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30 soldati tornano in Italia ammalati di cancro (Ma attenzione: che resti “top secret”!) 
“Falò”/T.S.I. Ultime notizie dall’Iraq – Un articolo del 2004 di Annagloria Del Piano
23 Marzo 2009
 

Uranio, scoppia il caso Iraq. Il 24 luglio 2004 il quotidiano la Repubblica titolava così un articolo in cui veniva raccolta la denuncia di Antonio Savino, maresciallo dei carabinieri di Bari e direttore dell’UNAC (Unione Arma dei Carabinieri), circa l’esistenza di diciannove soldati italiani tornati dalla missione in Iraq con gravi patologie tumorali. Da allora qualche altro articolo, l’interessamento di associazioni impegnate nel pacifismo e molti approfondimenti su internet di professori e ricercatori. Dal nostro Governo, invece, mistificazioni e dinieghi, un’ispezione parlamentare a distanza di un mese dalla prima richiesta dell’Unac e la decisione di questi giorni, sicuramente tardiva anche se si spera utile, del Senato di istituire una commissione d’inchiesta.

Ci ha pensato, invece, un altro Stato a mettere come si deve sotto i riflettori questa allarmante notizia su cui in Italia si è cercato vergognosamente di sorvolare. La questione è quella tristemente nota della pericolosità dell’uranio impoverito utilizzato per la prima volta ancora in Iraq, durante la prima guerra del Golfo, e oggi largamente impiegato nella preparazione dei proiettili, grazie alla sua caratteristica di penetrare con estrema facilità nelle corazze dei carri armati. (In Italia sollevò un discreto scalpore fra l’opinione pubblica un accurato servizio televisivo ad opera di “Report”, programma della terza rete RAI, con Marco Paolini e la brava giornalista Milena Gabanelli). Questa volta, a sollecitare l’attenzione dei redattori di “Falò” (trasmissione cult della Televisione Svizzera italiana sull’attualità internazionale) è stata la rivelazione di un soldato tornato dalla missione in Iraq, il quale, tramite il proprio avvocato, ha voluto portare a conoscenza il suo drammatico caso.

Non ancora quarantenne, militare da dieci anni e come tale stanziato per diverso tempo nei teatri di guerra degli ultimi decenni (Kosovo, Balcani, Afghanistan e in ultimo Iraq) il soldato in questione torna in Italia dove, dopo un calvario di esami e contro esami, gli viene diagnosticato un carcinoma al testicolo che in seguito gli deve essere asportato. La questione assurge ad un’importanza ancor maggiore allorché, in breve tempo, al suo caso si aggiungono quelli di diversi suoi colleghi, con esiti purtroppo altrettanto infausti. Ad oggi, su un contingente di tremila uomini, trenta risultano essere malati (esattamente la stessa percentuale della prima guerra del Golfo, quando i morti e malati erano trecento su un totale di trentamila soldati inviati!). La beffa è data dal fatto che per il Ministero della Difesa italiano le loro patologie non possono essere ricondotte all’uranio impoverito, ma si tratterebbe solo di una triste coincidenza. Invitati più volte e con l’anticipo di un mese ad intervenire al programma o a concedere un’intervista in proposito, al Ministero si schermiscono con comunicati telefonici, dapprima concilianti poi ferreamente decisi: nessuna intervista.

Anche Antonio Savino chiede un incontro con i militari che al call center dell’associazione rivelano di essere ricoverati all’ospedale Roma Celio con patologie tumorali in atto: la Direzione sanitaria non gli accorda il permesso e aggiunge che nessun militare è lì ricoverato per patologie di quel tipo. Del resto, nessuno dei 30 casi di cancro di questi soldati è stato diagnosticato dalle strutture sanitarie militari! Anche il primo soldato che ha parlato del proprio dramma, ricorda il suo legale dott. Monica Macciotta, si è trovato di fronte un atteggiamento di chiusura da parte del corpo di appartenenza, prima ancora che avanzasse alcun genere di richiesta; si è sentito come un figlio rifiutato dai genitori.

Invitato da “Falò” ad intervenire il noto oncologo di Siena dott. Franco Nobile, più volte collaboratore del Ministero della Difesa, nega alcun collegamento fra la contaminazione da polveri di uranio impoverito e lo svilupparsi di tumori maligni, definendo il tutto come un gran polverone mediatico, non suffragato dalla scienza: quel soldato si sarebbe ammalato anche facendo il postino, sostiene.

Ma a sentire illustri suoi colleghi è vero l’esatto contrario. Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare, un centro studi sulle missioni all’estero del nostro esercito che si propone di fornire assistenza medico-legale ai soldati, parla dei pericoli dell’uranio impoverito. Nell’esplosione dei proiettili, spiega, si ingenerano temperature così elevate da creare delle nanoparticelle talmente piccole da arrivare facilmente a polmoni, sangue e perfino liquido seminale. L’uranio si incendia e brucia, tutto vaporizza nell’aria sotto forma di minutissime gocce: volano i resti dei proiettili e dei carri armati stessi; queste microparticelle restano in circolo per anni, sollevate ad ogni soffio di vento. Contro un tale scenario apocalittico i nostri soldati vengono dotati solamente di una maschera antigas: nessun’altra protezione o attrezzatura speciale contro la contaminazione da uranio impoverito. E nessun sito bombardato e potenzialmente contaminato viene messo off limits; queste aree continuano ad essere frequentate da militari e civili, in alcune di esse sorgono i bacini per attingere l’acqua, proprio quelle acque in cui (a guisa di discarica) sono state scaricate armi colpite da proiettili all’uranio impoverito.

La dottoressa Antonietta Gatti è docente all’Università di Modena; recentemente ha partecipato ad un convegno tenutosi a Zurigo sull’argomento in questione. Ha presentato i risultati della sua ricerca che ha confermato il ritrovamento di nanoparticelle di piombo, stagno, antimonio, tungsteno, titanio, cromo, ferro nelle cellule tumorali di soldati inviati in Iraq e Balcani. Non è esattamente materiale che si respiri per le nostre strade, afferma, e aggiunge spinta dall’urgenza: che questa sia roba cancerogena non si discute, con questo in corpo non si può star bene!

I militari colpiti dai drammatici eventi riportati decidono però di non parlare; resta quell’unico malato difeso dal suo legale che ne è divenuto appassionato portavoce.

Ma perché tutta questa reticenza?

L’inquietante spiegazione: all’arrivo in Iraq, rivela l’avvocato Macciotta, per la loro missione – qualcuno vuole ancora ostinarsi a definirla di pace? – ai soldati italiani viene imposto di firmare l’accettazione di essere da quel momento assoggettati al Codice penale militare di guerra. Ciò significa, tra l’altro, che se parlassero di quel che avviene loro sul territorio iracheno, verrebbero sottoposti a procedure penali che farebbero loro rischiare il posto. Questo viene vissuto dai militari, afferma il maresciallo Savino, al pari di un atto arbitrario poiché, seppur normativamente previsto non viene spiegato certo nel dettaglio agli interessati e ciò la dice lunga sui reali pericoli della missione.

È sempre Antonio Savino a concludere il servizio di “Falò” con una desolata considerazione: questi soldati non credono più nelle alte dirigenze militari del Paese, che ritengono totalmente asservite al potere politico, a sua volta asservito a gestioni di potere a livello internazionale.

Resta il loro dramma umano ad aggiungersi ai tanti di questa guerra assurda.



LINKS PER APPROFONDIMENTI:

 

Annagloria Del Piano

(da 'l Gazetin, ottobre 2004)


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