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Daniela Toschi. L’indicibile, la “malattia”: riflessioni su “Come di solo andata” di Marisa Cecchetti
Ferdinando Franguelli
Ferdinando Franguelli 
05 Giugno 2013
 
   Come di solo andata: queste poesie impongono alla nostra attenzione qualcosa che non è di comune riscontro nel mondo poetico: la malattia del corpo, della mente, del mondo.
   Si sa che la poesia per sua natura si presta ad essere letta sotto gli aspetti più vari, a seconda dello stato d’animo del lettore e del particolare momento o contesto in cui la lettura avviene. Una lettura che voglia essere obiettiva a volte rischia di essere noiosa rispetto all’effetto travolgente che si verifica quando la poesia colpisce il lettore in una parte ferita o in una parte per così dire “iperemica”, in-fiammata.
   Quando ho letto queste poesie mi stavo interrogando sull’indicibile: era questa la mia zona “iperemica”. Perché ci sono cose che non si possono dire, di cui non è corretto parlare, o che si dicono male? Perché ci sono comunicazioni impossibili?
   Ero stata colpita da alcune affermazioni che avevo ascoltato nel corso di un convegno in cui si commentava il diario di uno psicoanalista che non aveva mai espresso ufficialmente alcune sue osservazioni tecniche, poiché alla sua epoca non sarebbero state accolte, ma fortunatamente per i posteri le aveva espresse nel suo diario: «l’indicibile è il perturbante interpersonale, comunicarlo disturberebbe ogni possibilità di relazione» e poi: «in qualunque relazione umana il non dicibile è fondamentale; se non vi fosse un’area di non detto non si potrebbero formare rapporti sociali, né, a livello di società, qualcosa di solido, di istituzionale». Quindi i rapporti umani, le strutture sociali, non si basano sull’autenticità, ma sul non detto? Ovvero, più esattamente, su una parte di autenticità, certo, ma anche su una parte di non detto che è altrettanto fondamentale?
   Sulla base di queste affermazioni mi sono messa a riflettere su quanto sia estesa l’area dell’indicibile: ci sono intere aree dell’esperienza umana che vengono escluse dalla comunicazione; in cui la possibilità di comunicazione, sia interpersonale che intrapersonale, è interdetta. Anche intrapersonale: quante cose nascondiamo a noi stessi, per vivere meglio? A volte si tratta di qualcosa di “inesprimibile”: non ci sono parole, non ci sono pensieri per dirlo. In altri casi invece le parole e i pensieri ci sono, ma non possono essere espressi, o vengono espressi male, e comunque non giungono all’altro, il quale oppone una barriera, un atteggiamento di rifiuto. Perché? Di cosa si tratta?
   Dopo aver letto il libro di Marisa, oserei dire che gran parte, se non tutta, l’area dell’indicibile appartiene alla “malattia”, e allo squarcio che essa apre su aree dolorose, temibili, dell’esperienza per la quale non ci sono parole o non ci può essere comunicazione autentica che venga accolta. Si dice ad esempio che il dolore non può essere pensato, non può essere ricordato, non può essere detto, può solo essere “finto” anche quando è vero. E si sa che esperienze dolorose non sempre possono essere raccontate: l’ascoltatore si annoia, sbadiglia, si ritira, deride, sdrammatizza, minimizza, nega. Si ritrae. La comunicazione mira al “contatto” tra due persone. Quando non si ha il contatto, si ha il “contagio”, o meglio, “timore del contagio”: “Non ammorbarmi (morbo, contagio) con questi problemi”.
   L’Indicibile è ciò che, se venisse detto, sarebbe rifiutato, in quanto deriva dall’angoscia, dalla paura, e provoca angoscia e paura, anzi, “perturbamento”. Ciò che è perturbante (termine introdotto da Freud sulla base di un duplice senso della parola tedesca Heimliche, che vuol dire al tempo stesso familiare ma anche nascosto, un sorta di paradosso che la stessa negazione Una inizio di parola, Unheimliche, sottolinea: non familiare, non più nascosto, rivelato) è qualcosa che evoca due sentimenti opposti: di familiarità, perché si tratta di una esperienza umana condivisa e inevitabile, ma anche di estraneità, perché è qualcosa di rimosso, di rigettato in quanto la piena consapevolezza di questo qualcosa sarebbe sconvolgente. Una comunicazione che voglia aprire nell’altro questa consapevolezza crea perturbamento e di conseguenza rifiuto, distacco, talora derisione: dall’indicibile bisogna difendersi e perciò gli si oppone la nostra “parte insensibile”. Sembra che sia già lì, preformata e pronta all’uso la nostra “parte insensibile” che ci difende dal perturbante.
   Capita dunque spesso che chi ha a che fare con la “malattia” (e vedremo che qui, nelle poesie di Marisa, questo termine viene usato in senso lato), desideri condividere la sua esperienza, il suo squarcio, ma non può farlo, perché se lo fa questa comunicazione che non viene accolta, che trova sbarrato l’accesso all’altro, rifluisce nell’agente della comunicazione, lo ingorga, lo sommerge; e il ritrarsi dell’altro gli crea un senso terribile di abbandono. Meglio non parlarne dunque, meglio tacere e tenerselo dentro, per non impattare, proprio nel momento in cui si sente forte il bisogno di condivisione, contro una chiusura, contro una porta serrata.
