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Ian Black. Qatar. Soddisfazione: la cura per il terrorismo
21 Novembre 2007
 

Mentre beve dolce caffè arabo da una delicata tazza di porcellana, una delle donne più influenti del Medio Oriente riflette su come riconciliare globalizzazione, identità e tradizione, spiegando come il suo piccolo paese sta affrontando il proprio futuro, e come si costruiscono ponti tra civiltà.

Walter Bagehot, il costituzionalista britannico del diciannovesimo secolo, avrebbe riconosciuto la “mistica della monarchia” in Sheikha Mozah, consorte dell’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, marito che condivide con altre due mogli. Ma assieme agli orpelli visibili del potere, del benessere e dello stile c’è un palpabile senso del rigore intellettuale di una donna, che sta si sta impegnando intensamente sulle istanze relative alla gioventù, all’istruzione, ed alle complicate relazioni tra l’Islam e l’occidente.

Sheikha Mozah bint Nasser al-Missned non porta veli, è laureata in sociologia ed è una forza della modernizzazione in una penisola profondamente conservatrice. Il suo ruolo d’alto profilo in patria si alterna a regolari visite all’estero: una per tutte l’apparizione a Londra questa settimana, per ritirare il prestigioso premio “Chatham House”, conferito a chi si distingue nel favorire le relazioni internazionale. La difficoltà per il Qatar, mi spiega durante una conversazione a vasto raggio nella sua residenza nel Surrey, è stata il dedicarsi all’avanzamento sociale senza che questo comportasse l’omogeneizzazione richiesta dall’onda portante della globalizzazione: «Eravamo confusi», dice Sheikha Mozah. «La nostra gioventù era molto vicina a perdere identità. Avevamo bisogno di qualcosa che fosse accettabile per menti giovani, ed anche che fosse parte del nostro retaggio culturale».

L’emirato è un piccolo posto fortunato. Le sue riserve di petrolio e gas generano un introito annuo pro capite di 32.000 sterline, mettendo il paese ai primi posti della classifica della ricchezza. La capitale, Doha, è un paesaggio urbano in espansione dove scintillano torri, hotel a cinque stelle e distretti commerciali. Tutto questo è fornito da una moltitudine di immigrati che superano di gran lunga i 250.000 nativi del Qatar, i cui nonni vivevano in un mondo di pescatori di perle, falconieri e cammellieri. C’è abbastanza guadagno, a livello statale, per spenderne un invidiabile 2,8% in ricerca e sviluppo.

«Certo, il paesaggio geografico è cambiato, ma la vera differenza sta nelle menti delle persone, nel loro modo di pensare», continua Sheikha Mozah. «L’orgoglio e la fiducia permettono loro di aprirsi al resto del mondo senza esitazioni. Ora sentono di essere parte di un processo di cambiamento, e ne sentono la responsabilità. Se vuoi raggiungere lo scopo di una società prospera, hai bisogno di questo. E a me piace pensare che è questo che abbiamo ottenuto».

La realizzazione di cui la sceicca è più orgogliosa è il complesso della “Città dell’Istruzione”, un’iniziativa che ha attratto le più accreditate università statunitensi ad aprire “centri di eccellenza” in Qatar. L’idea le è venuta in parte basandosi sulle esperienze fatte dai suoi sette figli (fra cui c’è l’erede al trono), che lei vedeva in pericolo di alienarsi dalle proprie radici ma che voleva beneficiassero della migliore istruzione disponibile, compresa quella di matrice occidentale.

I diritti delle donne sono molto importanti, dice anche. È ansiosa di far uscire le donne dagli stereotipi, e di recente ha lanciato un appello a “rompere i confini” delle immagini classiche proposte dagli orientalisti. «Le nostre donne, qui nel Golfo, sono attive da lunghissimo tempo. Ce lo raccontano le nostre nonne, le nostre madri. Gli stranieri tendono a non capirlo, questo. Io sono qui perché sono una delle tante. Non sono unica. Non è perché sono la moglie dell’emiro: il 70% dei nostri laureati sono donne: non è un caso».

