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Cecilia Grecchi. «Solo andata», una dottoressa tra i profughi eritrei
19 Ottobre 2014
 

Solomon comparve sulla porta dell’ingresso del dormitorio, mentre Esther e Giulia chiacchieravano sedute al tavolino dell’accettazione.

Indossava la solita maglietta bianca con i soliti pantaloncini cortissimi sgualciti bianchi, che se non fossero stati di materiale sintetico sarebbero stati dei boxer perfetti. Pochi altri avrebbero potuto vestirsi in quel modo senza risultare tamarri o ridicoli. Solomon li portava quasi con eleganza su quel suo fisico atletico e asciutto. Qualche sera prima aveva raccontato di aver primeggiato come centometrista alla scuola superiore, e bisognava ammettere che, guardandolo, lo si poteva immaginare senza difficoltà.

– Buonasera Solomon – salutò cordialmente la dottoressa. È difficile parlare male di un dottore quando è gentile; Giulia lo sapeva bene e per questo, avendo la coda di paglia e sentendosi continuamente impreparata, l’unica cosa che non faceva mai mancare quando lavorava era la cortesia e il buon umore.

Solomon si rivolse ad Esther, la mediatrice culturale, in tigrino. Aveva la faccia tesa, addirittura pallida, la faccia che Giulia si ricordava di aver visto la prima volta che l’aveva incontrato, quando era appena arrivato al dormitorio dalla stazione di Milano, sconvolto, avendo attraversato tutta l’Italia in treno.

– Che cosa dice? – chiese Giulia. – Dice che questa sera parte, che gli hanno detto di tenersi pronto – rispose Esther con la sua dolce cadenza veloce e gli occhi che esprimevano contemporaneamente apprensione e determinazione.

– Yes, I’m leaving – disse Solomon sommessamente.

Esther si alzò risoluta. – Vado a prendergli dei vestiti per il viaggio – disse. – Farà freddo in Svezia caro Solomon.

Solomon si accovacciò al posto di Esther, lo sguardo rivolto a Giulia, ma distante, le mascelle contratte. Era come se una antica paura si stesse rimpossesandosi di lui.

– You look very worried Solomon – disse la dottoressa cercando di agganciare i suo occhi.

– I am – affermò il ragazzo, finalmente concentrandosi su di lei, senza vergognarsi di ammetterlo perché la paura non l’avrebbe mai fatto retrocedere dalla sua decisione di partire per la Svezia.

Giulia si sentì piccola davanti a quello sguardo.

 

Qualche sera prima avevano avuto l’occasione di chiacchierare un po’: c’era poca gente al Centro e lei aveva portato delle lime per pulirsi le unghie. Si erano seduti in cerchio per terra con tutti i ragazzi e, mentre la lima lavorava, togliendo unghia dopo unghia la sporcizia accumulata in quel viaggio biblico, Solomon, che era l’unico che masticava qualcosa di inglese, aveva raccontato la sua storia, incalzato dalle domande di Giulia. A 18 anni, non appena aveva finito le superiori, era scappato dal suo paese. Era forte in fisica e biologia, aveva raccontato, ma in Eritrea non c’era futuro: la dittatura costringeva i giovani ad una leva militare infinita, scarsi guadagni e povertà impietosa. Si era rifugiato in Etiopia per qualche anno, dove aveva vissuto in clandestinità e si era guadagnato da vivere come muratore risparmiando i soldi per il suo grande progetto: affrontare il Viaggio, andare in Europa, lavorare, aiutare la sua famiglia. Dall’Etiopia era difficile comunicare con l’Eritrea per i cattivi rapporti che c’erano tra i due stati, per cui Solomon chiamava sua madre solo raramente. Poi un giorno, quando aveva messo da parte abbastanza soldi, si era messo in viaggio senza dire niente a nessuno: il Sudan, il Sahara, la Libia. Nove mesi di viaggio, infiniti intoppi e ostacoli. Non era entrato troppo nei dettagli raccontando il suo percorso. Giulia aveva avuto paura a chiederglielo, ma sapeva che un viaggio “normale” durava circa due mesi. Quando il percorso si allungava così tanto voleva dire che si era stati tenuti prigionieri dai trafficanti fino a quando qualcuno da casa o dall’Europa non li aveva pagati per permettere di proseguire il viaggio. Che cosa succedeva in quelle prigioni era difficile da immaginare. Giulia aveva avuto solo testimonianze indirette: un ragazzo che era passato dal centro aveva perso la vista da un occhio perché era stato picchiato dai carcerieri, un altro era stato tenuto legato talmente tanto tempo che non era più capace di raddrizzare le gambe. Dalla Libia Solomon aveva preso il barcone, e quindi aveva affrontato il mare. La parte più pericolosa del viaggio. Quattro lunghissimi giorni sull’acqua, a farsi bruciare la testa di giorno e a tremare di freddo di notte, con l’acqua da bere che diminuiva, le forze che si affievolivano, il terrore di non farcela che si impossessava di lui e dei suoi compagni. Grazie a Dio erano arrivati gli italiani, quelli della Marina Militare, quelli mandati dalla Missione Mare Nostrum. Quelli che li avevano salvati. Solomon ce l’aveva fatta, e solo allora, una volta in Puglia, aveva chiamato sua madre. “Sono in Italia, mamma!” aveva detto. Lei si era messa a piangere dalla gioia. Era una notizia telegrafica, ma c’era una sola cosa che a lei, che credeva suo figlio in Etiopia a fare il muratore, importava: suo figlio era vivo in Europa, e avrebbe potuto non esserlo. Un brivido le aveva percorso la schiena, una scossa glaciale che non l’avrebbe fatta dormire per molte altre notti.

