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Marco Cipollini: Kore. Un antico naufragio: un delitto, un amore assoluto
17 Aprile 2007
 

Il poeta toscano, collaboratore di Tellus e Tellusfolio ha pubblicato per i tipi della Titivillus di Pisa, dopo i molti libri di poesia, un romanzo. Il giornale on line pone sul suo scaffale Kore e la cura è affidata allo stesso autore che qui sceglie di ri-pubblicare la seconda e la quarta di copertina, un breve lacerto iniziale del Capitolo I, e del “Materiale di riflessione” sul romanzo.

 

Claudio Di Scalzo

 

 

SECONDA DI COPERTINA

 

Ancora un tesoro? Ancora una mappa trovata per caso? Non solo e non proprio questo. I tre giovani universitari che, interpretando un misterioso testo in versi del XVI sec., si mettono alla ricerca di un carico di statue classiche (ma esisteranno davvero? Il loro non sarà un abbaglio filologico istigato dalla passione?) scivolano inconsapevolmente in un intrigo delittuoso di molti anni prima, che a quel naufragio si ricollega. E non è l’indagine razionale, che pure stabilisce nessi e sequenze di fatti precisi, a far ritrovare il bandolo dell’intricata matassa, bensì questa sarà abolita, come il nodo gordiano da un colpo di spada, dal percorso iniziatici di colui che, dei tre, è abbagliato da un’esperienza d’amore assolutamente non comune.

 

 

QUARTA DI COPERTINA

 

Una scrittura intensa e inventiva, che si evolve stilisticamente con il protagonista narrante, e un filo narrativo che guida attraverso i meandri di eventi plurisecolari verso l’uscita di un labirinto con il suo minotauro criminoso, costituiscono solo due degli elementi di fascino di questo lungo racconto; il cui punto focale resta comunque la virgo semiselvatica, padrona e ostaggio di bestie temibili, nella quale s’impersona in modo memorabile quanto C. G. Jung definisce Anima. E l’amore, da lei scaturito a trasformare il protagonista da gallettino acculturato in un uomo provato dalla vita, è in fondo il medesimo che unito un rude corallaro a una bella e raffinata studiosa, e questa alla statua della kore, e la stesa fanciulla ninfale all’icona favolosa, di cui appare l’incarnazione.

 

 

KORE

di

Marco Cipollini

 

 

I

 

Quell’anno, fu e resterà l’apice della mia vita. Il 1980. Non c’erano i cellulari né internet, almeno da noi, né l’aids rassegava gli approcci sessuali, né si parlava dell’effetto serra, i ghiacciai non si scioglievano come quando si sbrina il frigorifero, e la gente non pagava con la carta di credito anche le mentine. Tutto era lì lì per cambiare, proprio tutto, ma era ancora un altro pianeta. Del resto anch’io ero un’altra persona, e stavo lì lì per cambiare, proprio tutto. Una cosa poi mi spaventa… sì, ho detto ‘spaventa’. Che più passa il tempo e di quell’anno ricordo sempre più i dettagli, invece di cancellarli dalla nera lavagna della mente… Come in un’estasi angosciosa via via rivedo anche i più insignificanti. Ma sarà vero che non hanno un significato?

A quel tempo tornavo in treno al paese da Firenze il sabato, verso metà mattinata, per ripartire la domenica sera, perché alle otto del lunedì mi aspettava un seminario d’italiano, mia disciplina di laurea. Salutavo gli amici e i parenti, rimettevo in ordine le mie cose. Sbadigliavo, anche.

Un pomeriggio di questi sul finire dell'inverno, non sapendo come smaltire ore e ore piovose, salii in soffitta. Erano parecchi mesi che non mi scricchiolava sotto i piedi la vecchia scala a pioli. Accesi la lampadina, sempre più fioca di polvere, sull'isola dei tesori dell'infanzia: un’Itaca vent'anni dopo. Rovistai come un bradipo fra pile di libri scolastici, miei e parentali, e pacchi e pacchi di riviste e di giornali del dopoguerra, legati con lo spago; e nei bauli e nelle casse ingombri di cenci e di cianfrusaglie; e nei decrepiti mobili sbilenchi, catacombe di tarli immemorabili.

