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Carlotta Caldonazzo. Combattere il terrorismo a colpi di solidarietà 
Dopo la strage di Sousse, centinaia di Algerini hanno promesso di trascorrere le vacanze in Tunisia
15 Luglio 2015
   

Dopo oltre un decennio di sanguinosi fallimenti della “guerra al terrorismo”, alcune reazioni all'attacco di Sousse, rivendicato dai cartelli del jihad dell'organizzazione del cosiddetto Stato Islamico (nota anche come Daesh o ISIS), mostrano che per conciliare “pace, giustizia e prosperità” l'unica via è probabilmente l'elaborazione di un approccio socio-politico radicalmente diverso. Ad esempio, opponendo alla logica dell'azione-reazione armata il tentativo di costruire una società inclusiva, basata sulla partecipazione anziché sulla competitività e la sopraffazione. In molti in Algeria hanno scelto di trascorrere le proprie vacanze in Tunisia per ragioni economiche, altri perché in fondo si sentono “più sicuri” lì che in patria, oppure per ostentare coraggio di fronte a “energumeni come questi”. Nondimeno, altrettanto numerosa è la schiera di chi ha optato per questa meta per dimostrare la propria solidarietà ai fratelli tunisini. “Quaranta milioni di Algerini invaderanno le spiagge tunisine dopo Ramadan”, è uno degli slogan che si leggono sulle reti sociali. C'è addirittura chi ha cambiato appositamente i propri piani, come una ventitreenne di Guelma, “per essere solidali con i nostri fratelli tunisini” e “perché morire in Algeria o in Tunisia è lo stesso”. Un'affermazione, quest'ultima, che lascia intravvedere quella che forse è l'unica vera strategia contro i cartelli del jihad: la prospettiva della solidarietà internazionale. Peraltro, la stessa logica, mutatis mutandis, si potrebbe applicare anche ai conflitti interni ai singoli paesi, puntando all'eliminazione di qualsiasi forma di emarginazione. Il gesto di migliaia di Algerini non è infatti l'unico segnale della necessità di un contratto sociale che ponga fine all'ottica della sopraffazione e dello sfruttamento in vista del profitto. Ve ne sono stati nel passato, dal motto omnia sunt communia, “tutte le cose sono comuni” di Thomas Müntzer, agli appelli lanciati dal primo presidente del Burkina Faso indipendente, Thomas Sankara, fino ad arrivare alle vicende greche o all'impennata di consensi per il Partito Democratico dei Popoli (HDP) alle ultime elezioni parlamentari turche.

Se il colonialismo propriamente detto comportava la dominazione politica e militare diretta da parte delle potenze mondiali su interi continenti (America Latina, Asia, Africa), nell'era post-coloniale governi, multinazionali e centri di potere affini hanno messo in campo strategie più sottili. Un esempio eloquente è l'edonismo reaganiano, il cui fulcro è la competizione. Diffondere in una società il mito del successo sociale inteso come raggiungimento del proprio esclusivo benessere, anche a detrimento di altri, significa esortare implicitamente gli individui a seppellire qualsiasi forma di senso della collettività. Questo, a sua volta, spiana la via a meccanismi di emarginazione che all'interno delle singole società colpiscono le categorie più fragili (a causa della povertà o di disabilità fisiche) o le minoranze, mentre nei rapporti internazionali impediscono la crescita e l'autosufficienza dei paesi meno potenti. Se il Tesoro è fondamentale, la vita umana non lo è, dice Caligola nell'omonimo dramma di Albert Camus, ovvero, se si erge il profitto a cardine dell'esistenza umana, si finisce per disinteressarsi della dignità intrinseca di quest'ultima. Chi accetta una simile mentalità e decide di attuarla può anche ammantarla di altisonanti vesti religiose o ideologiche, la sostanza non cambia. Il risultato sarà sempre distruttivo, perché la competizione è un po' come l'antitesi dell'utopia. Questa infatti, come sosteneva Eduardo Galeano, è all'orizzonte... Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare. La competizione sociale invece, a ogni traguardo, spinge a conseguirne di nuovi, trascinandosi affannosamente di vittoria in vittoria, in una corsa alla reciproca distruzione che si configura al contempo come autodistruzione incosciente.

