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Annagloria Del Piano. La tragedia del Moby Prince 
In diciassette anni la nebbia... si è infittita
12 Ottobre 2008
 

Le ultime speranze si infrangono. La realtà si palesa definitiva nelle vesti del terribile relitto che fa il suo triste ingresso nel porto di Livorno: vernice incenerita, lamiere ancora fumanti…

È il giorno successivo a quello della tragedia del Moby Prince, quel 10 aprile 1991 che ha segnato la morte di 140 persone. Quasi mille i familiari accorsi da tutta Italia, perché tanti erano i luoghi da cui provenivano i passeggeri del traghetto, con lo strazio che si annuncia evidente di fronte a quella vista angosciante, surreale.

Ma invece è l’unica certezza incontrovertibile che in diciassette anni è stata data loro, tanto avvolta ancora nel mistero è questa vicenda che in molti non hanno esitato a paragonare a Ustica e alle altre stragi impunite della nostra storia.

Sono passate da poco le 22 del 10 aprile ’91 quando il traghetto Moby Prince, fiore all’occhiello della Navarma, si appresta a mollare gli ormeggi e a iniziare la traversata che, al comando dell’esperto navigatore Ugo Chessa, avrebbe dovuto condurre 75 passeggeri e l’equipaggio composto da 65 persone in Sardegna, a Olbia. Ma è già delle 22:25 il primo may-day lanciato dal marconista di bordo del Moby Prince sul canale 16VHF (canale radio internazionale per la richiesta di soccorso in mare): «Siamo in collisione, prendiamo fuoco, may-day, may-day…».

Il segnale è debole, disturbato; nessuno inspiegabilmente si accorge di quel drammatico appello o, quantomeno, nessuno fa seguire una risposta.

Sono passati circa due minuti quando a partire è il may-day del comandante della petroliera Agip Abruzzo (carica di 82.000 tonnellate di petrolio greggio), Renato Superina, cui risponde questa volta Genova Radio: «Siamo incendiati, siamo incendiati, c’è venuta una nave addosso! Presto, presto, elicotteri, qualcheduno!».

L’Agip Abruzzo è in rada a Livorno e Livorno – dice il marconista in quell’appello – ci vede con gli occhi! I primi mezzi di soccorso raggiungono la petroliera dopo più di 40 minuti dalla collisione; è stato difficile individuare la nave ed avvicinarsi, a causa del denso fumo sprigionato dall’incendio. Nessuno intanto si preoccupa però della nave investitrice.

La Capitaneria latita nel coordinare le azioni di salvataggio; per di più dall’Agip Abruzzo si identifica approssimativamente la nave investitrice con una bettolina. Lo dice il marconista della petroliera, lo afferma un altro ufficiale, anche Superina sostiene di non saperne né il nome né niente, la descrive incendiata anche lei e aggiunge state attenti che non scambiate lei per noi… (alcuni marinai della petroliera dichiarano, invece, di aver riconosciuto un traghetto in quella sagoma tra fumo e fiamme). Anche dalla motovedetta CP 232, in mare per soccorrere l’Agip Abruzzo, viene avvistata una navetta in fiamme; una nave tutta quanta in fiamme da due rimorchiatori che la descrivono in giro da sé, perché ormai alla deriva in circolo, senza guida.

Ed è avvicinandosi finalmente ad essa che due ormeggiatori – Mauro Valli e Walter Mattei – usciti anch’essi per dare soccorso alla petroliera si accorgeranno dell’unico superstite della tragedia, il mozzo Alessio Bertrand, appeso alla ringhiera del parapetto a poppa, il quale verrà soccorso e si salverà, affermando tra l’altro che ci sono persone vive da salvare ancora sul traghetto..

Sono le 23:45: solo in questo momento la risposta di Bertrand fornisce l’identità della nave investitrice: è la Moby Prince.

