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Anticipazioni: Flavio Ermini. L’appello silenzioso dell’essere  
Introduzione a “Il guardante e il guardato” di Angelo Andreotti
In uscita da Book Salad, Anghiari
In uscita da Book Salad, Anghiari 
06 Dicembre 2015
 

Sono tornato là

dove non ero mai stato.

Nulla, da come non fu, è mutato.

Caproni

 

 

Il guardante e il guardato di Angelo Andreotti è un libro che ci consente di seguire un doppio movimento: il sopraggiungere della cecità esteriore e l’avvento di uno sguardo interiore.

Nell’indurci a seguire questo doppio movimento, Il guardante e il guardato ci chiama a una situazione emotiva originaria; ci chiama a fare esperienza dell’endiadi, dell’uno-per-mezzo-di-due; ci invita a esperire l’armonia dei differenti, non una generica ambiguità, ma la vera e propria irriducibile compresenza del due-in-uno.

Un’ombra… e l’occhio cessa di vedere il cielo stellato; un lampo… e l’occhio scorge un fuoco interiore.

Le palpebre si formano a protezione del fuoco, per poi subito chiudersi perché quel fuoco non vada disperso e consenta così al nostro sguardo di scrutare ovunque dentro di noi; e, attraverso la nostra interiorità, di scrutare il cielo stellato.

 

In questo libro – articolato in diciannove narrazioni – siamo invitati a intraprendere un cammino che si manifesta attraverso uno smarrimento. Ciascuno di noi sarà destinato a fare i conti con il matrimonio del cielo con la terra: bene e angoscia al tempo stesso. Insieme: familiarità ed estraneità. Insomma: lo stare a casa propria con disagio.

Accade nell’incontro tra la morte e lo scandalo della vita, in “Pudore”; accade nell’incontro tra un dipinto e lo specchio, in “La coiffeuse”; tra il cosmo e l’indugio, in “Notturno”; tra l’assenza e un rumore, in “L’autoritratto”; tra l’attesa e il seme, in “A un passo”; tra un indizio e il distacco, in “I colori del sereno”.

 

Frase dopo frase, Il guardante e il guardato porta in primo piano domande pressanti sull’atto del guardare. Che cosa vuol dire guardare? Chi guarda? E soprattutto chi crede di guardare il guardante?

Non c’è risposta. Oppure mancano le parole per formularla, perché la risposta potrebbe impaurire. Ascoltiamo cosa dice Rilke nei tre versi posti in esergo all’opera: «Il guardante e il guardato, occhio e delizia dell’occhio / se non qui in nessun luogo: vedi, / questo fa paura. E paura ebbero entrambi».

Comunemente guardare significa conoscere il mondo, un mondo, però, reso oggetto della visione. In questo libro, invece, la scrittura è spinta dal desiderio di andare verso una modalità di conoscenza che comporta un conoscere il mondo, sì, ma facendosi conoscere da esso. Una modalità di conoscenza che, come scrive Rilke, impaurisce. E, impauriti, pensiamo: di chi sono questi occhi? Sarà in “Pudore” che una figura proverà a rispondere. Lo farà pronunciando un nome, «il nome, che non è un nome ma un appellativo, come per provarlo ancora una volta, e il nome incide la sua lingua, la sua gola, le sue labbra, incide e brucia». Ecco cosa comporta farci conoscere dal mondo.

 

Le tonalità dello sguardo sono tante quanti sono i passi verso la casa che ci eravamo lasciati alle spalle, un giorno.

In “Il ritorno” lo sguardo cui ci è dato di aderire è rivolto apparentemente al futuro, ma in realtà si gira verso un tratto di passato personale. Avanziamo anche quando ritorniamo, anche quando il sentiero annuncia una lontananza: «Non sempre la stessa strada porta alla stessa meta. […] Del resto, tutte le strade si assomigliano».

L’uomo cui appartiene quello sguardo impara a vedere al di là dei suoi limiti, al di qua delle palpebre. Bisogna abbandonarsi allo sguardo per vedere; bisogna scendere fino al fondo di se stessi. È il compito che viene affidato alla figura che guarda se stessa in “L’autoritratto”. Quella figura deve imparare a vedere. È questo il motivo per cui è davanti allo specchio. La figura che lo specchio riflette è un autoritratto: di ciò che la figura non è ancora e, insieme, di ciò che non è stata. A ogni gesto, il volto s’incenerisce in un’atroce lontananza. Come a testimoniare un’impossibilità, forse causata dalla cecità interiore del soggetto.

