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Nino Lisi. Il burkini della nonna
20 Agosto 2016
 

Mia mamma, nata nel 1907, e mia zia, sua sorella, del 1905, mi raccontavano che da piccole, più o meno dunque negli anni della prima guerra mondiale, facevano il bagno a mare, tuffandosi in acque limpidissime da uno stabilimento costruito in legno sugli scogli antistanti la curva con la quale via Nazario Sauro si innesta in via Partenope, a Napoli.

Lo stabilimento era diviso in due sezioni rigidamente separate; dall’una non si poteva passare nell’altra e nemmeno ci si poteva guardare, gli sguardi essendo impediti da un’alta paratia di legno che si prolungava anche nel mare per parecchi metri. In una delle due sezioni avevano accesso solo i maschi; nell’altra solo le donne. Le signore, se facevano il bagno, lo facevano indossando un camicione che le copriva sino alle caviglie, al disotto del quale non so quale altro indumento avessero, ma certamente non erano nude. Insomma qualcosa di molto simile ai Burkini di cui si parla tanto in questi giorni. Se mia nonna avesse fatto il bagno lo avrebbe indossato.

Fu in quel mare “separato” che mamma e zia divennero delle appassionate nuotatrici e, specialmente zia, provette sommozzatrici, pratiche in cui si sono cimentate ambedue anche passati gli 80 anni di età.

I miei, intorno alla metà degli anni trenta, d’estate, per un paio d’anni, presero in fitto un appartamentino ai Gerolomini, località tra Bagnoli e Pozzuoli, nei pressi di una stazione termale dove mia monna, di pomeriggio, accompagnata da mia zia, andava a “fare i fanghi”. Di mattina, mamma e zia portavano me nella spiaggia sotto casa che ne era separata solo da una strada. Di pochissimi anni (sono nato nel 1930), ero in costume e sguazzavo sul bagnasciuga; mamma e zia no: indossavano normali abiti estivi e vigilavano sulla mia incolumità sedute su due sgabellini pieghevoli ed all’ombra di ombrellini, sotto la sorveglianza di mia nonna che di tanto in tanto si affacciava dal balcone. Non so se, da appassionate nuotatrici, mamma e zia soffrissero di non fare il bagno; se così era non lo davano a vedere, almeno a me.

Poi ci furono la guerra d’Africa, quella di Spagna e la seconda guerra mondiale. E si sa che le guerre sono potenti acceleratrici dei cambiamenti dei costumi.

Così, nel secondo dopoguerra mia zia e mia madre ripresero a fare i bagni a Torre del Greco, dove eravamo sfollati per sfuggire ai bombardamenti che però ci raggiunsero anche lì.

Pure la casa di Torre del Greco era prospiciente ad una spiaggia, come quella dei Gerolomini; ne era separata solo dai binari della ferrovia per le Calabrie, che si superavano mediante un sottopasso. Lo stabilimento era anch’esso di legno, come quello di via Partenope, ma non aveva separazioni: le “signore bagnanti” non erano sottratte agli sguardi dei “signori bagnanti”. I costumi però erano castigatissimi, specie quelli delle signore: i due pezzi non erano ancora stati inventati, tampoco i bikini e non parliamo dei topless che si sarebbero visti solo dopo alcuni decenni, non senza che non poche multe e qualche condanna colpissero le prime audaci che avrebbero osato ridurre così drasticamente l’abbigliamento marino.

Mamma e zia indossavano costumi di una stoffa pesante, neri e con il “gonnellino”. Solo alcuni anni dopo passarono al “mezzo gonnellino” che copriva l’inguine e la parte superiore delle gambe. Al costume senza gonnellino arrivarono solo in età avanzata, diciamo da vecchie.

Ora, mamma e zia non erano mussulmane, ma cattoliche; non erano di una classe sociale poco evoluta, ma borghesi; erano nate a Napoli da una mamma appartenente alla “buona borghesia” napoletana (così si diceva una volta) ed avevano avuto un padre veneto, rampollo di una famiglia aristocratica di proprietari terrieri, di idee liberali, i cui membri maschi avevano aderito alla Carboneria e contribuito al finanziamento non so di quali imprese delle guerre di indipendenza. Dunque l’adeguamento di mia madre e mia zia alle usanze in materia di abbigliamento balneare che ho decritto non dipendevano da questioni né di classe sociale, né geografiche e neppure religiose, perché in queste cose la religione, come vedremo, c’entra sì e no. Di sicuro dipendeva dalla impronta patriarcale che fortemente permeava (e permea ancora) tutta la nostra società, cultura e religione comprese.