“How old are you?” gli aveva chiesto Giulia quella sera. “Twenty two” aveva risposto Solomon “And you?” “Twenty six”. “Very young” aveva detto il ragazzo con uno sguardo pieno di ammirazione. “It’s you that is very young” aveva risposto Giulia, sapendo che ad essere dottore alla sua età, in Italia, non aveva fatto nulla di straordinario.

 

Esther arrivò con le chiavi del magazzino. Si rivolse a Solomon in tigrino e lui si alzò immediatamente. – Svelto svelto, gli avrà detto, non vorrai mica farti trovare ancora in mutande! – Solomon docile la seguì nello stanzone. Cinque passi e si voltò, sulla soglia della porta. Fece un sorriso triste a Giulia, con gli occhi lucidi e con un soffio di voce disse qualcosa in tigrino. Esther si fermò squadrandolo. Con lo sguardo ancora fisso su di lui tradusse in italiano per la dottoressa: – Dice che gli dispiace partire. È stato tanto tempo qui, che ormai si sente a casa. Si era affezionato. – Insieme entrarono nel magazzino.

Giulia chinò il capo e si concentrò sulle mattonelle del pavimento, mentre un groppo le stringeva la gola e gli occhi si inumidivano. Non era certo quello il posto per fare amicizie, per affezionarsi alle persone. Lei era la dottoressa, loro i profughi di passaggio. Al di là della cordialità, delle cure mediche (superficiali, parziali, inadeguate), ben poco altro poteva esserci. Alla sera lei lasciava il suo ambulatorio di vecchietti ipertesi, con glicemie troppo alte e colesterolo che non scendeva mai, di fragili donne preoccupate, di uomini rassegnati a farsi venire un infarto perché non potevano rinunciare a fumo, caffè e cibo – già la crisi gli aveva fatto rinunciare a tutto il resto – prendeva la macchina e andava a Milano. Lì, per due-tre ore, la sua medicina diventava Medicina e i problemi erano Problemi: malattie del degrado, dell’ingiustizia, ulcere ai piedi per le troppe ore di cammino, purulente ed enormi perché mai curate; scabbia dappertutto, alle mani, ai genitali, alle ascelle, ai capezzoli, un prurito incoercibile che di notte non lasciava dormire; denti distrutti e cariati con ascessi giganteschi, perché in un corpo malnutrito ogni lesione si trasforma in infezione. E poi le cicatrici del viaggio, le scottature delle sigarette sul corpo procurate dai libici, le frustate sulla schiena dei trafficanti di uomini nel deserto. A mezzanotte Giulia lasciava il Dormitorio (ormai i profughi erano così tanti che non c’erano più letti e dormivano per terra sui materassini da ginnastica) risaliva in macchina, una spruzzata abbondante di Amuchina sulle mani e tornava a casa. Quindi, esausta, dopo una bella doccia e una ulteriore decisa sfregata di mani – polsi - braccia,  si addormentava nel suo lettino. L’indomani, sarebbe tornata nel suo ambulatorio, dai suoi pazienti, dove, come sempre, qualcuno si sarebbe lamentato perchè “dobbiamo andare a pescare ‘sti stranieri nel mare e poi noi paghiamo le medicine”. Così è il mondo, così sono gli uomini.

