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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. XII
Giorgio La Pira
Giorgio La Pira 
15 Febbraio 2009
 

186.

Andiamo a mangiare in San Lorenzo.

Barbara è seria. Troppo. Mai vista così. Eppure non dovrebbe. E’ il suo compleanno.

“Perché?”, le chiedo. Lei non risponde. “Non è bello averti così”. Non reagisce. Allora le porgo il pacchetto dicendo: “Buon compleanno”.

S’illumina. “Pensavo che te ne fossi dimenticato”.

“Eri seria per questo?”

Fa di sì con la testa.

“Non me lo sarei perdonato. T’ho invitata apposta al ristorante. Pensavo che l’avessi capito”.

“Con te non si può mai sapere”.

“Non ci sarà la torta con le candeline”.

“Meglio evitare a una certa età”.

“Ritengo invece che più passano gli anni e più s’abbia bisogno di certe manifestazioni”.

“Non lo so se è vero. Non voglio rendere triste il momento, ma pensa a noi, alle nostre condizione. Non abbiamo più nessuno con cui festeggiare”.

“Sbagli. Proprio perché siamo soli, abbiamo bisogno di questi momenti e di viverli con la persona giusta”.

“Io, per te, sono la persona giusta?”

“Sì”.

Le vengono le lacrime. So d’avere esagerato. Ma non avrei potuto altrimenti. Barbara non lo merita. E’ vero anche che non merita uno come me. Avrebbe bisogno d’un altro tipo. Uno con meno dubbi, con meno domande senza risposte.

Le ho regalato un libro appena uscito. E’ il romanzo Herzog dell’americano Saul Bellow. Sono rimasto incerto fino all’ultimo. M’attiravano anche Apocalittici e integrati del semiologo Umberto Eco e L’uomo a una dimensione di Marcuse..

Mi stampa un bacio su una guancia. Il cameriere s’avvicina sorridendo. Dice: “Ho la trippa alla fiorentina. E’ la fine del mondo”.

 

187.

Gian Paolo Cresci e Barbara sono agitati. Barbara viene alla mia scrivania.

“Che sta succedendo?”, chiedo.

“Non lo sappiamo. Non si riesce a sapere niente. Ma deve essere successo qualcosa di grosso. Non solo a Firenze”.

“Di che genere?”

“Lo sapessi”.

“Cresci che dice?”

“Che è questione politica”.

“Che c’è di strano? A Roma c’è maretta”.

“Non è in questi termini”.

“Neanche il tuo amico, la tua talpa, ti spiffera?”

“Mi spiffera le bischerate. Di fronte alle cose più serie, si cuce la bocca come gli altri”.

Hombert Bianchi entra in redazione allarmato. Il governo Moro s’è dimesso e stanno succedendo cose strane. “State in campana”, dice.

Facciamo congetture. Francini, a un certo punto, se ne viene fuori: “Non siamo un Paese da colpo di stato. Se qualcuno l’ha pensato, o lo pensa, è fuori di cervello”.

Colpo di stato? Ci guardiamo stupiti. Gian Paolo Cresci fa: “Di matti, in Italia, ce n’è. Come di nemici del centrosinistra. Il primo nemico è il nostro caro presidente Segni, che riceve sempre più militari al Quirinale. L’ultimo, in ordine di tempo, il generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo”.

“Che vuol dire?”, chiedo

E Cresci: “Tutto e nulla”.

 

188.

Sono giorni strani. Ne ho vissuti. Ma questi sono proprio particolari. E’ un susseguirsi di voci senza conferme. Mi riferiscono che c’è stato un incontro, in casa di Tommaso Morlino, tra Moro, Rumor, Zaccagnini, Gava, il generale De Lorenzo e il capo della polizia Angelo Vicari. Roba grossa. Me lo giurano e, un secondo dopo, me lo smentiscono. “Non azzardarti a scrivere una parola”, sibila il mio interlocutore.

