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In libreria/ Marisa Cecchetti. “Spada, sangue, pane e seme” di Isoke Aikpitanyi
18 Settembre 2013
   

Una ragazza nigeriana di Benin City, nello stato povero di Edo, vissuta lontana dai servizi e dall’informazione, un giorno scopre la Tv e lo stile di vita occidentale. Qualche volta ha visto ragazze tornare a Benin City dall’Europa, vestite bene e ingioiellate. E se questa ragazza senza malizia, che non ha conosciuto il male vendendo frutta e verdura insieme a sua madre, viene a contatto con qualcuno, un occidentale, un ohìbo, che promette la fortuna in Italia, allora è inevitabile che cominci a sognare e lasci la sua terra, carica di aspettative. Purtroppo si accorgerà presto di aver sbagliato America, di essere giunta davanti a un ghiacciaio. È accaduto nel 2000, lei aveva solo vent’anni.

Isoke Aikpitanyi è stata soggetto della tratta delle nuove schiave, in mano alla mafia nigeriana e italiana, che l’ha avvicinata al destino dei suoi antenati venduti agli Europei sulla costa del Benin, la costa degli schiavi: «È da questa mia terra/ che sono giunti/ tutti gli schiavi neri del mondo». Privata del nome, «Il mio nome/ non è Rose/ a casa/ mi chiamano Isoke», marchiata con una cicatrice, accompagnata in una strada di periferia di una città del nord, nella nebbia, mezzo svestita, su un pezzo di marciapiede di cui ha dovuto pagare l’affitto, lasciata lì, «africana, nera e sola». Totalmente spersonalizzata: «Ci han tolto -costoro-/ perfino la lingua/ perché con quella/ cantavamo e pregavamo/ la nostra quotidianità/ che non aveva bisogno di speranze/ […] La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo/ essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati».

Isoke Aikpitanyi non ha mai avuto intenzione di scrivere poesie, ma Spada, sangue, pane e seme (Lavinia Dickinson Editore) è un bel risultato poetico: «Non mi metto a scrivere poesie a tavolino: Claudio, il mio compagno, accende il registratore e mi fa parlare, mi lascia raccontare, registra i nostri dialoghi. È lui che poi trascrive i nastri e quando mi dice “questa è meravigliosa” io mi sorprendo perché ho lasciato solo piena libertà ai miei pensieri».

La sofferenza di Isoke è diventata canto: se hai vissuto come in un incubo e ce l’hai fatta ad uscirne, con coraggio, se soprattutto hai conquistato la sicurezza e la forza che deriva dall’essere amata, allora le tue parole, appena risuonano nell’aria, diventano poesia, quella nata dal tuo sangue, voce delle violenze conosciute e subite.

Isoke ora va in giro con i suoi libri, è conosciuta e non ha paura del racket della mafia, che, dice, non ha interesse a colpire persone in vista, come è diventata lei raccontando la verità, «perché qualcuno la verità la deve pur raccontare». Ha raccontato lo scorso anno che cosa significa la parola “strada” anche in un programma televisivo condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano.

Ma non basta il suo attivismo: «Quel che chiedo, da sempre, e quel che chiede l’associazione vittime ed ex vittime della tratta, che ho costituito insieme a tante amiche, all’interno del Progetto “La ragazza di Benin City”, è proprio essere ascoltate, aver voce, veder riconosciuto il fatto che siamo propositive e trovare riscontro istituzionale e sociale alle nostre richieste». Perché ad altre non sia fatto del male come a lei da criminali «complici di una logica di mercato che vende e compera tutto, anche le persone, anche le nuove schiave».

Freddo, solitudine, paura, disperazione, sono stati i suoi compagni.

David McAlmont ha composto per lei una canzone su musica di Michael Nyman, riportando quasi testualmente le parole di Isoke Aikpitanyi da un’intervista rilasciata ad Al Jazeera: «Fermavo le macchine/ Per andare dentro/ E stare un po’ al caldo./ Ho lasciato che mi trattassero come una moglie/ E se penso a come sono riuscita a sopravvivere/ Non ci posso credere, in macchina, in strada/nella città di Torino».

La vergogna per se stessa, per quello che è costretta a fare, si associa alla vergogna che prova per tutti quelli che le passano davanti, combattuti tra condanna e desiderio. Si stupisce e si indigna davanti al disinteresse delle donne italiane: «E tu dov’eri/ mentre la tua sorella era schiava?»

Al tempo stesso c’è la consapevolezza delle propria innocenza e della propria purezza di cuore: «ci incontrate/ ai bordi delle vostre strade/ sappiate/ che siamo ancora vergini/ come nella placenta di nostra madre». Dapprima incapace di opporre un no deciso, per paura di rimetterci la vita, come è successo a molte ragazze che si sono ribellate, finalmente Isoke ha trovato il coraggio di rischiare fino in fondo e dire basta.

Nelle sezione dal titolo Anatomia di corpi in amore, un canto a due voci, carnale e solenne come quello dei Salmi, si innalza un inno alla rinascita, alla riconquista del corpo, all’ascolto del proprio cuore, in un annullamento totale nel desiderio, svuotata la mente dal dolore: «non conosco più nulla di me/ solo i miei pensieri».

E la bellezza della Venere nera diventa bellezza per antonomasia, a comprendere tutto il genere umano, perché la terra di Isoke, nel cuore dell’Africa, è la terra «dove il primo bimbo/ nato dal seme di un uomo/ e dal ventre di una madre/ ha pianto/ la sua prima preghiera a Dio/ che non è cristiano/ e non è musulmano/ ma è solo Dio».

 

Marisa Cecchetti

 

Isoke Aikpitanyi, Spada, sangue, pane e seme

Introduzione di Roberto Saviano

Lavinia Dickinson Editore, 2013, € 9,90 (eBook € 1,99)


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