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Fulvio Tomizza. “Il bosco di acacie” (1966) 
La trilogia istriana a cura di Marisa Cecchetti/ 3.
24 Dicembre 2013
 

Fulvio Tomizza, Il bosco di acacie

in Poi venne Cernobyl

Marsilio, 1989, pp. 137

 

Il vecchio padre è molto malato, tutta la famiglia vive in una baracca del campo. Sono una coppia di profughi istriani a muoversi dal campo, nell’ultimo romanzo della trilogia di Fulvio Tomizza, Il bosco di acacie. Devono accompagnare con la corriera il vecchio fino alla casa di parenti che si sono sistemati su un podere in terra italiana. Perché almeno il momento della morte abbia dignità. Lo adagiano su un letto, le donne gli prestano ogni cura e attendono il trapasso.

Giordano, l’ospite, mostra al nuovo venuto la terra che lavora, una terra generosa che lui ha saputo sanare e mettere a frutto. Ci sono coltivi, animali nella stalla e nel cortile e piante da frutta, ma i fichi, i noccioli, i ciliegi, sono quelli del suo paese, infatti ha riempito una sporta di piantine prese nella sua terra, per portare con sé un po’ del suo passato.

Guidando l’amico, non senza orgoglio per ciò che è riuscito a realizzare, Giordano spinge lo sguardo verso i paesi oltre confine, poco distanti in linea d’aria eppure diventati stranieri, e se contiene la nostalgia è grazie ai risultati del suo lavoro, che lo compensano, gli danno da vivere e assicurano un futuro a suo figlio. Bisognava trovare una via per ricominciare a vivere: «Ci siamo adattati, arrangiati. È la terra che è, di bonifica, tutto sommato una buona terra. Naturalmente vuole le sue colture». Ma il suo cuore batte altrove: «Somiglia ma non è. Non è quello di prima, non lo sarà mai. Mi pare una terra di altri, che non sarà mai mia, è come se lavorasse me. Non si ha più amore».

L’altro osserva quella ricchezza e varietà di raccolti, la bellezza di un bosco di acacie: «Era fermo a guardare, lo sguardo rivolto ai cespugli di acacia più fitti che formavano ampi ripari di silenzio e di frescura, da raggiungere procedendo carponi sotto i rami bassi, le unghie nella terra umida». Potrebbe fare anche lui una scelta simile, chiedere un pezzo di terra da bonificare, lui che lavora alle strade.

Muore il vecchio padre e non è solo, perché arrivano per l’ultimo saluto tanti paesani che ormai vivono in quelle terre, ed è un po’ come essere a casa. Nella camera dove il vecchio riposa si riascoltano le voci delle donne del paese, il dramma si stempera in una serena accettazione della morte come evento naturale: «Salutami i miei!», come un continuum tra terra e cielo.

Il figlio ora attraversa da solo il bosco di acacie, ma se lo sente addosso come se fosse imprigionato, la terra umida emana odore di muffa, il bosco fa paura e tutto ciò che incontra, la carcassa di un uccello, un osso che spunta da terra, parlano di morte. Quella terra non è luogo per lui.

Tematica costante nei romanzi di Tomizza, questa divisione tra italianità e slavismo, questa angoscia di frontiera: essere in territorio italiano e avere il cuore altrove. Lui, come scrive Isabella Bossi Fedrigotti, non si sentiva accettato da Trieste, slavofilo agli occhi degli uni, antiyugoslavo per gli altri. Destinato a sentirsi senza patria.

 

3. (fine)


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