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Paolo Diodati: A Roberto Benigni, Hum… che occhi, che beddi capiddi…
Roberto Benigni
Roberto Benigni 
29 Aprile 2009
 

Caro Benigni, dovrei scriverle una lettera grondante ammirazione perché, come tanti, ritengo che lei sia un fenomeno, un dono della Natura. Tanta è la forza, la dinamite, la carica comica, la simpatia, la leggera grazia che emana. Nei suoi sguardi, ridenti o pensosi, la Natura ha raggiunto la perfezione. E simili considerazioni vengono da uno che non ha la fortuna di conoscerla di persona. Figuriamoci cosa arriverei a scriverle, se fossi tra i fortunati che possono frequentarla! Vedendola sul palco a 300.000 volt, correre, saltare, smitragliare battute fulminanti, preparate con perfetta logica e tempismo, mi auguro che lei abbia in comune con Berlusconi, almeno la resistenza fisica fino ai famosi 120 anni. Le garantisco che è tanto il mio affetto per lei e così grande l’ammirazione, che nel vedere il suo incredibile dispendio d’energie, ogni volta che sale su un palco, m’assale una vera angoscia… Penso a quando si avvicinerà ai 120 anni: con un po’ di fiatone, forse più sudato di quanto non lo sia adesso, forse anche un po’ trambellante nelle sue corse acrobatiche intorno agli ospiti che lei continuerà a prendere in braccio, dopo aver attentamente controllato attributi e poppe.

               

Nell’esternarle il mio sincero e immenso apprezzamento che sconfina nell’amore, devo però specificare, non senza imbarazzo, che il mio amore per lei non sentirebbe mai la necessità di manifestazioni fisiche particolari, con particolari contatti per essere ancora più esplicito. Devo mettere le mani avanti per non essere frainteso, dopo averla sentita ripetere a memoria la famosa lettera di Oscar Wilde. A tal proposito, le proporrò al termine di questa mia, non so come chiamarla altrimenti, un’aggiunta realistico-sintetica, per rendere inequivocabilmente chiara quella bella lettera, scelta come pezzo forte per il Festival di S. Remo di quest’anno, evidentemente spinto dalle polemiche sul testo “Luca era gay”.

         

Dal palcoscenico dell’Ariston, di fronte a milioni di telespettatori ipnotizzati dalla sua presenza, lei ha ritenuto di proporre quelle parole interpretate, immediatamente, come un Inno all’Amore. Amore oltre i confini meschini e riduttivi dei vecchi steccati che dividevano i due recinti che imprigionavano gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Splendida risposta, colta, umanamente ineccepibile e commovente da contrapporre alla riprovevole canzonetta di Povia, limitata nel suo orizzonte e, quindi, reazionaria e infantilmente incolta.

Grillini, inebriato da quella sua lettura, trionfante, ha creduto di chiudere brillantemente il cerchio, dando una lezione a Povia su cosa sia l’Amore. Ha indicato la sua lettura come la risposta che, poverino, meritava e ha letto l’accorato messaggio di un gay che aveva perso l’amato compagno.

“Impari, Povia, come sanno amare i gay!!” È stata la lezione-schiaffo finale al cantante. Come se tra eterosessuali non si sapesse amare, soffrire e piangere allo stesso modo.

     

Il più noto critico italiano di musica leggera, Mario Luzzato Fegiz, concludeva il Festival, bollando Povia di omofobia e ribadendo tale accusa sul Corriere della Sera, dove gli aveva già affibbiato un bel 3 specificando che la sua era la peggiore in assoluto tra le finaliste di tutti i 40 anni di festival che aveva seguito. Nonostante la nostra vecchia e cordialissima corrispondenza, cestinava una mia lettera in cui chiedevo: “Avresti espresso lo stesso drastico giudizio negativo, se argomento e titolo fossero stati Luca era etero, adesso sta con Piero?”. Domanda provocatoria non degna di risposta.

       

Dibattiti televisivi, articoli sui maggiori organi di stampa, per non parlare degli eccessi leggibili in rete, tutto, a cominciare purtroppo da lei, caro Benigni, ha avuto il sapore dell’esagerazione. E credo che, tra tanta confusione, luoghi comuni e paura di sembrar superati culturalmente e sessualmente, lei abbia portato a esempio, un esempio infelice. Anzi, doppiamente infelice.

