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Roberto Peccolo: Michael Goldberg visto di profilo
Michael Goldberg
Michael Goldberg 
19 Gennaio 2008
 

Incontrai la prima volta Michael Goldberg nel 1979 a Parigi durante una afosa mattinata di fine luglio. Aveva portato con sé, tra carte e piccole tele, una trentina di lavori tra i quali dovevamo sceglierne alcuni da utilizzare per la sua mostra da me. Avevo già fatto una pre-scelta attraverso delle diapositive che mi aveva inviato un paio di mesi prima e avevamo concordato di incontrarci dalle parti della Bastille nello studio prestatogli per l'occasione da un suo amico scultore.

Quasi tutti i lavori appartenevano alla serie Codex che aveva iniziato in quegli anni e di cui non esistevano ancora molte grandi tele, cosa che mi facilitava nell'organizzare la sua mostra. Dopo i primi convenevoli, aveva sparpagliato le opere sul pavimento in ordine sparso e cominciammo così a scegliere i lavori da esporre; apparentemente di comune accordo, ma percepivo come per lui non facesse una grande differenza sceglierne uno od un altro, in fondo erano tutti “suoi lavori”. Addirittura non reagiva minimamente se cercavo di dare una spiegazione (una “lettura colta” in chiave estetico-cultural-fìlosofico) delle opere che sceglievo; si limitava ad annuire, sembrava in attesa di scoprire quale fosse il vero feeling che avevo col suo lavoro. Infatti si entusiasmò e cominciammo finalmente a dialogare su un terreno più cordiale quando gli svelai che sceglievo quel tale lavoro perché mi piaceva molto il modo in cui “quella striscia gialla finiva ad incastrarsi là in alto, nel mezzo tra la larga macchia blu e la densa pennellata rossa che gli stava accanto”. Alla fine il ghiaccio si era sciolto e Mike decise di stappare la bottiglia di Chablis che attendeva lì vicino nel secchiello. E brindammo al successo della mostra e all'inizio della nostra amicizia.

Quella dei Codex era una serie che, già nelle diapositive, mi era piaciuta molto perché sulla superficie di ogni lavoro si strutturavano, accostandosi o contrapponendosi liberamente tra loro, forme e campi astratti di vario tipo e colore trattenuti insieme, legati e interagiti dalla presenza di barre o bande colorate e strisciate e slittamenti sottili del colore che, delimitando i confini e i movimenti tra le varie forme, funzionavano al contempo da impalcatura o da vettore al tutto. Un insieme di precari equilibri e continui contrasti per ottenere un'immagine di precisa e solida unità. Oppure il tutto che poteva essere anche completamente ribaltato. Questi lavori erano ormai completamente diversi ma, per alcuni particolari, richiamavano ancora alla mente la serie di quadri da lui dipinti tra il 1960 e 1963 e definiti da Klaus Kertess: «Architecting Paint». Fu questa la prima ma fondamentale “fascinazione” che recepii quel giorno dalla pittura di Mike e che costantemente ho ritrovato poi in tutti i suoi lavori o nei cicli di opere che seguirono negli anni futuri.

Infatti, ancora oggi, ciò che mi affascina della sua pittura è quell’insieme di forme e colori apparentemente messi in disordine ma formanti un’unità autosufficiente; e mi intriga anche quella strana sensazione labirintica di poterne ribaltare e modificare in continuazione l’angolo di lettura.

A mio avviso la pittura nei suoi quadri non cerca mai di provocare effetti sulla rètina dell'osservatore né, tanto meno, reazioni cerebrali razionali riguardanti il contenuto dell'opera d'arte che, come afferma lui stesso (parafrasando a modo suo Adorno), «Non sarà mai la somma dell'intelletto che vi viene pompato dentro a determinare il contenuto di un quadro»;(1) ma si insinua con nonchalance negli strati profondi della nostra emotività, costringendoci ad affrontare -confrontare tra loro- le differenti sensazioni di ordine e/o caos, di equilibrio o disequilibrio che riceviamo dal quadro sollecitando la nostra, personale e vitale attitudine all'ascolto dell'opera e l'intima disponibilità a lasciarci più o meno coinvolgere da essa.

Quel giorno, con mia sorpresa, insistette molto perché prendessi, da inserire nella mostra, anche due o tre lavori di alcuni anni prima e molto diversi dall'unità e contemporaneità che scaturiva dall'insieme dei Codex. I lavori precedenti mi sembravano più “sperimentali”: la superficie di carta grezza, quasi non dipinta, era martoriata, seviziata da strappetti, abrasioni e fori come provocati da bruciature di mozziconi di sigaretta, il tutto amalgamato da un colore leggero, diluito, acquarelloso e trasparente, come “slavato”.

 

Proprio non riuscivo a coglierne la continuità, a ritroso, con i Codex. Fu soltanto qualche mese dopo, nel montare le opere sulla parete della mostra che mi accorsi del perché Mike aveva voluto inserire quei lavori più anziani: tutte le azioni da lui svolte sulla carta erano state concentrate in una forma che vagamente ricordava un arco, una volta architettonica a forma di imperfetto semicerchio, oppure (come istintivamente immaginai, essendo toscano) dalla familiare, vaga, forma collinare.

