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Gino Songini. Beati coloro che possiedono certezze e verità
18 Gennaio 2014
 

Mi trovo abbastanza a disagio a trattare di politica, soprattutto della politica italiana. Ma perché? Reticenza? Qualunquismo? Paura? Niente di tutto questo, amici lettori: semplicemente non ho le idee chiare. Negli anni passati mi sono sempre apertamente schierato a sinistra, senza se e senza ma. Giusto o sbagliato che fosse andavo dietro alle bandiere con falce e martello (socialiste, comuniste) che vedevo simboli di riscatto, di progresso, di libertà. Operai e contadini erano il mio punto di riferimento. Davanti a me vedevo un mondo che era necessario cambiare.

Da ragazzo anch'io avevo subito il fascino del “Che” Guevara. Quell'uomo era un mito: per una moltitudine di giovani di quel tempo egli rappresentava il sogno di un mondo migliore, un mondo libero dalle catene dell'oppressione e della miseria. Io, sicuramente non ricco, conducevo tuttavia la mia vita in mezzo a forse troppe comodità e mi accontentavo di seguire da lontano le gesta di quel mitico personaggio. Avevo ricostruito mentalmente l'avventuroso viaggio del “Granma”, il battello con il quale i ribelli di Fidel Castro (i famosi “barbudos”) erano sbarcati a Cuba per liberare l'isola dal dittatore Batista. Il “Che”, che pure era di nazionalità argentina, si era unito a questi guerriglieri nella lotta di liberazione. A L'Avana Ernesto Guevara era poi diventato ministro dell'Economia, ma non aveva rinunciato ai suoi sogni rivoluzionari. Aveva continuato a viaggiare nei paesi afroasiatici per diffondere e per confermare la sua ideologia. Ricordo che mi aveva colpito un suo racconto di quando in un viaggio in Africa aveva incontrato, nella città angolana di Huambo, un mendicante cieco e lebbroso: quell'uomo gli era parso come il simbolo vivente di un mondo che così com'era non si poteva accettare. Dopo pochi anni di attività politica il “Che” aveva finito per abbandonare definitivamente Cuba ed era tornato alla lotta armata, prima in Africa, nella regione del Congo, e poi in Bolivia, il paese nel quale aveva trovato la morte. Ricordo quella sera di ottobre nella quale era arrivata la notizia della sua uccisione: non mi sembrava vero. Non mi sembrava possibile che tutto fosse finito così, con quel cadavere dagli occhi aperti disteso in una scuola abbandonata, con giornalisti e fotografi che lo attorniavano come avvoltoi sulla preda. (vedi poesia a lato)

Essere di sinistra rappresentava per me un ideale che mi faceva in qualche modo sentire partecipe di quanto avveniva, ma a differenza del “Che” (perdonate il confronto) non rinunciavo affatto agli agi che la vita mi offriva. La mia era una scelta sentimentale e intellettuale che non incideva sui miei comportamenti: gioivo, soffrivo, meditavo, ma niente di più.

Intanto le bandiere con falce e martello sventolavano nelle piazze d'Italia. La falce ricordava ovviamente il lavoro dei campi e la vita contadina, quella vita che ancora si praticava nelle nostre valli e nel resto d'Italia, il martello era il simbolo delle officine e delle fabbriche, nelle quali gli operai conducevano dure lotte per migliorare la loro condizione. Ma io guardavo tutto da spettatore: il “Che”, i contadini, gli operai. Continuavo tuttavia a sentirmi romanticamente di sinistra, dalla parte dei deboli e degli oppressi.