Nonostante il ritrovamento ancora nessun soccorso verrà adoperato per il traghetto, seppur sollecitato più volte dai due ormeggiatori ancora presenti sul posto, sconvolti dall’atteggiamento di chi, dalla motovedetta più vicina a loro (la CP232) «indugiava» e nessuna operazione verrà approntata per tentare il salvataggio all’interno. Solo a mezzanotte e quaranta, due ore e 20 minuti dopo la collisione, un rimorchiatore (il Tito X) arriva sotto il Moby e inizia a buttare acqua, raggiunto ore dopo da un secondo rimorchiatore…

I mezzi di soccorso, decine e decine, si concentrano invece sulla petroliera che è a rischio esplosione. L’Ammiraglio Albanese, Comandante del Porto e responsabile della Salvaguardia della vita umana in quel tratto di mare, dalla motovedetta CP 250 decide di non avvicinarsi al traghetto perché troppo pericoloso, nonostante a bordo con lui si trovi una squadra specializzata di Vigili del Fuoco, a cui sarebbe indispensabile far valutare la situazione. Inoltre, quel che è peggio, non si occupa minimamente di coordinare i soccorsi: nessun ordine, nessun intervento viene deciso da Albanese. Sul canale 16 della radio risponde solo il silenzio.

In quegli stessi momenti l’equipaggio della petroliera viene tratto in salvo, abbandonando al nave su una scialuppa. Il Moby Prince continua la sua deriva fino a che, alle 3 circa, il marinaio Giovanni Veneruso, in forza a un rimorchiatore privato, viene fatto salire sul traghetto – prima persona in assoluto – per agganciare un cavo di traino, considerata la pericolosità di lasciare la nave abbandonata e vagante. Sarà lui la prova vivente che, almeno a poppa del traghetto dove lo scafo non era incandescente, un tentativo di soccorso sarebbe stato possibile, si legge nel sito dell’Associazione 10 aprile - Familiari delle vittime del Moby Prince.

Sarà solo nella giornata del 12 aprile, due giorni dopo la collisione, che i primi Vigili del Fuoco penetreranno nei saloni interni del traghetto per il recupero delle salme delle 140 persone a bordo.

Fin qui la cronologia degli avvenimenti, ma il perché tutto sia successo è ancora mistero da decifrare e molto ci si aspetta dalla riapertura delle indagini, decisa nell’ottobre 2007 grazie al nuovo dossier di 120 pagine presentato al Tribunale di Livorno dal legale rappresentante dei figli del comandante Chessa, il quale sostiene la tesi di una sciagura da inquadrarsi in uno scenario di un gigantesco traffico d’armi ed esplosivi, sotto l’attenta regia statunitense, con collusioni, complicità e omertà a 360 gradi tutte italiane.

Quel che è certo è che, quella sera, nella rada del porto di Livorno c’erano almeno otto navi, di cui cinque mercantili (?) affittate dai Trasporti Militari statunitensi per riportare alla vicina base di Camp Darby diversi carichi di munizioni non utilizzate durante la Prima Guerra del Golfo che si sta concludendo in quei giorni. Le autorità americane, alle quali vennero richieste le foto scattate dai loro satelliti sulla rada di Livorno, hanno risposto dopo anni affermando l’impossibilità di accogliere tale domanda, visto l’assenza di radar operativi nell’alleata Italia. Difficile crederci: cinque navi militarizzate, di ritorno da una guerra sotto gli occhi del mondo, non controllate?!

Nella rada era inoltre presente il 21 October II, quel peschereccio che qualche anno dopo comparirà nell’inchiesta sul traffico d’armi con la Somalia che costò la vita alla giornalista Ilaria Alpi e al suo collega Miran Hrovatin (altro mistero italiano!). Dai registri portuali l’October II risultava fermo per riparazioni in darsena, invece diverse testimonianze lo danno in movimento per rifornimento poco prima della tragedia di quel 10 aprile.

