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Yoani Sánchez. Mariel
13 Aprile 2009
 

Dal blog Generación Y

12 aprile 2009



Mariel

Hoy les traigo fotos del puerto que le dio su nombre a miles de cubanos y después cayó  en un largo olvido de treinta años. De allí salieron “los marielitos” y en mi escuela primaria nos contaban que habían ido a buscar “drogas y perversiones” a la otra orilla. Así los imaginaba yo, en una eterna fiesta de alcohol y risas a noventa millas de distancia. Con mis cinco años, no pude darme cuenta que el griterío en el edificio y mi abuela prohibiéndonos jugar en el pasillo, era debido a los mítines de repudio. La “despedida” fue denigrante para quienes se marchaban de una Isla que se autoproclamaba lugar de la utopía.

Los huevos volaban de un lado a otro, unos los tiraban y otros los sentían caer sobre sus caras, sus puertas y sus ventanas. La palabra escoria, sacada del léxico de la fundición de metales, se les adjudicó a quienes no se arrojaban al crisol del proceso social. Volvimos a ser divididos, enfrentados y separados. Padres e hijos se dejaron de hablar porque uno de ellos había escogido el camino del exilio. Las cartas no eran abiertas ni las llamadas contestadas por los que se quedaron aquí, creyéndose el cuento acerca de los traidores que huían. Mi maestra preguntaba si “mamá o papá recibían regalos de la familia en el Norte”. Más de uno de mis amiguitos delató, sin saberlo, la oculta relación que su familia mantenía con el otro lado.

No creo que volvamos a tener otros hechos como los del puerto del Mariel. La emigración ocurre ahora de forma más callada en las rocosas ensenadas por donde -cada madrugada- alguien se lanza al mar y en los consulados atestados de gente en busca de una visa. Ya no se usan aquellos duros calificativos de antaño, ahora se les llama “emigrantes económicos” y se les siguen confiscando las propiedades que dejan atrás. Al oeste de La Habana nos queda, sin embargo, el triste recordatorio de cuando miles gritaron “que se vaya la escoria, que se vaya”.


Yoani Sánchez



Mariel

Oggi pubblico le foto del porto che ha dato il suo nome a migliaia di cubani, prima di cadere in un lungo oblio durato trent’anni. Da là presero il largo “i marielitos” e nella mia scuola elementare ci raccontavano che erano andati sull’altra sponda in cerca di “droghe e perversioni”. Io me li immaginavo immersi in una festa interminabile a base di alcol e risate che si teneva a novanta miglia di distanza. Avevo cinque anni e non potevo rendermi conto che gli schiamazzi nell’edificio e mia nonna che ci proibiva di giocare nel corridoio, erano una conseguenza delle manifestazioni di ripudio. Il “congedo” fu denigratorio per coloro che se ne andavano da un’Isola che si autoproclamava luogo dell’utopia.

Le uova volavano da un lato all’altro, alcuni le tiravano e altri le sentivano cadere su volti, porte e finestre. La parola scoria, estrapolata dal lessico della fusione dei metalli, venne attribuita a coloro che volevano evitare l’altoforno del processo sociale. Tornammo a essere divisi, in lotta e separati. Padri e figli smisero di parlarsi perché uno di loro aveva scelto la via dell’esilio. Coloro che erano rimasti qui e avevano creduto alla storia dei traditori che fuggivano non aprivano le lettere e non rispondevano alle telefonate. La mia maestra chiedeva se “mamma o papà ricevevano regali dalla famiglia del Nord”. Diversi amici miei tradirono, senza saperlo, la relazione nascosta che le loro famiglie mantenevano con l’altra sponda.

Non credo che accadranno altri fatti simili a quelli del porto di Mariel. L’emigrazione prosegue con metodi più silenziosi dalle insenature rocciose dove - di buon mattino - qualcuno si lancia in mare e nei consolati gremiti di persone in cerca di un visto. Adesso non vengono più usate le dure qualifiche di un tempo, ora si parla di “emigranti economici”, ma si continuano a confiscare le proprietà che abbandonano. A ovest dell’Avana resta, tuttavia, il triste avvertimento che gridarono migliaia di persone: “se ne vada la scoria, se ne vada”.


Traduzione di Gordiano Lupi



Nota del traduttore: Abbiamo detto molte volte che i marielitos sono i balseros (da balsa - zattera) che presero il largo dal porto di Mariel, cubani in fuga con mezzi di fortuna. Le manifestazioni di ripudio, invece, sono state una brutta pagina della storia cubana. Si trattava di lanciare uova, farina, altri oggetti contro chi aveva deciso di partire e i suoi familiari. I gesti violenti venivano accompagnati da parole dure come verme, scoria e traditore. (Gordiano Lupi)


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