Il tempo passa e tutto cambia, dicevano i filosofi greci. Oggi, in questa Italia avvilita dalla crisi, non sventolano più le bandiere della rivoluzione e non si vedono più né falci né martelli. Gli operai sono sempre di meno e in quanto ai contadini se ne è persa definitivamente la traccia. La stessa parola “contadino” è finita tra i vocaboli in disuso, e tuttalpiù si può trovare in qualche vecchio racconto. Quando io ero ragazzo in Italia c'erano milioni di contadini. Tempo fa mi capitò di rivedere i registri di classe di quando frequentavo le elementari. Nella mia scuola, dalla prima alla quinta, eravamo quasi un centinaio. Nei vari registri, accanto al nome degli alunni, c'era il nome del padre con la relativa professione. La sola professione riportata era quella di contadino. Cento capifamiglia (allora si chiamavano così) tutti contadini, con una sola eccezione, quella di un padre che era guardiano di una diga, accanto al cui nome era riportata la professione di operaio. Uno su cento. Quella era la realtà dei nostri paesi di montagna. Gli operai lavoravano nelle fabbriche delle città e degli hinterland urbani, dove lo sviluppo industriale del dopoguerra attirava a sé un grande movimento di immigrazione, soprattutto dalle regioni meridionali.

Nell'Italia dei nostri giorni dunque si vedono sempre meno operai e non ci sono più contadini. Si vedono invece a tutte le ore del giorno e della notte, per le strade, nelle piazze, sui treni, nei bar ecc., giovani e meno giovani con telefonini, tablet, smartphone, computer, ipad e altri aggeggi consimili. Le classi sociali poi, mescolandosi come non mai, hanno cambiato volto alla società. Nella stessa famiglia convivono persone con situazioni professionali diverse: liberi professionisti e lavoratori dipendenti, autonomi con partita IVA e disoccupati. Ci sono poi i pensionati, i precari, i cassintegrati, gli esodati ecc. Quali possono essere allora gli interessi prevalenti di questi nuclei familiari? È difficile rispondere. Le stesse organizzazioni sindacali non sempre chiariscono il loro orientamento. E i partiti? I cittadini elettori appaiono disorientati più che mai. Lavoratori e pensionati votano più spesso a destra che a sinistra, i benpensanti della borghesia il contrario, i giovani corrono dietro le fanfaronate di un comico miliardario. Insomma tutto è mutevole, tutto è incerto e grande è la confusione sotto il cielo.

Ma torniamo a noi. In una società come la nostra è sempre più difficile, a mio parere, sentirsi di destra o di sinistra. Io mi sento ancora di sinistra di fronte alle ingiustizie, alla povertà di tanta gente e, per dirlo con parole importanti, di fronte ai dolori del mondo. Ma poi, se torno alle piccole cose di ogni giorno, quelle che ci assillano e che dobbiamo continuamente affrontare, mi capita di dimenticarmi degli ideali di cui sopra. Mi infastidiscono i politici di sinistra quando parlano di concessioni ai matrimoni tra individui dello stesso sesso o alle adozioni gay, di via libera a una immigrazione pressoché incontrollata, di assurde limitazioni all'uso del contante, ecc. Allora, quasi senza avvedermene, mi sposto appena verso destra ma mi ritraggo immediatamente quando vedo ministri e parlamentari di quella sponda difendere a spada tratta quel personaggio indifendibile (indovinate chi) che io non sopporto da una vita. Né posso accettare la loro insofferenza nei confronti della cultura, della libera stampa, dei giornalisti non allineati, dei magistrati. Vedo Grillo e mi cascano le braccia a pensare che molti italiani seguono ciecamente un ciarlatano da fiera di paese. Non mi piace Renzi, chiacchierone e fanfarone. Non mi piace una politica che, mentre carica di immeritata importanza taluni personaggi, svuota sempre più il serbatoio delle idee, della cultura, dell'interesse comune.

Si chiedeva Giorgio Gaber in una sua canzone: “Dov'è la destra? dov'è la sinistra?”. Chi lo sa. Insomma, amici lettori, io non ho certezze né verità da proporre.

Vorrei a questo punto ricordare una riflessione a mio avviso particolarmente significativa di José Luís Zapatero, socialista ed ex capo del governo spagnolo: «La politica è opinione, avanza a tentoni nell'oscurità. Nessuno può possedere la vera risposta». Parole da meditare, soprattutto in questa fiera delle vanità che è diventata la politica italiana. Altro che fanfaronate e promesse di negromanti, magi e sciamani di varia estrazione. Altro che certezze e verità a buon mercato.

 

Gino Songini

(da 'l Gazetin, dicembre 2013)


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