La visione ufficiale della democrazia, in Qatar, è basata sulla tradizione locale che vede il dominio della dinastia al-Than, piuttosto che principi universalistici. «La democrazia è qualcosa di più di elezioni e processi politici», argomenta Sheikha Mozah. «La sua essenza è il dare potere, è la sicurezza sociale, la giustizia sociale, l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie». Ciò detto, le elezioni parlamentari, sconosciute alla vicina Arabia Saudita ma già patrimonio di Kuwait e Bahrain, sono in programma. E l’emirato vanta già, comunque, libertà non disponibili negli altri paesi del Golfo. Il Qatar è stato il primo paese arabo ad abolire l’ambiguo “Ministero dell’informazione” e la censura che vi si accompagna. «Al-Jazeera», osserva la sceicca, «è un esempio del nostro impegno per la democrazia e l’apertura», nonostante il canale satellitare sia stato criticato per il fatto che non copre gli affari interni del Qatar con lo stesso rigore e la stessa irriverenza che dedica ad altre vicende. Uno dei programmi, i “Dibatti da Doha”, viene trasmesso anche dalla Bbc, ed è un costante invito all’apertura ed al dialogo oltre le frontiere.

I commenti più duri di Sheikha Mozah sono riservati al cosiddetto “scontro di civiltà”, un concetto che è diventato pericolosamente di moda sin dall’attacco terroristico dell’11 settembre negli Usa: «L’Islam è stato usato come bandiera per mascherare agende politiche. Non abbiamo ancora fatto abbastanza per contrastare questo. È responsabilità di tutti noi il decostruire questa narrativa che tenta di fomentare divisione e dicotomia tra l’Islam e l’occidente, divisione e dicotomia che non esistono».

Nel discorso di accettazione del premio dalla “Chatam House”, Sheikha Mozah ha ripagato i complimenti elogiando la fondazione per «il suo tentativo di costruire ponti tra culture diverse, specialmente quando questi ponti minacciano di crollare». Il lavoro di questa donna ha contribuito ad innalzare il Qatar, a livello diplomatico, ad un posto che la sua limitata estensione non avrebbe previsto. Un analista politico ha commentato che il Qatar «ha usato la diplomazia come un’industria, invece di fare come altri piccoli paesi che hanno preferito dedicarsi alle banche offshore, alla registrazione di compagnie o al commercio marittimo». Quest’estate, Sheikha Mozah ha lavorato con Cecilia Sarkozy per contribuire alla soluzione della vicenda del personale medico bulgaro detenuto in Libia. E, accompagnando l’emiro all’assemblea generale delle NU il mese scorso, ha preso parte alle discussioni del Consiglio per le relazioni estere.

È chiaro che, entro i limiti permessi ad un paese stretto alleato di Washington (in Qatar vi sono due grosse basi aeree statunitensi), Sheikha Mozah ha le sue proprie, e forti, convinzioni. La situazione in Iraq è materia di «grande tristezza e rincrescimento», dice, aggiungendo però, «È senza senso puntare il dito». Il Qatar ha messo il suo denaro in luoghi in cui poteva mostrare solidarietà: ha ricostruito istituti scolastici e network iracheni distrutti dalla guerra e dall’occupazione; a Gaza paga il salario degli impiegati pubblici palestinesi impoveriti dai boicottaggi occidentali; ha generosamente finanziato la ricostruzione nel sud del Libano dopo la guerra dell’anno scorso e pure riesce a mantenere una relazione, per quanto discreta e cauta, con Israele.

Ora Sheikha Mozah è preoccupata per il crescente senso di crisi che si coagula attorno all’Iran, una presenza potente nel Golfo. «Mi turba che si voglia costruire in questo modo nemici ed amici. Oggi è l’Iran, e non sappiamo chi sarà il nemico domani».

Con l’eccezione di un attacco suicida ad una scuola britannica a Doha, nel 2005, il Qatar è stato risparmiato dalle correnti più turbolente che attraverso questa regione. Nessun giovane scontento si è trasferito in Iraq o in Afghanistan per unirsi alla jihad contro gli americani, né è tornato a casa per combattere i propri governanti “apostati”.

«Se vuoi contrastare l’estremismo, devi affrontare le cause che ne stanno alle radici», conclude Sheikha Mozah con un modesto ma regale sorriso. «Non è per caso che questo prodotto in Qatar non vende. La soddisfazione è l’immunizzazione ideale contro il terrorismo».

 

Ian Black

(per The Guardian, 18/10/2007 - trad. Maria G. Di Rienzo)


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