Dio, infatti, come insegna Maria Lopez Vigil, teologa cristiana, «nacque donna» all’epoca delle tribù nomadi e tale rimase a lungo. Si mascolinizzò solo quando le popolazioni, divenute stanziali essendosi date all’agricoltura come attività principale, sentirono «la necessità di difendere attraverso le armi e la violenza granai e territori». Così «l’idea ancestrale (di un dio al femminile) si andò trasformando. La cultura convertì Dio in maschio e in un maschio guerriero».

Tale divenne ovunque: in Asia, in Africa ed in quella che chiamiamo Europa, nonché per tutte le religioni: quelle che c’erano all’epoca e quelle che sarebbero sorte dopo. Così: maschio è il Dio dell’Ebraismo, quello del Cristianesimo come quello dell’Islam, cioè di tutte e tre le “Religioni del Libro”, di tutti e tre i Monoteismi. E non per rivelazioni divine, ma per il predominio della cultura patriarcale che, sorta a seguito dei cambiamenti culturali e sociali provocati dalla rivoluzione agraria di millenni fa, si è consolidata nel tempo ed ha improntato tutte le società determinandone i costumi ed i malcostumi, non solo quelli dei credenti, ma anche quelli degli agnostici e degli atei; infatti la collocazione della donna in posizione sociale subordinata al maschio si riscontra non solo nei contesti religiosi ma in tutti gli ambiti delle società.

Considerare dunque la questione degli abbigliamenti femminili, in spiaggia ed altrove, come se si trattasse di costumanze connesse unicamente al dato religioso non solo è sbagliato, ma è anche deviante e pericoloso. Deviante, perché sposta l’attenzione e l’impegno da quella che è la radice profonda del problema, che così non viene affrontata. (Si ripete la solita questione del dito e della Luna). È pericoloso, in quanto concorre, anche se involontariamente, a rendere plausibile che si tratti di una guerra tra religioni (che sarebbe la peggiore e più ributtante delle guerre) e a suscitarla artificiosamente.

Le donne, con le loro lotte, con il Femminismo, hanno colto nel segno, scoprendo nel patriarcalismo l’origine della subordinazione della donna al maschio che si verifica nei più disparati contesti e individuando nella cultura patriarcale quella da debellare. Le loro lotte per l’emancipazione e per la liberazione hanno raggiunto stadi e risultati diversi nei differenti paesi, costringendo il patriarcalismo ad arretrare in misure che variano da paese a paese. In nessuno però la cultura patriarcale è stata debellata, nemmeno nel nostro (dove i femminicidi, che sono solo la punta dell’iceberg, ancora imperversano) ed in tutti la lotta delle donne, che si svolge soprattutto sul piano culturale, deve proseguire e va sostenuta. Possono sostenerle pure i maschi che hanno imparato da esse a riconoscere il patriarcalismo anche in se stessi, a patto che rispettino i tempi e le modalità che sono le donne, paese per paese, a dover stabilire e che siano consapevoli che la libertà, l’emancipazione, i diritti, così come la democrazia, non sono merci da poter esportare ed importare, né oggetti da regalare o da essere ricevuti in dono. Possono essere solo conquistati.

È difficile accettarlo per noi occidentali. Malati di eurocentrismo, pretendiamo di imporre la nostra cultura, i nostri “valori”, i nostri modelli di vita agli altri popoli. Sì, so bene che questa pretesa è falsa ed è servita e serve per mascherare il colonialismo ed il neocolonialismo, cioè per occultare la nostra smaniosa bramosia di depredare delle loro risorse i popoli di altre terre. Per falsa che sia, questa nostra pretesa è comunque assai perniciosa: abbiamo visto tutti e tutte quali danni abbiamo prodotto anche a noi stessi/e quando abbiamo finto di voler esportare la democrazia. Danni analoghi provocheremmo se volessimo adesso pretendere di esportare in altri paesi la libertà e l’emancipazione delle donne e di imporle alle donne straniere che sono venute ad abitare da noi.

Penso quindi che i divieti stabiliti in Francia di indossare veli, burka e burkini, dimostrazioni per altro che neppure laicità e laicismo sono esenti dal patriarcalismo, siano una pessima cosa. Sembra per fortuna che in Italia, forse più per timore di eventuali ritorsioni dell’Isis che per convinzione, non si sia disposti a seguirne l’esempio. Menomale.

Ma non basta. Credo che per non ostacolare il cammino di liberazione delle donne di altri popoli, oltre che rispettare i loro tempi e le loro modalità, dovremmo preoccuparci ed occuparci di contrastare il patriarcalismo in casa nostra.

 

Nino Lisi

(da Lista di discussione Lidia Menapace, 19/08/2016)


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