A differenza di al-Qaeda, nella sua forma originaria, i cartelli del jihad che fanno riferimento all'organizzazione dello Stato Islamico (Daish o Isis), portano alle estreme conseguenze su scala internazionale i risultati dell'ottica del profitto e della competitività. Sotto la veste dell'islam radicale, si cela infatti da un lato una forma di economia di stampo criminale (che si alimenta di traffici e contrabbandi di varia natura), dall'altro la volontà di molti di uscire dal mondo globalizzato all'insegna del profitto e della competizione, a partire proprio dall'abbattimento dei confini. Il metodo scelto, tuttavia, è quella stessa sopraffazione, esasperata da una gestione brutale del potere, sulla quale si basa l'attuale assetto mondiale. Molti individui finiti nella lista dei foreign fighters, prima di arruolarsi in Daish, conducevano esistenze apparentemente soddisfacenti, ma nel profondo alienate. Il fascino esercitato dal “califfato” risiede appunto nel voler opporre un modello sociale alternativo a quello attualmente in vigore, aspetto che caratterizza anche altri movimenti estremisti che, dall'inizio dell'ultima crisi economica, sono in crescita in diversi paesi del mondo (basti citare i movimenti e i partiti di estrema destra). All'interno di un tessuto sociale distrutto, nel quale una cattiva congiuntura economica insinua la paura di perdite materiali, molto spazio è lasciato a chi cavalca il terrore generando altro terrore. Un esempio è costituito proprio dalla propaganda di Daish.

In tale contesto, è legittimo definire fallimentare a priori qualsiasi “guerra al terrorismo” concepita come soluzione manu militari. Bombardare i nemici di turno finora non ha portato che circoli viziosi di catastrofi umanitarie e ulteriore dissesto del tessuto sociale. Dunque, ulteriore terreno fertile per la proliferazione dell'estremismo. Basti pensare che in testa alla lista delle aree di provenienza dei foreign fighters di Daish ci sono i Balcani. Similmente fallimentare d'altra parte è la costruzione di muri, come quello voluto dall'Ungheria al confine con la Serbia per fermare i migranti irregolari o quello che la Tunisia sta costruendo lungo parte della frontiera con la Libia per evitare infiltrazioni terroristiche. Fatti piuttosto paradossali, un quarto di secolo dopo l'esultanza mondiale per la caduta del muro di Berlino. Tuttavia, a margine della geopolitica delle grandi potenze (regionali o internazionali), sopravvive un approccio alle relazioni tra individui e tra stati che mira a unire invece che a dividere. Come quello secondo il quale, come dice la giovane di Guelma, morire in Tunisia o in Algeria è lo stesso: un modo di pensare radicalmente opposto (a differenza di quello dei cartelli del jihad) all'attuale ordine mondiale. Secondo Thomas Sankara, per l'imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità. Affermazioni che mostrano l'importanza di piccoli gesti compiuti nei rapporti quotidiani tra individui (come le dimostrazioni di solidarietà degli Algerini verso la Tunisia), come di comportamenti adottati nelle relazioni tra stati (si veda l'ultimo incontro tra Papa Francesco I e il presidente boliviano Evo Morales). Costruire una società inclusiva non significa infatti omologare tendenze, usi o tradizioni. Al contrario, una cittadinanza realmente fondata sulla partecipazione implicherebbe il rispetto e la salvaguardia delle peculiarità di ognuno. Abbattere le frontiere che rendono nemici uomini affini (come auspicava il geografo anarchico francese Élisée Reclus) significa infatti valorizzare l'opera dei singoli in vista della comune prosperità.

 

Carlotta Caldonazzo

(da Free Lance International Press, 13 luglio 2015)


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