Ad inquinare la ricerca delle vere cause della collisione ci fu anche la manomissione ad opera del nostromo del Moby Prince Ciro Di Lauro (in licenza quel giorno) e dell’Ispettore della Navarma Pasquale D’Orsi, i quali – per confessione del Di Lauro – la mattina del 12 aprile salirono sul relitto col pretesto di aiutare i Vigili del Fuoco ad orientarsi sulla nave e con un’asta di ferro spostarono il comando del timone da manuale ad automatico, avallando così la tesi dell’incidente occorso per errore umano, con l’equipaggio intento a guardare alla TV la semi-finale di “Coppa delle Coppe” Juventus-Barcellona!

E poi la nebbia. Testimonianze ad affermarne la presenza fitta al punto da limitare visibilità e possibilità di soccorsi più rapidi, accanto ad altre che parlano di notte serena, visibilità magnifica (come disse il Capitano della Guardia di Finanza di Livorno Cesare Gentile), di cielo sereno e mare calmo, visibilità 5-6 miglia (come sostenne Romeo Ricci, Avvisatore marittimo di turno), di incendio visibilissimo dalla costa, come si evince dal filmato amatoriale di Nello d’Alesio, commentato con veemenza dall’allora giornalista del TG1 Paolo Frajese: «Una cosa è chiara, che non c’era nebbia al momento dell’incidente».

Tante sono poi le testimonianze di chi, quella notte alle 22:10 circa, avvistò uno strano fenomeno intorno alla nave ancorata più a sud delle altre (la Agip Abruzzo), una sorta di cappa nebulosa, poi all’improvviso lo spegnimento delle luci di bordo e il verificarsi di strani bagliori giallo-rossastri e sporadiche luci a poppa. Il tutto accompagnato da un forte odore di nafta a spandersi intorno. L’ipotesi, insomma, di un incendio verificatosi in rada prima della collisione.

È questa, ad esempio, la tesi sposata da Enrico Fedrighini, autore di una ricerca minuziosa sfociata nel libro Moby Prince: un caso ancora aperto: a causa di quegli strani andirivieni di bettoline nei paraggi delle navi U.S.A. intente a trasbordi illeciti, qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto, con un’imbarcazione “impazzita” che potrebbe aver tagliato la rotta al Moby Prince costringendolo a una virata repentina e all’inevitabile collisione… Diverse le altre ipotesi: dal sabotaggio, all’attentato con una bomba nei locali dei motori delle eliche di prua, alla “semplice” verità di una nave malmessa, con un solo radar funzionante a bordo, l’altro rotto, in attesa di riparazione, poi sostituito con uno nuovo da poco installato, ma non attivato correttamente perciò inutilizzabile…

Depistaggi, prove manomesse, tra cui la contraffazione dell’unico filmato amatoriale girato a bordo e trovato miracolosamente intatto, fascicoli spariti, false testimonianze, aggressioni a chi qualcosa stava per dire, rivelazioni anonime, sciacallaggi e opportunismi… tutto ha contribuito in questi diciassette anni ad infittire una nebbia che, come tanti hanno già detto, è più subdola di quella a cui i più vorrebbero, semplificando, attribuire la colpa di tutto questo dolore.

I processi sono un altro capitolo di amarezza e delusione: fin dall’udienza preliminare, col proscioglimento da ogni accusa dell’armatore Achille Onorato, del comandante della petroliera Superina e del comandante del porto Albanese per proseguire fino all’assoluzione perché il fatto non sussiste dei quattro imputati alla sbarra, il Terzo Ufficiale di Coperta dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla di guardia al momento della collisione, il marinaio di leva Gianluigi Spartano accusato di non aver prestato attenzione al May-Day del traghetto, l’Ufficiale di guardia in capitaneria Lorenzo Checcacci e il comandante in seconda di Capitaneria Angelo Cedro.

In secondo grado l’unico a pagare sarà Rolla, reo di non aver azionato i dispositivi di segnalazione per la nebbia. Ma con reato in prescrizione, senza più valore penale.

La più grossa tragedia della Marina Civile italiana dal secondo dopo guerra non ha ancora un finale. Lo attendono più di tutti, e vogliono che si chiami verità, coloro che hanno amato e amano quelle 140 persone salite sul Moby Prince.

 

Annagloria Del Piano


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