Lampo dolceamaro, mi capitò fra le mani una vecchia stampa incorniciata, già vecchia a detta della povera nonna: una santa Lucia - occhi elemosinati sul piattino e palma del martirio - quale credo fosse, ai giorni di Porta Pia, in ogni cucina. Rammento come da piccino, a me lì senza fiato, nonna narrasse con voce grave e soave storie di supplizi e di purezza, e inesplicabili crudeltà pagane, e l’ancor più inesplicabile pertinacia cristiana: màrtiri con la pelle a strascico, i quali ridacchiavano al carnefice, e con un amen poi gli ricresceva la scorza; fanciulle (io mi figuravo quelle bianchicce dell’Azione Cattolica) in bocca ai leoni come occhiuti sfilatini con le trecce penzoloni, e strillanti spietatamente alleluia; e santa Lucia appunto, coi globi concentrici nel vassoino, confetti orridi e ipnotici... “O com’è, nonna, che gli occhi ce li rià, e più belli di prima?” “Gli è che Gesù gliel'ha ridati e più belli di prima, e con questi qui vede anche i peccati dei bambini!” E i due di nonna fissarmi, sigilli di ammonizione eterna.

Ripensavo a questo, stringendo la reliquia di affetti. Né ebbi cuore di lasciarla lì. In cucina, con un cencio umido la spolverai: e lustra mi sorride. Notai, dietro, il cartone di sostegno, tenuto alla cornice da chiodini rosi di ruggine: si rigonfiava al centro come un dolce mal lievitato e risecchito. Premuto, cricchiava... Toltolo, tra esso e la stampa a dare spessore, si sollevarono una, due cartapecore!... Col caldo di tante estati sotto tetto, si erano ricurvate, facendo così aggobbire il cartone. E ambedue scritte!

Non sto a dire qui l'emozione. Riesiliata da ingrato la Santa della vista nel buio del ripostiglio, mi piazzai a lume e scrivania. Ma con un ventiquattro a filologia romanza, sparavo più dannazioni che parole. Comunque, era italiano lampante, un corsivo stitico e grommoso con tante, tante abbreviazioni. Carta e penna, lo principiai a trascrivere saltando più di un terzo di quei graffi d’un color seppia maccoso e sbiadito. Ma a metà mi scoraggiai. Mi ero subito avvisto che vi altalenavano rime; anzi, erano proprio ottave scritte senza accapo, di certo per risparmiare la costosa pergamena. […]

 

 

MATERIALE DI RIFLESSIONE SU KORE

 

Premessa. In modo schematico, si può affermare che ci sono due grandi categorie narrative. La prima di queste, con un procedimento analitico, descrive il mondo fenomenico nella sua complessità storica, sociologica, politica, psicologica, naturale, ecc., e da tale indagine cerca di ricavare cause ed effetti interni, correlati in una catena di spiegazioni convincente ma interminabile: non se ne trova mai il capo, ancorato a un principio di senso universale che armonizzi in unità il tutto. In tale categoria rientra l’enorme massa di scritti che raccontano eventi o descrivono realtà storiche, dalla cronaca giornalistica al romanzo storico o realistico, dal racconto poliziesco a quello intimistico, ecc. La “visione del mondo” che sorregge questa categoria narrativa è l’esposizione, ritenuta oggettiva, di quel mondo medesimo, la cui realtà è tutta nella sua manifestazione fenomenica, che solamente è in quanto accade. Quanto vi permane di irrisolto, incompreso, oscuro, — l’irrecuperabile principio di senso universale — ha un carattere enigmatico, come fosse uno scrigno di cui si è perduta per sempre la chiave. Questo perché il narratore apre l’occhio materiale sui dettagli del mondo circostante, ma chiude l’altro, spirituale, abolendo così ogni possibilità di sicura prospettiva conoscitiva. Infatti qualcosa, che è aldiquà, si può conoscere nella sua essenza ontologica solo se posto in relazione a qualcosa di fondamentalmente diverso, che sia aldilà.