La stessa cosa mi sussurra, mezz’ora dopo, la solita voce anonima al telefono.

Era tanto che non si faceva vivo, l’anonimo. “Pensa alla tua salute”, conclude.

Solo, vado a vedere Il Vangelo secondo Matteo, film di Pasolini. E’ accompagnato dalle polemiche. A me piace. Mi dà un Cristo meno divino, uomo tra gli uomini. Di mio gusto.

Con Barbara, invece, vado a vedere Per un pugno di dollari, western all’italiana di Sergio Leone. Mi viene fatto di prenderlo come una parodia dei western americani. Evidenti le esagerazioni, la recitazione sopra le righe, i tempi smisuratamente lunghi, la musica  ridondante, d’effetto.

“Barocco”, concludo.

Barbara ne è entusiasta. Concorda sul barocco, ma che sia la parodia dei western americani, non ne è convinta.

Tornando a casa, insiste sul mistero che non riesce a svelare. “Sono una pessima cronista. Da quando sto a Firenze non sono riuscita a mettere insieme una storia decente. M’è passato tutto sopra la testa”.

“Non è colpa tua. E’ colpa di questa città che custodisce i segreti come nessun‘altra. Non credo che Cresci sia contento”.

“Non lo è”.

“Vedi?”

“E te?”

“Io? Proprio in questi giorni sto tirando un po’ di somme. E la cifra, cara mia, è decisamente in rosso. Anche le mie, gira gira, sono piccole cronache di un piccolo mondo politico. Che trabocca di meschinità e mediocrità”.

“Non salvi nessuno?”

“Oh, sì. Salvo La Pira, Pistelli, Agnoletti e Mario Fabiani. Non mi riesce d’andare oltre”.

“E nella Chiesa?”

“Nella Chiesa? Non sono molto pratico. Però padre Balducci è una gran bella figura”.

“Dalla Costa?”

“C’è chi lo chiama santo. Per me, c’è quella macchia: il suo comportamento nei confronti degli ebrei che non mi va giù. Non posso dimenticarlo. Le lettere hanno parole troppo crudeli per poter essere dimenticate”.

“C’è anche un certo don Milani, parroco di un paesino di montagna”.

“Ne ho sentito parlare, ma non lo conosco”.

“E Florit?”

Florit è terribile. Firenze non merita un  vescovo del genere”.

“Che dici, starebbe bene con il Mandragola?”

“E chissà che non stiano insieme”.

“Non te lo sento rammentare più, il Mandragola”.

“Forse si tiene in disparte. Non credo abbia alzato bandiera bianca”.

Barbara entra in camera mia. “Sai, – dice – qualche volta mi perito a spogliarmi. A mettermi nuda”.

“Perché?”

“Mi vedo così vecchia. Mi sento così vecchia. Da quanto tempo ci conosciamo?”

 

189.

Fa caldo. Battiglia usa un ventaglio per trovare refrigerio. Dice: “Ci si mette anche la Cina

“Che ha fatto?”, chiedo.

“Ha fatto esplodere la sua prima bomba atomica”.

“Non è una bella notizia”.

“Perché non senti La Pira?”

“Buona idea”.

La Pira, però, non si trova. Forse – mi dicono – è in ritiro spirituale.

Battiglia legge le Ansa e sbotta: “Mi sa che regalerò in giro il libro di Berto, Il male oscuro”. Non spiega perché.

Barbara sorride. “E’ un uomo adorabile, Battiglia”. Poi mi fa: “Hai intenzione di prenderti qualche giorno di ferie?”

“Vorrei andare a casa dei miei, a dare un’occhiata. Eppoi un po’ al mare. Tutto sta a Bianchi”.

“Se lo convinciamo, vengo con te. Se mi vuoi”.

“Ti voglio”.

“Fa bene sentirlo dire, ogni tanto”. Barbara è diventata rossa, gli occhi lustri.