“Spiace anche a me Solomon. Ricordati che hai degli amici in Italia. Chiama se hai bisogno. Ritorna a visitarci un giorno. In bocca al lupo Solomon.” Pensò Giulia, guardando le mattonelle. Le parole più preziose rimangono spesso nel nostro cuore.

Deglutito il magone, li raggiunse nello stanzone, dove i vestiti erano accumulati sui grandi tavoli delle feste degli alpini. Solomon, incerto, si stava misurando un grosso maglione di lana verde. Esther invece, rovistava tra le pile di abiti, alla ricerca di qualcosa che aveva visto nel pomeriggio, mentre metteva a posto gli scatoloni di indumenti che erano arrivati dalla Caritas diocesana. – Eccolo – disse afferrando un maglione turchese e un paio di jeans nuovi. Stupito della propria fortuna (un paio di jeans nuovi sono davvero merce rara nei pacchi della Caritas), Solomon li prese e se il infilò sopra ai suoi improbabili pantaloncini bianchi.

– Great! You can go to ask for a job dressed like this – disse Giulia sinceramente, ora che era ritornata padrona di sé.

Solomon, che era immerso nei suoi pensieri, si girò verso di lei. Rimase fermo per un lunghissimo secondo, come se quel complimento fosse stato quanto di più avesse desiderato: quanto gli sarebbe piaciuto sembrare uno che andava a lavorare, e non un poveraccio mendicante sporco senza cultura né abilità, uno che non aveva niente, che doveva mendicare anche i suoi diritti.

– Are you joking? – chiese con una espressione indecifrabile.

– No I am serious – disse la dottoressa, rendendosi conto di quello che le sue parole avevano scatenato; e per sdrammatizzare aggiunse – You just have to change those shoes, – indicando gli zoccoli di plastica azzurro puffo che portava ai piedi.

Solomon si aprì in un enorme sorriso. Si rivolse a Esther, la quale, ridendo, tradusse per Giulia – Dice: la nostra dottoressa, le vogliamo tutti bene.

Di nuovo, Giulia ebbe da combattere contro le sue lacrime.

Quando quella sera Giulia se ne andò, incontrò Solomon in cortile con altri ragazzi a chiacchierare. Si era tolto i vestiti che aveva preso in magazzino e si era rimesso il suo completino bianco. Giulia gli lanciò uno sguardo interrogativo, e lui di risposta, con un’espressione più rilassata e sollevata, disse – See you on Wednesday.

– I am coming on Thursday – ribattè Giulia, capendo che il programma della sera era stato annullato.–

– Then see you on Thursday – rispose Solomon, in un modo che le fece capire che non sarebbe stato vero.

 

Giovedì sera, quando Giulia arrivò al Dormitorio, Solomon non c’era. Diede un’occhiata al registro degli ospiti del centro e vide che il suo nome non era più sull’elenco. Era partito alla mattina, per la Svezia. “Buon viaggio Solomon, lo salutò nel suo cuore, che la Vita ti sia amica”.

– Ci sono dei nuovi arrivi da vedere – le urlò Esther dalla lavanderia, indaffarata a piegare dei panni. “Eccomi” rispose la dottoressa. Prese la sua valigetta e inizio a visitare.

 

Cecilia Grecchi

 

 

 

Il progetto “Solo andata” è attivo da luglio 2014 a Milano, presso i locali della Associazione Sviluppo e Promozione Onlus, nella zona Barona. Dall’inizio dell’attività del dormitorio sono stati accolti quasi 400 ragazzi eritrei, di passaggio per Milano e diretti verso il Nord dell’Europa, dove sperano di fare domanda di asilo come rifugiati politici. Questo racconto di Cecilia Grecchi è dedicato ad ognuno di loro e alla loro intrattenibile voglia di una vita migliore.

Le foto sono di Guido Maria Isolabella


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