L’altra categoria è, senza confronti, più ristretta quanto a numero di opere. Pur descrivendo il mondo fenomenico, questo genere di narrazione, con un procedimento sintetico, non si ferma alla raffigurazione della realtà fisica, che pur rimanendo concreta acquisisce uno status di schermo, di diaframma, ma cerca di attribuire ad essa un senso superiore, o comunque altro; così la descrizione della realtà ha una tensione metaforica, pur non dimettendo lo status di testimonianza materiale. In queste narrazioni le cose e gli eventi hanno un chiaro valore simbolico; ciò che è un’aggiunta di senso, non un depauperamento di realtà. Come le antiche vetrate figurate acquistano verità visiva solo se sono illuminate dalla luce esterna del sole, così questa narrativa recupera una verità altra, a cui rimanda, ma che si manifesta attraverso la rappresentazione del mondo fenomenico. Quanto vi è di simbolico o epifanico ha un carattere misterioso, e il mistero può essere compenetrato attraverso un processo iniziatico. Kore appartiene a questa categoria, e in particolare alla tipologia, preziosamente esigua, in cui si personifica l’Anima, secondo la definizione di C. J. Jung. Vi ritroviamo — con le ovvie differenze di genere — opere quali l’Asino d’oro di Apuleio, Lei di H. R. Haggard, e Le avventure di Pinocchio, del nostro Collodi. La “Regina del cielo” descritta nella finale teofania dell’Asino, la (quasi) immortale Ayesha di Lei, la metamorfica Fatina che sempre salvaguarda il celebre burattino, appartengono tutte, con le caratteristiche proprie di ciascuna, alla medesima radice psichica di Dùdora, ipocorismo di Teodora, il cui etimo allude a una sua donazione sovrumana; in particolare, Dùdora e la Fatina sono entrambe Signore degli animali.

 

* * *

 

I tre personaggi maschili principali hanno, in varia misura, un valore paradigmatico dell’agire e dell’essere uomo. Lele e Paolo stanno agli estremi, Stazio li media, ma rappresenta anche qualcosa di più di un mero punto di equilibrio. Lele è l’uomo d’azione, virile fino all’esibizione, cacciatore di statue e di donne. Paolo è recluso nel suo claustrale mondo accademico, è uno studioso di carte antiche, timoroso del mondo esterno. La descrizione delle loro stanze rende la loro distanza psicologica. Stazio è appassionato di studi letterari ed è pure un ragazzo estroverso, che “si dà da fare” con le femmine, come lo si può essere alla sua età. Ha sempre la bocca piena di citazioni colte, che adatta a quanto va esperendo, cercando così di nobilitare la sua esistenza ancora acerba. (Il suo cognome, Stoppani, è quello dell’esagitato Giamburrasca, di cui sono stato lettore appassionato nell’infanzia.)

Ma Lele e Paolo, pur nel loro modo di essere e stile di vita così divaricati, rimangono, in fondo, sulla medesima riva esistenziale, mentre Stazio varca il fiume del divenire e conquista un nuovo mondo, il mondo dello spirito. Ciò risalta nel finale, allorché Paolo, sempre rinunciatario, ritorna alla sua “paziente scienza”, la stessa che ha permesso di decifrare il testo cinquecentesco, da cui è scaturita la vicenda, e le “rune” di Don Pippo, che la concludono. Lele, invecchiando, continua la sua ricerca delle statue, spasmodica e disperata, “ma non si arrende”.

Solo Stazio ha trovato quanto andava prima cercando nelle forme — illusorie e/perché distinte — della cultura e dell’eros; anzi, ha trovato molto, molto di più, in una manifestazione spiritualmente unitaria. Grazie all’amore di Dùdora, che lo ha fatto maturare in modo prima beatifico e quindi drammatico, da pinocchiesco burattino “si risveglia uomo”. Egli ogni anno, rinnovando quel vero e proprio rito a cui deve la sua iniziazione spirituale, torna a rivedere la statua della kore, in cui ritrova l’anima di Dùdora. Dice del custode dell’antiquarium: “Richiude la porta. Non origlia, penso”. Stazio parla alla statua, come faceva Dùdora un tempo sentendola un medium della madre ignota, e come questa, durante la gestazione di Dùdora, vi trasfondeva il proprio spirito. Paolo, intellettuale erudito e pavido, rimane al di qua dell’azione virile; Lele, all’opposto, vi si immerge incessantemente, ma senza soddisfare il suo fine. Ambedue non evadono dalla sfera dell’Avere. Stazio invece è entrato in quella dell’Essere.