E questo è un altro costante aspetto che riguarda la sua pittura che in quel momento non avevo tenuto nella giusta considerazione, ma che è riaffiorato e ho trovato confermato, sempre di più recentemente, dopo che ho visto i quadri nati durante i soggiorni di lavoro nella sua casa tra le colline senesi negli anni tra il 1982 e il 1990.

Avevo già visto riproduzioni di sue opere in un catalogo del 1959(2) sulla pittura americana e per essere un pittore dagli inizi Action painting che operava nella magica scena artistica della New York degli anni '50, appartenente alla generazione di pochi anni più giovane di quella “eroica” dei Pollock, Gorky, de Kooning, Rothko e F. Kline e quindi proveniente dalla patria in cui si esaltava, sia in pittura che in arte, il SUBLIME e il MINIMAL, non mi aspettavo che arrivasse a produrre una pittura così completamente diversa dagli stilemi newyorkesi cui eravamo abituati a vedere qui da noi, in Europa, verso la metà degli anni '70. Vista nel panorama di allora la pittura che faceva in quel tempo Michael Goldberg sembrava trasformata, trasfigurata. Intanto era diventata molto “inattuale” (già il solo fatto di “dipingere” era considerato in quegli anni inattuale - anche se molti continuavano a farlo nel silenzio dei propri studi), certamente “insolita”, non tanto per il contrasto di sensazioni tra equilibrio e disequilibrio o per quel fantasmatico paesaggio, che io continuavo (e continuo ancora oggi) a “sentirci”; ma perché, frequentata più da vicino e osservata con attenzione, si intravedeva che in questa pittura qualcosa era accaduto durante il suo divenire, la si sentiva come una pittura tipicamente da tempi di crisi: scarnificata, densa, pastosa e carica di tensioni allo stesso tempo. E volutamente “insolente”. Pittura che rendeva palpabile una sorta di disagio, come se una dolorosa memoria fosse ancora presente, l'insieme creava così una atmosfera che in musica verrebbe definita blues; ed era proprio questo aspetto che stranamente mi colpiva nella sua pittura e nei suoi quadri. Forse perché era proprio tutta il contrario della piacevole, astratta, eclatante Pittura Americana dei Color Fields, allora di gran moda e imperante perché ingenuamente ritenuta l'erede naturale, la continuazione dell'Espressionismo Astratto. E niente a che vedere neppure con l'ascetica, secca, mentale pittura minimale dei Fundamental Painting(3) come Ryman o Frank Stella. (Ma anche Stella, dopo aver abbandonato i quadri minimali e geometrici con cui era diventato famoso, sarebbe giunto solo alla fine degli anni settanta a ricerche simili con i suoi paintings relief in metallo dipinto).

Forse il disagio che, malgrado tutto, traspariva dalle pennellate era basato sui suoi ricordi, sulla memoria di fatti della propria storia personale o probabilmente sulla nostalgia per un'epoca ormai tramontata e di come era stato bello poterla vivere, in quegli inizi degli anni Cinquanta, attraverso l'avventura della pittura. In quel momento magico ed esaltante quella sorta di “Eldorado” a qualcuno, che si era allineato alle regole, aveva fruttato fama e successo di mercato mentre per altri, nel giro di pochi anni, le cose erano mutate e si erano ritrovati espulsi dall'Eden. (Esemplare è, in questo senso, il succedersi delle alterne fortune, sia di critica che di mercato, della pittura di Philip Guston).

Ma probabilmente il disagio gli proveniva anche dalla determinazione di voler continuare a dipingere “a modo suo” e a dispetto di tutto quello che stava accadendogli intorno; cercando con caparbietà e ostinazione di esprimere soltanto una pittura tutta “sua”.

Nei quadri dipinti all'epoca dai pittori rimasti in ombra, in modo più evidente in quelli degli americani che in quelli degli europei, si potevano ancora distinguere, sotto la pelle della pittura, tutte le cicatrici dei “pestaggi” subiti durante le eclatanti affermazioni internazionali della Pop Art, della Minimal, dell'Arte Povera e della Arte Concettuale, un insieme di trend che si alternarono tra il '60 e '70 sul palcoscenico, ma che non avevano molto a che fare con le idee con cui questi pittori portavano avanti le loro opere.

La pianificazione di interpretazioni unilaterali messe in atto durante tutti gli anni '70 dagli opinionmakers dell'epoca: la critica, le riviste e le mostre organizzate nei Musei, dovevano per forza aver provocato nella pittura di Michael Goldberg, come in quella di alcuni della sua stessa generazione (come in quella che ho visto di tanti altri pittori “non allineati”) non poche “mutuazioni” ed aver costretto tutti loro a faticose trasformazioni, relegandoli in una situazione di costante disagio. Indubbiamente per giungere con il proprio “dipingere” ai risultati e alle fioriture della piena maturità odierna, dei passaggi forzati sono stati necessari, per lui come per gli altri, e alcuni ostacoli durante il percorso di una vita si incontrano e devono pur sempre essere affrontati e rimossi. Anzi, pare, che sia proprio un tale processo, da considerare necessario, a far ottenere una piena maturazione al proprio “fare”.