 

190.

“Mi dispiace, ma devi rimandare le ferie”. Bianchi parla con decisione. Me l’aspettavo.

Segni è stato colpito da trombosi mentre stava parlando con Moro e Saragat.

Hanno litigato? Cos’è successo veramente?

E’ come sbattere contro un muro largo un metro.

L’altra notizia importante riguarda Paolo VI. Ha pubblicato la sua prima enciclica, Ecclesiam suam. Vi parla della Chiesa, della sua riforma e dei suoi rapporti con il mondo.

La leggo e non m’entusiasma La giudico molto lontana dalle due encicliche di papa Giovanni.

Devo sentire La Pira? Bianchi risponde che sì, faccio bene a sentirlo. Però, se non lo trovo, va bene lo stesso. Gli interessa di più quel che è successo a Segni e perché.

Attende notizie da Roma.

Che c’entrino i misteri  ventilati giorni fa?

Lasciamo perdere la fantapolitica.

Nessuno vuole fare fantapolitica. Ma un dubbio, uno solo, è legittimo.

Bianchi non risponde. Lascia la redazione per entrare nella sua stanza. Francini è, tra noi, il più preoccupato.  “E’ in atto uno scontro storico. I socialisti, fino a ieri, erano i nemici giurati, al pari dei comunisti, ora sono gli alleati. Logico che non tutti li accettino”.

“Questo che vuol dire, Mario? – fa Barbara – Vuol dire che chi è contrario è legittimato a mettere i bastoni tra le ruote, o qualcosa di più? Dov’è finito il rispetto delle regole democratiche?”

“Ho la sensazione – dice Cresci – che tutto avvenga sulle nostre teste. Qualche volta anche contro di noi”.

“Le regole democratiche – dice Francini – Le regole dei partiti, piuttosto. Anche se io non sono contro i partiti. Anzi, li ritengo necessari. Però vorrei trasparenza, la luce del sole”.

Tutti vorrebbero la luce del sole. Ma quasi sempre è notte. Notte fonda. Non si vede di lì a lì.

Esco.

L’afa mi mozza il respiro.

Raggiungo Palazzo Vecchio. In Piazza della Signoria, un gruppetto di stranieri (tedeschi?) si muove indifferente al caldo.

Anche La Pira ha caldo. E’ in maniche di camicia. E’ una delle rare volte. Lo trovo disposto a parlare. Di Segni, dice che gli dispiace molto. Sì, è al corrente che non ama i socialisti, il centrosinistra. Non gli risulta che abbia litigato con Moro e Rumor e, per questo, si sia sentito male.

Poi parla dell’enciclica. “Bella. Importante. Paolo VI si muove sulla scia di papa Giovanni La Chiesa cambia. Si sporca le mani con il mondo”.

 

191.

 Riusciamo a prendere un giorno. Decido d’andare a casa dei miei. Barbara è d’accordo. Partiamo presto.

“Dimentichiamoci del giornale”, dice Barbara.

Non è facile. Le notizie sono tante. Paolo VI è in Palestina. Il Psi vive il dramma della scissione a sinistra. Nasce il Psiup. Kruscev è caduto in disgrazia. I laburisti sono tornati al governo in Inghilterra. A Firenze – la mia dimensione – le cose non vanno bene. La Pira mi sembra in affanno. Eppoi quelle notizie che non riusciamo a decifrare.

Si è tornati a parlare del monsignore morto di morte violenta. Pare che dalla vita privata stiano emergendo molte ombre. Barbara m’ha detto che le pare tutto tardivo, appiccicato, deviante. “E’ uno che ne aveva sulla coscienza. Ritengo, però, che s’insista troppo su un aspetto della sua vita, sui suoi appetiti sessuali, su certe sue frequentazioni. Roba che prende. Capace di far dimenticare il resto. I suoi maneggi politici”. Barbara s’è accalorata. “Gli metto in conto anche la morte della Volpe e l’aggressione a Chiara”.