 

* * *

 

Quest’ultima considerazione merita un approfondimento. La critica moderna ha sviluppato in modo enorme, se non abnorme, l’analisi formale dei testi, a volte riducendoli a un guscio vuoto; la cicala, allora, non canta più e ne rimane la crisalide: è questa che fa la gioia del critico formalista. Di certo l’analisi formale è di grande utilità, ma non può essere condotta fine a sé stessa, come invece avviene spesso. In tali casi il testo è anatomizzato in mille parti, il suo scheletro è smontato osso dopo osso, così che in fondo non resta niente dell’integro senso iniziale. Il critico anatomista, considerando, al pari di un chirurgo giudiziario, cadaverica l’opera in esame, è interessato al suo meccanismo funzionale, alla sua eziologia estetica, non alla sua teleologia etica. È solo il percorso intellettuale e retorico dell’autore che giustifica la sua analisi puramente retrospettiva. Dietro a tutto ciò sta un’idea deterministica, ovvero seccamente storicistica, dell’opera d’arte o poetica, non finalistica, quale invece è stata perseguita dall’autore. Ma, come disse qualcuno, con un cadavere non si fa all’amore, a meno di non essere necrofili.

Non escludendo certo l’analisi formale, ma recludendola nella sua specificità specialistica e, direi, propedeutica, chi qui scrive, con una prospettiva finalistica, sta dalla parte del lettore e non da quella del critico analitico, demolitore. Perciò sono assai più propenso a un’analisi sostanziale del testo. (Preferisco questa dizione, per non ricadere nella vecchia dicotomia di forma e di contenuto, che è fuorviante.) Ora, mi sembra che questo modello di analisi sia stato portato alla sua massima dignità da Dante. Il quale nel Convivio, II, 1, tratta dei quattro sensi di un’opera letteraria; essi sono: letterale, allegorico, morale e anagogico. Non sono, queste quattro, concezioni diverse, specialistiche, di analisi, ma indicazioni organiche di come il lettore dovrebbe procedere in successione per intendere l’opera, cioè attraverso una sua comprensione stratiforme.

Il senso letterale è il primo e il più semplice; un testo prosastico o poetico racconta qualcosa, e la comprensione di questo livello comunicativo è il minimo che si può esigere da un lettore. È comunque basilare. Scrive Dante: “lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inclusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è impossibile venire al dentro, se prima non si viene dal di fuori.” Dante approfondisce poi la questione, ma tanto qui basti. Il senso letterale di Kore rientra nel riassunto della vicenda, né più né meno.

Il senso allegorico considera che ogni uomo, secondo la sua natura, è portato a perseguire una mèta, che per alcuni è stabilita fin dall’inizio della sua ricerca, e tale rimane, staticamente (Paolo e Lele che non superano la sfera dell’Avere). Per altri la ricerca comporta una evoluzione, e quindi il disvelamento di una vera e più alta mèta (Stazio che accede alla sfera dell’Essere).

Il senso morale considera che la “vera e più alta mèta”, quella spirituale, è aperta a tutti, ma che ben pochi la perseguono, e questi son coloro che maturano spiritualmente, che non si fermano al conseguimento materiale di qualcosa, di per sé insoddisfacente, ma che vedono nell’oggetto ricercato il tramite per un’altra mèta, che lo supera, conferendo un senso compiuto all’esistenza.

Il senso anagogico — o come spiega Dante, “sovrasenso, e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura” — illumina sulla significazione ultima del testo. Nel nostro caso, che solo l’amore, il quale da carnale si raffina dolorosamente in spirituale, è la via che conduce al perfezionamento umano, mentre il perseguire soddisfazioni meramente materiali comporta frustrazione e irrequietudine.