In questo libro, molte delle figure guardate e/o guardanti si trovano in lotta con la velatezza delle cose, consapevoli come sono che ogni apertura e ogni illuminazione si trovano sempre in qualche modo prossime a una più vasta chiusura e a una più vasta umbratilità.

Di fronte alle tenebre e al silenzio niente può la nostra voce, «vaga come un gregoriano, precisa come una bestemmia», quale si leva in “Un silenzio”. Dunque non resta forse che tacere attoniti di fronte a questa velatezza. O abbandonarsi a un abbraccio con una figura estranea.

A tale proposito, in “Notturno” leggiamo: «Guardare, di notte, è accarezzare, tenere a distanza per meglio abbracciare». Nel buio della notte il pensiero e, con il pensiero, lo sguardo procedono non attraverso affermazioni, ma per via di accidentati percorsi di riflessione.

 

Tra guardante e guardato c’è un dialogo. Se non ci fosse un dialogo non ci sarebbe neppure mondo. Il cogliere dello sguardo aduna cielo e terra, mare e riva, come accade ne “Il sorriso”. Perché lo sguardo è sguardo rivolto a un tu, sguardo proferito alla ricerca di un “guardato”. Ma non è solo un prendere-insieme: è anche una potenza che contemporaneamente articola e afferra in unità l’articolazione. Non è dunque solo un cogliere, ma anche un cogliere ciò che è dispiegato.

 

Queste narrazioni ci parlano di uno sguardo che prende-insieme, ma non conserva ciò che è colto. In esse, infatti, si intravede l’assenza di fondamento che caratterizza l’apparire delle cose, tanto che al loro emergere disorientano allorché il nostro pensiero è improntato esclusivamente ai principi della logica.

L’apparire può balenare per un breve attimo per svanire subito nell’impercettibile, ma può anche divenire tanto vigoroso e persistente da modificare la vita che ci aspetta. Imparare a vedere costituisce una possibilità radicale dell’essere umano. Per chi guarda non sembra esservi altra possibilità che appellarsi all’esperienza del “guardato” e risvegliare così la sua attenzione.

Il guardante ha imparato ad ascoltare l’appello del guardato, tanto che lo sguardo stesso si è mostrato come via lungo la quale fare esperienza di ciò che da sempre già siamo e ci consente di vedere ciò che da sempre incessantemente appare.

Lo stiamo imparando: dentro lo sguardo, tra guardante e guardato, si può finalmente cogliere l’appello silenzioso dell’essere.

 

Lo sguardo riconosce anzitutto di essere dominato e modellato da ciò che vede. Sarà poi l’oggetto della conoscenza a rendere ragione del sapere. È così che possiamo intravedere il manifestarsi dell’essere nelle cose. Lo sguardo si orienta su un mondo dove le cose esistono nella forma dell’essere cantate: come figure di suono, come figure cui giungere per donare loro la parola!

Non è precisamente ciò che accade in “Notturno”? «Lo sguardo del sole, di notte, illumina non visto la luna. La luna lo sa, e perciò gli rende un sorriso di gratitudine che rischiara la notte […] mostrando il tremito indifeso di un paesaggio abbandonato a uno sguardo che vi si adagia come un cielo che l’aria accompagna».

Il sole e la luna non sono mai stati così vicini al nostro sguardo. Il loro atteggiarsi, i loro comportamenti, la levità e la segretezza del loro essere sono l’effetto dell’incontro con noi.

Questa evidenza ci attraversa, ci include in sé, ci comprende nel suo movimento. Il nostro sguardo ci rende il mondo attingendo nel divenire, nell’intrepidezza di una velocità impercettibile. Dopo il nostro sguardo il mondo dei sensi sarà un mondo diverso.

Dobbiamo affidarci a uno sguardo che apra un varco alla barriera apparentemente insuperabile del molteplice per giungere all’unità indivisibile dell’essere, fino a conoscere un mondo al di fuori della prigionia dei sensi, un mondo dove spazio e tempo sono dimensioni prive di significato.

Seguire questo sguardo vuol dire anche seguire il cammino di pensiero che volge verso l’elemento inesauribile e immemorabile del suo stesso inizio: una vera e propria sfida per l’esperienza letteraria. Questo sguardo ci guida verso un’apertura nei confronti del proprio manifestarsi. È il risveglio a vita di elementi di sé che nessun’altra esperienza può attivare. E che ci consente di accertare che l’essere delle cose è un perdurare, costantemente nutrito e consumato dal sorgere e dal trapassare.