“Non ci sono prove. Siamo certi soltanto della sua avversione a La Pira. Avversione politica”.

“Decisa. Determinata”.

“Fino alla violenza?”

“Perché no?”

“E la sua morte?”

“Prodotto delle tenebre in cui si muoveva”.

“Bella frase melodrammatica”.

“Ridi. Ridi”. Ha messo il broncio. Sicché il viaggio è stato silenzioso.

Ci fermiamo a prendere un caffè e la notizia ci arriva da un barista piccolo, spettinato, la barba incolta. Togliatti è in fin di vita, forse è già morto. Era a Yalta con la Iotti, per un periodo di riposo.

Chiedo se c’è un telefono.

“In fondo a destra”, dice il barista.

Mi metto in contatto con il giornale. “C’è bisogno?”

Bianchi risponde: “Stai tranquilli”.

Non sto tranquillo. Sono amareggiato Non sono su una notizia importante. Avrei potuto raccogliere le dichiarazioni degli esponenti fiorentini del Pci e non solo.

Il telegiornale dedica all’avvenimento molti minuti. Il popolo comunista è addolorato. C’era chi pensava che il Migliore fosse immortale.

Ceniamo in un piccolo ristorante di collina.

Ci rendiamo conto che l’argomento è Togliatti.  Nei giudizi non c’è unanimità.

Un anziano scuote la testa e, togliendosi il toscano dalle labbra, dice: “Se non fosse stato lui a bloccare tutto, nel 1948 sarebbero successe le peggio cose in tutt’Italia. Mi fanno ridere quelli che sostengono che i comunisti vogliono prendere il potere con la forza”.

Barbara orecchia. Le piace. La gente parla in libertà. “Ora i comunisti a chi s’affidano? Dove lo trovano un altro come lui?”.

 

192.

Muore, Togliatti, il giorno dopo. I funerali sono fissati per il 25 agosto, a Roma. E Roma è invasa da un milione di comunisti.

Luigi Longo, il successore, figura di poco spessore, tiene l’orazione ufficiale. Afferma, a un certo punto, che stanno per essere pubblicati gli appunti di Togliatti. Riflessioni – lascia intendere – di grande importanza.

Di lì a qualche giorno, si scopre il contenuto di quello che viene chiamato il memoriale di Yalta. E’ quanto avrebbe detto – si sostiene – negli incontri programmati con i dirigenti sovietici.

In pratica, il Migliore mette in discussione i principii guida nei rapporti tra i partiti comunisti e critica gli Stati socialisti.

E’ uno strappo non indifferente. Che non tutti approvano.

M’interrogo su Togliatti e cerco di darmi una risposta accettabile. Confesso, non sono sereno. Mi brucia sempre la chiusura del Nuovo Corriere. Ma non posso negare che ha costruito uno dei partiti comunisti più forti del mondo in un Paese tendenzialmente moderato, condizionato dalla presenza del papa.

La Pira parla bene di Togliatti. Anche Pistelli, che riesco a intercettare. Non si nega, anche se i suoi impegni sono duplicati da quando – aprile 1963 – è diventato parlamentare.

La Pira dice che Firenze è ben rappresentata a Roma. Pistelli, tra l’altro, è impegnato nella presentazione d’una legge sull’obiezione di coscienza.

Barbara ha preso due giorni di ferie ed è andata a Roma. M’ha chiesto più volte d’accompagnarla. Avrei voluto. Bianchi è stato irremovibile. “Mi servi qui”.

 

193.

Il 17 settembre 1964 è una data che non scorderò mai. Mi chiedo spesso perché le persone che valgono, le persone giuste, hanno vita breve, e le altre, quelle di cui faremmo volentieri a meno, sono inossidabili. Indistruttibili. Riescono sempre a stare a galla. A salvarsi.