Da quanto detto, deriva che questo racconto può essere compreso a vari livelli, secondo le potenzialità culturali e la prospettiva ideologica del lettore; resta, come sempre, il fatto che chi più sale vede più lontano. Quando parlo di completa comprensione da parte del lettore, non intendo tanto una percezione analitica dell’opera, quanto una compenetrazione di quel mondo simbolico da essa proposto, e questo avviene specialmente nel silenzio della parola, nell’auscultazione interiore.

 

* * *

 

Il genere letterario di Kore è formalmente ibrido, comprendendo quello avventuroso, quello criminale e quello iniziatico. I primi due generi hanno in comune l’indagine razionale, e ciò instaura un modello narrativo oggi quanto mai diffuso nella letteratura e nel cinema.

Considerazioni generali. Perché il racconto poliziesco (o similare) è il modello narrativo preponderante nei gusti del vasto pubblico? Perché fa sentire attivo e intelligente il lettore-spettatore, il quale indaga in parallelo con l’investigatore, come se stesse ricostruendo un rompicapo, e in più, pur rimanendo una persona perbene e detentrice di ogni civica virtù, è calato nei panni brividosi di un assassino. Che si vuole di più? Il piacere del peccato senza finire all’inferno! La nostra epoca, così regolata a ogni livello della società, è, per rivalsa inconscia, assetata di avventura e di sangue; non disponendo più di quello vero delle belve e dei gladiatori, lo ricrea sulla pagina con l’inchiostro o sullo schermo con il sugo di pomodoro.

Non è certo un caso che il genere gotico sia nato nell’età dei Lumi e quello poliziesco e orrorifico dilagato poi con il trionfo del Positivismo. Non è un eccesso di ragione a creare i mostri, ma il suo riduzionismo conoscitivo, la sua settaria trasformazione da strumento a fine (da qui l’attuale scientismo ecc.).

A un esame sbrigativo, emerge che il genere criminale crea quel legame in cui si riconosce a pieno (inconsciamente) la nostra epoca: Razionalità & Omicidio. Non siamo forse la discendenza di Caino, il fondatore della Città/Civiltà? Nel racconto poliziesco la Razionalità serve a scoprire il colpevole dell’Omicidio, ma non a risolverlo eticamente, come invece operò con la catarsi, e grazie al Mito, la tragedia classica. Nessun investigatore moderno potrà mai eguagliare, poeticamente e moralmente, l’Edipo sofocleo, che indagando scopre di essere lui stesso il colpevole e al medesimo tempo la vittima del Fato. La Razionalità, considerata oggi come un valore assoluto, è amorale, è un semplice modus operandi che può ugualmente servire tanto al poliziotto quanto al criminale.

Considerazioni particolari. In Kore il procedere della vicenda mostra che quanto più l’esplorazione raziocinante recupera dati certi su cui fondare i propri fini conoscitivi, questi non conducono a nulla di concreto (il recupero delle statue bronzee), e che proprio nel momento in cui sembrano finalmente annodarsi i fili dell’indagine (prima parte del cap. X), la vicenda prende tutta un’altra piega, con la morte di Dùdora: i cani, i guardiani della Natura, l’hanno sbranata perché ella ha perduto la sua verginità ontologica.

In questo discrimine della vicenda l’“avventura” termina (esclusa l’accennata prosecuzione di Lele negli anni, fisimosa e inconcludente) proprio sull’aprirsi della morte della fanciulla semiselvatica, e di lì a poco dello scenario delittuoso di molti anni prima. Ed è a questo punto che l’iniziazione di Stazio, avvenuta nel celliere grazie all’amore di Dùdora, si libera, con una svolta tragica, di ogni connotazione carnale e si evolve in purezza dall’Avere all’Essere. La perdita fisica della “fanciulla divina” accelera drammaticamente la maturazione morale del giovane, fin lì anche troppo brillante e attivistico. L’amore scopre una verità che supera la realtà sensibile, scopre la vera vita, la vita dello Spirito. (E allora azzardiamo l’equazione… Razionalità [riduzionistica] : Morte = Amore : Vita.)