Ma tutto questo è sempre così indispensabile? Prima o poi nell'ambito dell'arte, ivi compresi la Storia e il Mercato, vengono riconosciuti i ritardi e gli errori di valutazione commessi nel passato; in quel momento dovrà esser dato a Mike ciò che gli è dovuto. Se non altro tutto il rispetto e la considerazione per il valore, la costanza, la forza e la profondità con cui ha portato avanti il suo percorso artistico. Finalmente, in questi ultimi decenni e in particolar modo nella sua pittura recente tutto appare molto più disteso, rilassato: un dipingere quasi “gioioso”, che musicalmente si definirebbe “cantabile”.

Le serie di quadri si susseguono l'una dopo l'altra con rinnovata forza coloristica ed espressiva, in alcune ha recuperato persino l'originario interesse per il paesaggio astratto come metafora. Invitato la prima volta nel 1980/81 da Carmengloria Morales nella sua casa di Sermugnano a passare un'estate, insieme con la moglie Lynn Umlauf, di vacanza e pittura, si è affezionato all'Italia e in seguito alla Toscana dove, dal 1987, soggiorna per lunghi periodi dell'anno nel rustico di campagna che ha affittato tra le colline senesi, alternandosi con N.Y.C, dove continua a insegnare e dipingere. In questo suo nuovo studio, lavorando su piccole e grandi dimensioni sta dipingendo quadri nei quali il suo antico amore per il paesaggio urbano astratto si coniuga e si confronta con le influenze della pittura dei Maestri rinascimentali italiani e del Manierismo fiorentino e senese. Come confessa lui stesso in un suo scritto del settembre 1997 sul n. 22 della rivista Cahiers d'Art: «Essendo il tipo di persona che veramente non apprezza la natura - ne sono quasi allergico - mi sorprende ancora la mia decisione di trascorrere cinque mesi all'anno sepolto nel paesaggio toscano. Sicuramente sto qui per il senso di estraniazione, per l'assenza di interruzioni, per la necessità di poter trascorrere lunghi periodi di tempo con le dita nel naso a dedicare profondi pensieri all'arte e alla vita. Che lusso! La pittura classica è per me linfa vitale. La fede intensa e il virtuosismo di Tiziano, la folle luminosità di Grunewald, la voluttà onesta e semplice di Rubens, l'occhio e la mano sapienti di Giotto e Simone Martini, la luce lancinante di Piero Della Francesca sono una droga di mia scelta e farne esperienza diretta in loco è infinitamente eccitante».

 

In questi lunghi anni trascorsi, la nostra amicizia si è consolidata sempre di più e io continuo ad esporre ogni due, tre anni i quadri delle sue nuove serie che dipinge qui in Toscana. La mostra che abbiamo fatto recentemente era la sua decima personale a Livorno nella mia galleria.

Oggi, in tutta questa storia, la cosa che più solletica la mia vanità è l'idea (fantasiosa?) di aver sottratto un albero trascurato che rischiava di finir soffocato dal frenetico traffico metropolitano di Manhattan ed averlo aiutato a trapiantarsi tra gli ulivi e le vigne del Chianti dove ho osservato la sua rinascita, l'ho visto crescere rigoglioso e rifiorire con frutti dai colori sempre più meravigliosi. Certo tutto questo non sarà stato la realizzazione del sogno utopico della mia vita, né l'affermazione del mio successo personale più strepitoso ma, visti i tristi tempi che ci circondano, trovo che in fondo è soltanto un'altra tra le semplici ricette utili per sopravvivere e continuare ad assaporare dalla vita quel poco di buono che ancora possiamo trame. La stessa riflessione che mi capita la mattina al bar per il cappuccino: con una spruzzata di polvere di cacao sopra prende un altro sapore; senza, trovo che ha un sapore più ordinario. Così lui continua a dipingere come gli pare e io continuo ancora oggi a guardare Mike di profilo e a godermi i colori dei suoi affascinanti quadri, appesi sulle pareti della mia galleria. E ogni tanto prendiamo un bicchiere di Chablis insieme.

 

Roberto Peccolo, novembre 2003

 

(Questo scritto è la riedizione, riveduta, ampliata e corretta, di un mio testo apparso nel numero 22 della rivista Cahiers d'Art del sett.-ott. 1997. La rivista aveva dedicato in quel numero un ampio servizio a Michael Goldberg)

 

 

(1) Da una conferenza di M. G. 1991. Ripubblicata in M.G., Anima/Soul, Collana “Pittura e Memoria”, Morgana Edizioni, Firenze 2002.

(2) Catalogo “Arte Nova” Torino, 1959. Mostra organizzata da M. Tapié e L. Pistoi al Circolo degli artisti a Torino (rassegna di artisti Informali europei, pittori americani dell'Action painting americani e artisti giapponesi del Gruppo Gutai).

(3) Titolo della mostra “Fundamental Painting” tenutasi allo Stedelijk Museuro di Amsterdam nel 1975 a cura di R. Dippel.


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