E’ Barbara a mettermi sotto gli occhi un’Ansa. L’onorevole Nicola Pistelli, di ritorno dal congresso nazionale della Dc a Roma, è morto in un incidente stradale, avvenuto a un incrocio sull’Arnaccio..

Strada maledetta, l’Arnaccio.

Bianchi mi dice d’andare da La Pira.

Sono un giornalista, mi ripeto. Quel che provo, devo tenerlo per me.

E’ una bella giornata di fine estate. Firenze è piena di turisti. Ce ne sono a decine in Piazza della Signoria.

Un cane abbaia al cielo.

La Pira m’accoglie allargando le braccia. Ha gli occhi luci, il sorriso spento. “Abbiamo perso una grande persona, un politico lucido, leale, trasparente”. La voce gli s’incrina. Tace. Guarda da un’altra parte, verso la finestra. Non so che dire. Sto lì, in piedi, statua. Sussurra: “E ora cosa facciamo? Come faccio? Era un appoggio straordinario. Un difensore straordinario. I cannibali si faranno vivi subito, il campo libero come hanno. Non c’è nessuno che possa sostituirlo. Improvvisamente, Dio m’ha fatto trovare in mezzo al deserto”.

 

194.

“Sai quanto m’importa che Rumor sia stato rieletto segretario della Dc”, dico. E Barbara: “A me interessa sapere che è stato rieletto con il voto di dorotei e Forze Nuove. Hanno anche confermato presidente Attilio Piccioni. Piccoli e Morlino sono i vicesegretari”.

“Sai la notizia”. Sono di cattivo umore, capace d’essere sgarbato. Ho bisogno di staccare. “Vieni con me in montagna”, le propongo.

“Ci manda tutti e due?”

Bianchi è buono, comprensivo.

Scelgo Cutigliano. E’ una bomboniera dove si sta bene. L’albergo è accogliente. Fanno da mangiare squisito. Abbiamo anche l’alternativa del ristorante che offre i prodotti tipici locali. E’ antico e rinomato.

Camminiamo. Camminiamo per la strada panoramica. Lo facciamo di prima mattina e sul far della sera.

Camminiamo e parliamo. Leggiamo e giochiamo a ramino. Barbara è quasi imbattibile. Io mi distraggo con facilità.

Una settimana che vola.

Barbara s’è concessa ogni giorno, con l’entusiasmo d’una giovane.

 

195.

Segni è messo male. Nion è in condizioni di fare il presidente e si dimette. Comincia il balletto della scelta del successore. La Dc punta su Leone. Non tutta la DFc. Una parte punta su Fanfani, sceso in camopo in polemica con la candidatura ufficiale.

La sinistra Dc – Ciriaco De Mita e Carlo Donat Cattin – arrivano a farsi sospendere dal partito prima di votare Leone.

E’ un picchia e mena che dura dodici giorni. Ci mette bocca anche il Vaticano, tramite alcuni cardinali. Dicono a Fanfani e Giulio Pastore, l’altro proposto dalla sinistra sociale, di fare un passo indietro. Non stanno dando uno spettacolo edificante. Tutta la Dc non sta dando uno spettacolo edificante.

Fanfani e Pastore obbediscono. Ma Leone non decolla. Socialisti e comunisti, fuori gioco Fanfani, convergono su Neni.

Seguo gli scrutini come se mi trovassi davanti a un gioco. E lo sarebbe, un gioco, se non ci fosse sul

piatto la massima carica dello Stato.

Da Roma arriva una valanga di notizie non si sa fino a che punto attendibili. Non le considero.

Alcuni colleghi scommettono colazioni e pranzi su come va a finire.

C’è chi sostiene che alla fine Leone ce la farà e chi, invece, è sicuro che è tutta una manfrina per arrivare a una soluzione diversa, che coinvolga anche la sinistra.

“Se così è, avremo un presidente laico”, dice Barbara.

Ma nessuno sa indicare un papabile.