 

* * *

 

L’evoluzione morale di Stazio è istituita fin dalla prima pagina, allorché, per noia, egli sale in soffitta, tornando “sull’isola dei ricordi dell’infanzia: un’Itaca vent’anni dopo”. Da questa divagante ricerca del proprio passato “innocente”scaturisce la sua futura vicissitudine, tutta contenuta in nuce nella stampa della santa Lucia. La santa protettrice della vista, la quale perdendo gli occhi carnali ne ha acquisiti di spirituali, sarà la propiziatrice che lo farà “vedere” al di là della banale realtà fenomenica. Ci sono dei dettagli al momento poco rilevanti, ma che acquisteranno a ritroso un grande significato. Uno è l’accenno scherzoso a quando la nonna gli raccontava dei martiri cristiani e lui, piccino, si figurava le fanciulle “bianchicce dell’Azione Cattolica in bocca ai leoni come occhiuti sfilatini con le trecce penzoloni”. L’altro è quando dice del ritratto della santa: “In cucina, con un cencio umido la spolverai, e lustra mi sorride” (il presente storico pone in rilievo l’accadimento).

Questi dettagli si riveleranno delle prefigurazioni, così come sono state definite dall’esegesi cristiana quei tratti dell’Antico Testamento in cui si è veduto una profezia del Nuovo; per es., quando in Genesi 3, 15, Dio afferma che il seme della Donna schiaccerà il capo al Serpente, l’episodio è stato considerato una premonizione della Vergine Maria che, generando il Figlio, ha sconfitto il Male (e come tale è raffigurata quando calpesta il Serpente). La santa Lucia che sorride risulterà un’evidente anticipazione della kore con il suo “sorriso arcaico”; e quanto alle fanciulle martiri immaginate da Stazio, sarà don Pippo a dire di Dùdora (p. 81): “È finita come i màrtiri in bocca ai leoni”. E già, mentre viene condotto da Dùdora alla sua casa (p. 66), scortato dalle due terribili bestie, Stazio pensa: “sto scontando un sabato di noia”, e dentro di sé rivede “la santa Lucia lustrata e sorridente”; poco dopo vedrà la kore. Non si considerano altri dettagli di minor conto; ma bastino questi a rivelare come l’esperienza di Stazio, a sua stessa insaputa, sia iniziatica, quale sarà beatamente adempiuta nel celliere con Dùdora, al buio (un buio mistico e carnale), di fronte alla statua della kore.

 

* * *

 

Il racconto suscita facilmente delle considerazioni sul valore e la funzione dell’opera d’arte, qui esemplata dalla statua antica. Oggi la parola arte ricopre uno spazio attributivo vastissimo, tale che quasi non ha più senso. Oggi, anche il “barattolo stiacciato” (p. 43), che Stazio ritrova nell’immondizia, può essere definito, purché soltanto lo si voglia, un’opera d’arte. Sì, l’arte è finita nell’immondizia, e ciò non suscita scandalo alcuno negli intenditori (sic!), come invece fa ancora nelle persone semplici, che ci credono, e magari pregano davanti a un’icona sacra.

Qui si parla di arte, nel vecchio senso del sublime. Nel racconto sono nominate quattro statue: due bronzi, l’Harmodios e Aristogeiton attribuiti a Kritios e Nesiotes, un kouros offerente, ancora di bronzo, una kore di marmo. Le prime tre statue non sono recuperate dai tre giovanotti; del kouros però si possiede la mano offerente, con quella fascinosa escrescenza di corallo, che la fa sembrare un cuore; la kore, infine, la si ha davanti agli occhi quasi intatta.

Perché alla fine non sono recuperate tutte e quattro le statue? Perché tale evento, che se avvenisse storicamente sarebbe augurabilissimo, in questa vicenda non avrebbe senso. Le statue dei tirannicidi rappresentano l’azione eroica che muta il corso della Storia. L’offerente, anch’esso eroico, forse per meriti atletici, è perduto nella sua individualità, ma di esso rimane il gesto universale dell’offerta, che si è trasformato simbolicamente in un cuore: vide cor tuum. La kore, lo strumento iconico della iniziazione, vero e proprio arredo sacro, è integra così come è integro il racconto che da essa prende nome: perché Kore è la kore, dato che nella narrazione si proietta in parole l’icona marmorea. Il lettore che scopre (in prima persona) le vicissitudini di Stazio, se lo fa con partecipazione, diventa Stazio: lo diventa ritualmente, così come Stazio ritualmente ogni anno rinnova il suo status spirituale parlando con la kore.