Povia, secondo lei e Grillini, deve imparare da Oscar Wilde, come sanno amare i gay? Certo, Wilde impazzì per Alfred Douglas a tal punto da dimenticare totalmente sua moglie Constance e da non rivedere mai più i due figli avuti da lei, morta a 40 anni tra stenti, umiliazioni e inconsolabile dolore. Se lei o Grillini aveste ricordato questo romanticissimo comportamento, avreste reso ancora più grande l’immagine dell’amore gay. Un amore che fa scomparire anche quello per gli incolpevoli figli. Ma Grillini sa che fine fece quella irresistibile passione tra Wilde e il giovane Lord? Uscito dall’assurda carcerazione, Wilde lasciò Douglas per un altro ragazzetto che lasciò, per un altro che poi abbandonò per un altro ancora e così via, fino all’esaurimento della spinta fisica. Era quello l’amore che lei Benigni, ha voluto celebrare su uno dei palcoscenici più famosi e illuminati del mondo? Era quello l’amore che Grillini doveva indicare come esempio agli insensibili, ignoranti e cavernicoli eterosessuali?

   

Vi preghiamo, Benigni e Grillini: non esageriamo col culto dell’amore gay. Accontentatevi che sia considerato al livello degli amori tra etero. E non dimentichiamo l’altra faccia della medaglia Wilde. Cosa sarebbe successo se lei avesse letto, dopo quella lettera, anche altre parole dello stesso Wilde? Per esempio, quelle dette tre settimane prima di morire a un corrispondente del Daily Chronicle: «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al piú presto». La completezza dell’informazione, sull’amore “usa e getta”, sarebbe stata un’inammissibile stonatura e sarebbe costata molto cara alla sua immagine. Quindi, meglio sorvolare e prendere solo la parte della verità che fa più comodo, dato il pensiero dominante. Ma, ripeto, non esageriamo fino a ridicolizzare i vari Povia e dando dell’anormale a chi ha gusti diversi dai gay e vuol vivere tranquillamente, lasciando vivere tranquillamente tutti gli altri.

    

“Io anormale? Non esageriamo!”, gridai, mentre correvo a tutta birra, in una fredda nottata trascorsa alla stazione di Milano. “Se proprio non vuoi, non ti bacio con la lingua nella bocca! E ti pago bene. Ma che fai? Te ne vai? Ma allora sei anormale!” mi disse un finocchio (allora si chiamavano così) che, offrendomi somme sempre più alte, come faceva Oscar Wilde con i ragazzini, voleva portarmi a casa sua per un raffinato e colto “colloquio” d’amore. Non concepiva che uno potesse rifiutare lui e i suoi soldi! Mi diede del pazzo e alla fine, cercando di raggiungermi quando me la diedi a gambe, urlava, tra la gente incuriosita “Ma dove scappi, anormale!! ANORMALE E E E…!!!” 

                               

Non esageriamo, Grillini e caro Benigni. Non esageriamo, finendo nel ridicolo e nel grottesco, dichiarando in pubblico, di fronte a uno sbalordito Bruno Vespa, assurdità tipo «Noi omosessuali piacciamo di più alle donne, perché siamo più intelligenti degli eterosessuali e perché ci laviamo». (Grillini, 17 marzo 2009, "Porta a porta"). E Bruno Vespa, incredulo e divertito, «Non so se mi crederà ma io, che non sono gay, le assicuro che, prima di venire qui, mi sono fatto la doccia!».  

           

Devo confessare un lato confuso (o una limitazione) nelle idee che mi sono fatto a proposito del legame che esiste tra l’affetto che può sconfinare nell’amore (veda la lettera che dovrei scriverle, caro Benigni, continuando col tono usato all’inizio) e le pratiche fisiche che possono esserci o non esserci per manifestare questo affetto o questo amore. Perché ingenerare confusione tra lettere che, usando le stesse espressioni, potrebbero avere fini diversi? Come distinguere una mia lettera da quella di un moderno Oscar Wilde che, dopo le belle parole, è sottinteso, vorrebbe anche metterle, o farsi mettere, “mani e altro” addosso?

    

E che sms  le scriverebbe, modernamente privato del pudore che, incredibile in un anticonformista come lui, troviamo nella lettera che lei ha letto, con la stessa partecipazione che mette nel leggere l’amore di Dante per Beatrice? Perché fermarsi alla descrizione dei capelli e della loro bellezza e non far trapelare una delle manifestazioni fisiche che sembra siano inseparabili dalle descrizioni wildiane? Perché non prova a modernizzare linguaggio e riferimenti, con uno dei suoi celeberrimi guizzi, non sempre oxfordiani? Perché, la prossima volta, non sintetizza rendendo più chiaro il contenuto di quella lettera, o l’eventuale lettera di un moderno Wilde? Oso proporle una formidabile e chiarificatrice sintesi angelico-pecoreccia che, scherzosamente, un amico siciliano, ama fare. Eccola “Humm che beddi capiddi che ci havi… e che beddi occhi! Ti o mettesse e mi o mettesse ‘ntu culu!”

  

 

 

Paolo Diodati


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