Francini, a pomeriggio inoltrato, porta la notizia che Leone ha rinunciato.

“E ora?” chiedo.

“Ci siamo, - fa Battiglia – questione di ore e avremo il nuovo presidente”.

Non ci vogliono ore. Ci vogliono giorni. Tre, per l’esattezza. E il nome è quello di Saragat. Lo votano Dc, Pci, Psi, Psdi (il suo partito) e Pri. E’ una vittoria dei comunisti. Senza i loro voti anche Saragat sarebbe rimasto al palo. Saragat ha giocato la carta giusta: la richiesta dei voti ai partiti democratici e antifascisti. E il Pci non ha potuto chiamarsi fuori.

 

196.

A Roma, la compagnia teatrale di Giamaria Volonté rappresenta Il Vicario. La Santa Sede non ci sta. Ritiene che il testo, quella rappresentazione proprio a Roma, sia “lesiva dei rapporti concordatari” perché “viola il carattere sacro della città di Roma”.

Rolf Hochhuth condanna l’atteggiamento di Pio XII davanti alla deportazione e allo sterminio degli ebrei. In sostanza, l’accusa d’avere saputo e di non avere alzato la voce.

La polizia interviene e scatta il divieto di rappresentazione.

Barbara dice: “Di fronte a queste cose, mi vergogno. Mi vergogno di stare in Italia, d’essere italiana”.

“non esagerare”, dico.

“Non esagero” replica. “Non si può far finta di niente. Chi ha gnennero, deve ribellarsi. Deve farlo a voce alta. Spero che qualcuno tirii fuori un documento come si deve. Io lo sottoscrivo”.

“Non pensi che l’autore sia andato oltre il segno?”

“Non è questo il punto. Il punto, per me, è che non si va avanti a colpi di censura. Libri, film, testi teatrali: proibito uscire dal seminato, disturbare il manovratore, il padrone delle ferriere. Dov’è la democrazia? Non ci ha insegnato niente la dittatura fascista?”. Barbara è inviperita e conclude con un filo di fiato.

“Calmati”.

“Non ci riesco. Te invece…”.

“Io cosa?”

“Non lo so. Dài l’impressione che non te ne freghi niente”.

“Non è vero. E’ che stop con i piedi per terra. Non dimentico che viviamo in un mondo diviso ion due. In una parte impera il comunismo che spaventa l’Occidente. Spaventa l’Italia. Spaventa la Santa Sede. Si vede sempre rosso. Anche quando non si dovrebbe!”.

“E, in nome di questa divisione, si consumano le più grosse ingiustizie. L’intelligenza, il buonsenso finiscono calpestati. Non ti dico la libertà delle idee, la democrazia. Ambedue limitate”.

Ha alzato la voce e alcuni colleghi ci guardano incuriositi.

 

197.

Rivince la Dc a Firenze, e La Pira è destinato a diventare un’altra volta primo cittadino.

Non è tutto limpido, però. Palazzo Vecchio è pieno di veleni. La Pira è scoraggiato. E decide di mettersi da parte. Non vuole finire triturato. “Sa, non ci sono più Pistelli e Dalla Costa. Ora è tempo di mediocri e maneggioni”.

Il Mandragola s’è rifatto vivo. Lo incontro ovunque, con quei suoi occhiali dalle lenti spesse, la mano molliccia che tende come concessione, il viso lucido, unto, le parole pronunciate piano, l’aria da carbonaro. Mai sincero. Dice che gli dispiace che ci sia una situazione del genere, che La Pira abbia a patirne.

Vorrei lasciarmi andare a frasi pesanti. Non posso. Devo fare il testimone. Le critiche spettano al direttore. Bianchi avrebbe potuto farle. Ma Bianchi non c’è più. Ha passato il testimone a Osvaldo Biondi, un collega onesto, chiamato – a parer mio – in un ruolo che non è nelle sue corde.

