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Maria Lanciotti. I rifiuti di Roma e la storia delle oche del Campidoglio
Paul Joseph Jamin,
Paul Joseph Jamin, 'Brenno e il suo bottino', 1893 
18 Luglio 2013
 
   Troppo silenzio ultimamente sulla sorte dei rifiuti romani, oggetto di rocambolesche ipotesi tutte finora campate in aria. Qualche vocetta trapela ma non fa presa, subito presa nel vortice di affermazioni e smentite tranciate sul nascere e da cui germina una serie infinita di “qui lo dico e qui lo nego” che manda in cocci qualsiasi tentativo di ragionamento logico e pure il comprendonio dei poveri cittadini. È un classico: quando si arriva al picco della stagione estiva, peggio ancora se anomala come l’attuale, e si sta dando fondo alle ultime risorse per arrivare ad abbrancare qualche giorno di ferie da passare magari sotto l’ombrellone in qualche spiaggetta laziale, fra dune di rifiuti e il lezzo dei canali di scolo a cielo aperto, improvvisamente cala il sipario e sembra tutto in ordine, mentre in realtà si sta preparando il sempiterno ‘autunno caldo’ delle grandi disgrazie italiche.
   Qui ci vorrebbero le oche del Campidoglio per salvarci ancora una volta dall’assalto dell’invasore, che non si chiama Brenno e non capeggia i Galli. La storia non andrebbe mai dimenticata, anche perché continuamente si ripete sebbene in chiave aggiornata. Si narra dunque che dopo il sacco di Roma, i Galli scalassero la rocca del Campidoglio, per cogliere di sorpresa gli ultimi difensori della città. Ma il piano dei barbari fallì a causa delle stupide oche, animali sacri a Giunone e quindi risparmiati dalla fame degli assediati, che si misero a starnazzare avvertendo del pericolo i romani che respinsero l’assalto, mettendo a segno un ottimo punto a favore dei nostri. Poi ci fu pure il compromesso fra le due parti al momento che i Galli cominciarono a subire le prime sconfitte. Brenno chiedeva mille libbre d’oro per togliere l’assedio e i romani, evidentemente in grave crisi di autostima, accettarono. Ma al momento di pagare si accorsero che le bilance erano truccate e fecero le loro rimostranze, al che Brenno, in gesto di sfida e di massimo sprezzo, gettò la sua spada sul piatto della bilancia pretendendo un uguale peso in oro da aggiungere alla quantità già pattuita, lanciando l’urlo che sarebbe rimbalzato di epoca in epoca fino a giorni nostri: “Vae Victis!” e cioè “Guai ai vinti!”. E mentre i romani, a testa bassa e coda fra le gambe, facevano la questua per raccogliere l’oro mancante, Marco Furio Camillo raggiunse Roma col suo esercito e arrivato di fronte al capo dei barbari sguainando la spada gridò: “Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria!” e cioè “Non con l’oro, ma con il ferro, si riscatta la Patria”!
   Ora, a scanso di equivoci, prendendo con beneficio d’inventario storia e leggenda e lacune mnemoniche, sarà bene specificare che il ferro che al momento occorrerebbe è quello di zappe, vanghe e bidenti da mettere in mano a un esercito di barbari sconfitti, perché si mettano sotto a bonificare quanto finora avvelenato. All’ex condottiero di un simile esercito – da reperire nei vari ambiti in cui si è trattato, e si continua a trattare, ad alti e ad altissimi livelli il business della monnezza – ovviamente spetterebbe il primo attrezzo e il titolo di capo ciurma, con la prerogativa di dare la battuta per attivare tutte quelle operazioni necessarie al risanamento e riassetto di un ambiente massacrato. Sempreché desiderasse mantenere il comando e non andarsene invece in più che meritata pensione.
 
Maria Lanciotti

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