Le cose in quanto finite sono generanti e rovinose anche nei rapporti che instaurano l’una verso l’altra: l’una può perdurare solo se l’altra trapassa.

In “Notturno” leggiamo: «Il respiro di lui perde il ritmo e abbandona il sonno». La veglia ha la meglio sul sonno. E così la luce sulla notte.

 

Il guardante e il guardato ci indica che aver cura delle nostre conoscenze significa seguire il nostro sapere nel suo continuo cambiare di fronte al mutamento, perché il nostro sapere è tale solo in quanto si rinnova continuamente.

Le nostre esperienze non sono mai le stesse, non sono mai un’acquisizione definitiva, bensì sono parte della situazione del nostro essere-vivi cadendo: in un processo dinamico ininterrotto. Se la vita è continuo cadere e rinascere, anche il nostro sapere – che è vita – per essere vivo deve continuamente rinnovarsi, cioè cadere e rinascere. In questo libro rivive l’esperienza antichissima secondo cui il dire poetico esprime l’essenza delle cose, così come tale essenza si disvela nel divenire.

 

Lo sguardo è l’abisso da cui le cose salgono e in cui esse nuovamente sprofondano. La relazione dello sguardo con ciò che esso rilascia non può essere pensata che facendo riferimento proprio alla visione: «Il guardante e il guardato si uniscono, non si distinguono perché il punto è la visione, e nella visione non c’è soggetto e oggetto, c’è l’evento».

Ogni tentativo di pensare lo sguardo a partire dalle cose è destinato a fallire. Va tenuta desta davanti ai nostri occhi l’incertezza che risiede nella relazione dello sguardo con il regno delle molte cose. Tale incertezza fortunatamente ci impedisce di pensare in modo sconsiderato lo sguardo stesso come una cosa…

 

In Il guardante e il guardato c’è l’idea di un crescere e di un acquisire forma, che si compiono imparando a cercarsi dove non si era mai stati e a trovarsi dove non si è, ovvero dove si vive, si soffre e si gioisce alla presenza di qualcos’altro: imparando a provare e a sbagliarsi, per conoscenza e per errore, nella consapevolezza che il perché dei no e dei sì non può che venire alla fine, quando i giochi sono fatti. Compiersi vuol dire: compiendo l’esperienza dell’alterità, quando l’essere personale al contempo si annuncia e si nasconde. Precisamente come accade all’ippocastano di “Dal basso”: quell’ippocastano rimane ippocastano anche là dove non lo vediamo, così come noi restiamo noi anche là dove nessuno ci guarda.

Dove c’è una sospensione dell’immediatezza del vivere, là possiamo osare di più e dire che quello è il luogo in cui l’accadere si conserva e molto si fa conoscibile. In realtà la conoscenza pare proprio che consista nell’abbandonarsi a ciò che è sconosciuto, nello slancio dell’ignoto che avanza di momento in momento con il procedere stesso dello sguardo dal guardante.

 

«Le cose cambiano […]. Il tempo scappa, e quel che lascia dietro non lo riconosciamo più» osserva una creatura de “Il sorriso”. «Adesso non sa distinguere Venere. La notte sta velocemente avvolgendo il crepuscolo. Per fortuna la luna è quasi intera, e il mare ne accoglie luminoso il sorriso».

L’intera massa del nostro passato è concentrata nel punto acronico della nostra coscienza, così come al momento del Big-Bang l’intera massa del cosmo fisico del futuro è compressa in un unico punto della quadrimensionale molteplicità dello spazio. In questo luogo indivisibile è focalizzata la totalità del tempo. Qui viene custodita la ricchezza accumulata del passato, arricchita dal presente e trasportata in direzione del futuro lungo il tempo naturale. Situarsi ai margini del tempo non è tuttavia sufficiente: di questi limiti vanno fatti transiti, soglie verso l’atemporalità.

Va favorita questa propensione della luce per l’ombra, del divenire per l’essere, per la raccolta del presente nei millenni attraverso lo sguardo.

Della terra restano zolle; del cielo, ondate di vento. Il mondo si dà un asse, si centra, si sposta, designa il respiro di una montagna o l’allontanarsi di una nuvola.

Si sta sollevando a un semplice sguardo tutta la luce dell’oscurità: l’istante si riaggrega in sguardo.

Un’ombra… e l’occhio cessa di vedere il fuoco interiore; un lampo… e l’occhio scorge il cielo stellato.

Quando le palpebre si solleveranno, lo sguardo potrà alfine scrutare il cielo stellato, e, attraverso la nostra esteriorità, scrutare ovunque dentro di noi.

 

Flavio Ermini


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