a dipingere, a musicare grazie a lei: incidendo una pietra, tenendo in mano ciuffi d’erba, scoprendo la risacca del mare in una conchiglia. La terra ci ha insegnato a sentire con ogni senso, a gioire di piacere assaggiando un frutto, a riprodurne i suoni o i profumi. Tale concordia, un’alleanza sempre vitale anche quando siamo risorti da distruzioni che non ci risparmia, ha attraversato le più remote culture, consolidandole attraverso rituali sacri, politeisti o inneggianti ad un unico dio. Le mitologie, le poetiche, il pensiero scientifico e speculativo fin dai loro albori hanno attinto alla terra le verità e le leggi inconfutabili, ma anche i dubbi infiniti che ha saputo disseminare con profusione. Nessuna conoscenza o sapienza – o saggezza – ha potuto ignorare una relazione così determinante agli effetti dell’emancipazione e dell’evoluzione umana. Nessuna religiosità, tranne quelle che hanno preferito inneggiare al cielo più che alla terra, ha potuto lasciare traccia di sé dimenticando le sue origini e i vincoli terreni. Le religiosità politeiste, bibliche, cristiane, musulmane, induista, buddhista e non solo ha potuto coniare parabole, allegorie, metafore, leggende, favole collocandole negli sfondi delle foreste, dei mari, dei fiumi, dei deserti, dei monti; e, inoltre, nei campi, nei giardini, nelle oasi. Sulle isole, nelle caverne. Le storie umane senza le lontananze degli orizzonti e i primi piani che essa ci offre, private delle cose finite, effimere, transeunti, sarebbero ancora più fragili. Ci basta osservarle, per esultare dinanzi alla meraviglia che le più insignificanti parvenze di vita, tracce di un seme qualunque, riescano da lei a germinare nella più caparbia umiltà. Quando si fanno strada, sotto i nostri occhi distratti, tra le fessure di un muro, nelle fenditure di un selciato, in un pugno di sabbia.
 
La spiritualità della terra
 
   L’eco-narrazione non può dunque che riconoscersi nelle parole di una figura di eremita e militante ecologista, il franco-algerino Pierre Rabhi. Purtroppo pressoché ignota in Italia:
Non si può fare buona ecologia espellendo la dimensione spirituale; il senso del sacro, dal progetto di aiutare la terra a salvarsi e a salvarci. Ecologia deve essere anche una poesia vivente e incarnata. Forse, i verdi, avrebbero più successo se mettessero un po’ più di poesia e di filosofia nei loro programmi.
   Scrittori e poeti come avrebbero potuto, potrebbero ancora, comunicarci la bellezza o la tragicità del mondo, la malinconia e la nostalgia di doverlo lasciare, se non attingendo al bene e al dolore che dalla terra traiamo? A questo intendeva riferirsi, scrivendone dal suo eremo piemontese anche la teologa Adriana Zarri, quando ancora ci invita a:
Raccogliere tutti i messaggi della vita: il frusciare del vento tra le foglie, il verso degli animali, lo scrosciare dell’acqua …È il mondo che parla con noi.
   Non possiamo cessare di raccontare la terra, dobbiamo frugare nei nostri ricordi più lontani: per rievocarne i primi contatti, fosse soltanto quell’orto o quel cortile in cui abbiamo imparato a riconoscere qualche erba e assaggiato un frutto. Dobbiamo chiederci più spesso in quanta parte nelle nostre storie di vita, essa sia stata e sia ancora presente, costituisca tanto o troppo poco la dimensione esistenziale che ci è indispensabile non soltanto per vivere, ma per vivere al meglio. Le nostre scritture autobiografiche più attente al rapporto con la terra possono rappresentare un avvertimento, un campanello di allarme. Qualora ci avvedessimo che abbiamo smarrito una relazione più intensa con la terra come natura, come rapporto con gli alberi, le erbe, gli animali che non riusciamo a chiudere in una gabbia. Con la terra come materialità tattile: soprattutto se vissuta attraverso le mani, con quei gesti antichi che abbiamo visto fare ad altri.
   Quando le dita, incuranti di ogni guanto, si immergono, scavano, dissotterrano, in quella materia primordiale.
   Quando l’udito, il gusto, la vista, il camminare sulle sue multiformi superfici ci restituiscono il senso del nostro essere ancora al mondo.
   Quando avvertiamo tutto il piacere di prenderla tra le mani e di riconoscerci ancora nelle parole di Rainer Maria Rilke quando scrisse:
Un solo spazio compenetra ogni essere:spazio interiore del mondo. Uccelli taciti ci attraversano. Oh io che voglio crescere,guardo fuori ed in me ecco cresce l’albero.
   Quali incanti, stupori, spaesamenti riusciremmomeglio a comprendere, a trascrivere, a dipingere, se le parole umane migliori, le più libere e accorate cessassero di avere la terra come musa ispiratrice? Se noi abbiamo bisogno della terra anche per elevare lo spirito e l’intelligenza nostri, per comunicare tra noi non lasciandola morire, per proteggerla da noi stessi; anche la terra non può far a meno di noi. La terra ci racconta, nella sua sconcertante innocenza, nell’istinto di sopravvivenza che la sostiene, se sappiamo leggerne e tradurne i segni, le cifre più oscure, i messaggi, che la nostra coscienza le restituisce per la nostra e sua salvezza. Far in modo che la terra si racconti per tramite nostro, dedicarci al suo ascolto, è compito dell’eco-narrazione e dell’ecologia in quanto messaggio anche spirituale. Ha scritto il teologo Vito Mancuso:
…La vita è un fenomeno stupefacente, emerso lungo i miliardi di anni percorsi da questo Universo a partire dai gas primordiali scaturiti dalla Grande Esplosione iniziale, e tutto ciò non può che generare in chi ne prende coscienza un sentimento di sacralità… Ogni vita merita di essere considerata sacra, anche la vita delle piante e degli animali, anche la vita dei mari e delle montagne, tutto ciò che vive è sacro e va trattato con rispetto dal concepimento fino alla fine.
   Ad ognuno di noi più che dal sentimento di appartenenza alle infinitudini siderali, in quegli stati di grazia che per il credente sono il creato, per i non credente attimi intensi di consapevolezza universale, può giovare chiederci quando la terra è in grado di suscitare in noi emozioni profonde. Tali da incoraggiare, di sostanziare di senso del mistero, oltre che all’insegna di un’etica laica e civile, le decisioni sagge, urgenti, radicali puntualmente disattese che ci attendono. In merito alle quali dobbiamo fare in modo di non dimenticare che ogni fonte del nostro narrare e narrarci è intrinsecamente legata alla terra. Occorre perciò promuovere tutto ciò che possa metterci nella condizione di saperla narrare ad altri, di valorizzare le memorie personali e collettive che alla terra riconduciamo per esperienza diretta o da altri affidateci. Ci attendono nuove scoperte, nuovi incontri, nuove scritture e parole da salvare.
   Quando la terra ci parla, ma anche quando si fa taciturna; quando dobbiamo riscoprirla in noi stessi, per le iniziazioni che ci ha offerto, per quanto ci ha insegnato quando i suoi luoghi ci hanno comunicato sensazioni ispirate a sentimenti di religiosità; ne diventiamogli scrivani e scopriamo che la felicità, la cura di noi e del mondo, può nascondersi in un pugno di sabbia che un goccio d’acqua fa fiorire.
 
Duccio Demetrio
(da Libera Università dell'Autobiografia, maggio 2013)

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