Mi sento stanco. Non è stanchezza fisica. No. E’ nell’anima. Vorrei non essere qui. Vorrei non dover seguire questo balletto ipocrita. Che raggiunge il colmo con il documento delle segreterie dei partiti del centrosinistra. Si chiede a La Pira una dichiarazione anticomunista. Chiara. Limpida.

La Pira risponde: “E’ un accordo umoristico, che non mi appartiene. E ora? Ho tempo per dedicarmi alla diplomazia di pace. Posso seguire da vicino l’organizzazione, a Forte Belvedere, del simposio per la pace in Vietnam”.

 

198.

Un socialista s’insedia a Palazzo Vecchio. E’ Lelio Lagorio, avvocato, già vice di Fagiani in Provincia.

Portamento signorile, aria intelligente, furba. Ma è un’altra cosa. Non ha il carisma di La Pira. Non fa nulla per distinguersi. E’ apparenza.

Vado a trovarlo. M’accoglie bene. E’ garbato nei modi. Parla volentieri del suo predecessore. Dice che, pur non essendo un domeneddio come sostengono i suoi seguiaci, è pur sempre un campione importante della storia di Firenze. “Una personalità affascinante che è riuscita a conquistare anima e immaginazione dei fiorentini”.

“E l’hanno premiato con iol loro voto. Ma non è stato sufficiente a farlo mantenere sindaco”.

“Llo si deve ai partiti. Ai loro equilibri interni. Ai rapporti di forza inerni”.

“E’ un discorso difficile da digerire per la gente”.

“Me ne rendo conto”.

“Si rende anche clonto che s’è presa una bella gatta da pelare, quella di far dimenticare La Pira?”ar dimenticare La Pira non è possibile. La Pira ha lasciato il segno. I cercherò di mettermi sul suo sentiero. Non è semplice. Anche perché le condizioni e i protagonisti mutano. Non vorrei, le confesso, trovarmi in una farsa. Insomma, La Pira non è replicabile”.

Proprio per questo i partiti, la Dc soprattutto, avrebbero dovuto trattarlo meglio”.

“Non voglio entrare nelle scelte degli altri”.

“Che ruolo hanno avuto i socialisti in questa storia?”

“Di lealtà”.

“Ne è convinto?”

“ne sonlo sicuro”.

Alora tutta colpa della Dc?”

“Colpa, se di colpa si può parlare, della presenza di un partito comunista forte, disposto a tutto pur di riconquistare Firenze”.

“Anche ad appoggiare La Pira?”

“Anche ad appoggiare La Pira”.

 

199.

Il ciclismo m’attrae più del calcio, anche se da ragazzo me la cavavo meglio con il pallone che con la bicicletta. Con il pallone non avevo problemi di piedi. Calciavo bene di destro e di sinistro. Non erano cannonate, le mie. Erano pallonetti velenosi. E passaggi precisi.

In bicicletta – a parte avessi una Maino ingovernabile – m’inchiodavo sulle salite. Me la cavavo in volata. Non bastava.

Gioisco alla notizia che Gimondi ha vinto il Tour de France.

Palmiro Arin e Luigi de Gennaro, giovani carabinieri, vengono ammazzati a Sesto Pusteria, provincia di Bolzano. Sono accusati i terroristi sudtirolesi.

Piove. Piove con violenza. Incessantemente. Non c’è regione che si salvi. Straripano i fiumi. Il conto si fa salato: più di quaranta i morti. Feriti a centinaia. Danni per miliardi.

“L’Italia è disgraziata – dice Cresci – Non c’è evento che non procuri lutti. Dentro e fuori del Paese”.

Si riferisce a quel che è successo a fine agosto in Svizzera. Un ghiacciaio è precipitato e ha travolto dormitori e mense dei lavoratori impegnati nella costruzione di un bacino. Quasi centro morti. Più della metà italiani.

 

Riccardo Cardellicchio

 

 

Fine dodicesima parte


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