Nella nostra temperie storica — non si dice di altre, quali in effetti furono quelle in cui tali opere vennero alla luce — la vera ricerca di senso non è rappresentata né dai tirannicidi, operatori di libertà politica, né dall’atto glorioso dell’agonista, di cui rimane solo il gesto di dedizione, bensì dalla ricerca di sé stessi attraverso l’amore. Il senso veramente salvifico, alla fine, è tale solo se trascendente, se s’invera nell’individuo più intimo. Per Lele, il puro uomo d’azione, e per Paolo, il puro erudito, la ricerca — o, se si vuole, la quête, l’opera alchemica — si rivela un fallimento, e tale non può non essere; mentre Paolo abbandona ogni speranza, Lele continua disperatamente la sua ricerca. Grugnasco, che ha intuito vagamente il potere oscuro della kore, ma che a questa attribuisce solamente un valore di dolorosa memoria per la moglie e la figlia morte, s’inabissa al pari delle tre statue, in un tragico atto di annullamento. Stazio, passato attraverso l’amore vivente di Dùdora, si assimila invece alla kore, a cui ogni anno si riconsacra. L’opera d’arte ha ben poco valore se è percepita solo sul piano estetico, perché la sua funzione è di trasformare spiritualmente. Altrimenti resta un balocco di lusso.

 

* * *

 

Kore fu scritto (e riscritto) circa un decennio avanti che iniziasse la stesura decennale di Sirene. La “virgo semiselvatica” Dùdora è il preludio immaginale della sirena Àlia, che ne rappresenta la compiuta individuazione. Direi che Dùdora doveva morire per divenire, e risorgere finalmente da me stesso, come Àlia. Ambedue rappresentano quella figura psichica definita da C. G. Jung come “Anima”, ma a due livelli diversi. Mentre Dùdora deve morire affinché Stazio la possa transustanziare in sé stesso spiritualmente, Àlia acquista una completa autonomia umana, divenendo da immortale, in senso immanente, una creatura completamente umana, e quindi mortale, ma che può, a questo punto, accedere a una immortalità vera, perché spirituale.

La sirena è, prima che l’amore di Davide la trasformi in umana, un “animale”, anzi, la perfezione dell’animalità, dotata anche d’intelletto, ma di un intelletto per così dire “orizzontale”, che nulla concepisce oltre i propri orizzonti biologici. Perciò, anche quando ella diventa terricola per brevi periodi, grazie a una libido, a un eros privo di amore, rimane sempre immersa nel mare dell’inconscio, non avendo così alcuna coscienza “esterna” della propria finitezza creaturale; era proprio questa privazione coscienziale a renderla immortale-immanente, ma indifferenziata dal mondo. Acquisendo, grazie all’amore di Davide, i limiti della mortalità, può concepire ciò che sta oltre di essa. Scrive l’ultimo Jung: “Il sentimento dell’illimitato, comunque, si può raggiungere solo se siamo definiti al massimo. La più grande limitazione per l’uomo è il ‘Sé’; ciò è palese nell’esperienza: ‘Io sono solo questo!’ Solo la coscienza dei nostri angusti confini nel ‘Sé’ costituisce il legame con l’infinità dell’inconscio. In questa consapevolezza io mi sento insieme limitato ed eterno, mi sento l’uno e l’altro. Se mi so unico nella mia combinazione individuale, vale poi a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza anche dell’illimitato.” Il segno della compiuta maturazione umana Àlia lo scorge nel suo primo capello bianco.

 

* * *

 

Un’ultima considerazione. Quella italiana è, da san Francesco fino al Tasso, una letteratura eminentemente d’Amore, nel suo significato più vasto e profondo. Kore e Sirene, nei loro diversi generi letterari, appartengono a pieno titolo al midollo della nostra più profonda tradizione letteraria e spirituale.

 

Marco Cipollini


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