   L’indicibile, dicevamo, è necessario per mantenere le relazioni umane. Il non detto (a se stessi, agli altri) sembrerebbe parte fondante della struttura dell’Io e del nucleo sociale. Ma fortunatamente lo si può esprimere in modo “altro”: l’arte ad esempio, o il motto di spirito. La poesia è uno dei modi di comunicare l’indicibile, staccandolo dall’esperienza individuale e trasformandolo in una rappresentazione che può essere meglio accolta.
   La prima parte delle poesie di questo libro parla di malattia del corpo, di ospedalizzazione, di interventi medici. Ma poi, incredibilmente, Marisa fa un salto… Questa prima parte per me era già compiuta e costituiva un materiale abbondante e di per sé significativo. Credo che queste prime poesie costituissero il nucleo originario, che ha poi permesso all’autrice un’inaspettata espansione.
   Affrontiamo intanto questa prima parte, che a me interessa inevitabilmente in quanto il medico, o in generale la macchina istituzionale, si trova di fronte all’esperienza “indicibile” della malattia e rischia spesso di opporle la “parte insensibile”, camuffata da tecnicismo e da professionalità.
   Che tipo di comunicazione ci può essere tra chi si trova improvvisamente ad essere “malato” e gli altri? E a un livello strettamente personale, come possono comunicare queste due identità, l’Io sano, che era prima (e che forse sarà poi, si spera) con quell’Io malato con cui inaspettatamente ci si trova ad avere a che fare? Come si può “dire” il ruolo di malato? Si tratta di assumere un ruolo regressivo, dipendente: mettersi nella mani altrui, esporre l’intimità del proprio corpo, anzi della propria carne, a persone estranee, o addirittura a strumenti chirurgici, a sonde nella carne viva. Ci sono persone più portate a vivere questa esperienza, che sanno affidarsi ad altri ed assumono più facilmente il ruolo di chi si mette nelle mani di un’autorità assoluta: il medico, ma direi piuttosto l’istituzione. Queste persone di solito sono premiate, perché sono i “buoni malati”. Per altri assumere questo ruolo è veramente arduo: suscitano difficoltà nell’assistenza, e non è detto che  gli operatori sappiano comprendere il loro vissuto, il loro dramma, la scissione di identità che vivono all’improvviso. Perché l’operatore dovrebbe conoscere l’esperienza della malattia, ma spesso la nasconde a se stesso, la rifiuta questa esperienza, finché non la vive.
   Scorrendo le poesie di questa prima parte, che suggeriscono una miniera di osservazioni,  vediamo descrivere il torpore del paziente ospedalizzato, il distacco, la confusione (chi sono? C'è una nuova identità con cui fare i conti), la lontananza dalla realtà come difesa. C’è o non c’è il malato? È ancora una persona, o si è rassegnato ad essere una cosa nelle mani di qualcun altro? Nella prima poesia arriva l'angelo a risvegliarlo dal torpore (è il medico, la nuova autorità a cui occorre affidarci): l'angelo congiunge le lontananze, le risolve, porta messaggi da lontano, questa volta è un messaggio di vita.
   Il letto d'ospedale: è l’unica area dove ancora esiste un privato, è una specie di carapace: «e rimanere chiuso/ come in un carapace/ tracciar confini come i gatti/ in una stanza bianca/ dove diventi numero». Non avevo mai notato che il malato e il letto sono tutt'uno. È il suo spazio in uno spazio alieno, estraneo.
   La vita è scritta in una cartella clinica. Anche il destino: «Perde i confini il tempo/ privo di eventi tuoi/ come un quaderno nuovo/ su cui altre mani/ tracciano segni/ ciò che conosci –o credi–/ di te scolora perde peso/ atti parole pensieri già vissuti/ qui si riducono/ a brevi appunti/ su un foglio bianco/ senza emozioni/ il sunto/ non ti contiene/ Annaspi e aggiungi chiose/ per sentirti persona/ per ridare spessore/ al vuoto d’aria/ in cui galleggi».
   Vengono poi descritti i vari rituali e il turno, il linguaggio «aspro e puntuto che ti descrive», «il panico che chiude la bocca». Le infermiere sono energia vitale, estranea, sono quasi androidi nella loro estraneità al vissuto del paziente. Il rapporto con gli altri pazienti pare l’incontro di due spaesamenti.
   I corridoi sconosciuti che si percorrono sulla barella danno una sensazione di fragilità, di comunicazione impossibile, vista la professionalità di chi ti conduce in questi binari: «il cuore si scioglierebbe come cera se provasse pena». Ecco gli androidi, di nuovo, la professionalità che rende androidi, lo “scudo della professionalità”. «Preghi che Orfeo non si dilegui mentre ti conduce da mani che non sai in luoghi che non conosci».
   La sensazione di regressione infantile viene espressa soprattutto nella dodicesima poesia:  dopo il pasto tutti buoni e zitti, nel letto, come in una culla, come neonati dopo una poppata.
   La sala operatoria si raggiunge in un viaggio come di sola andata, con la consapevolezza che il corpo sarà violato: «Essere trasportati/ da portantini verdi/ è andare nudi/ alla sorgente/ mano che ti ghermisce/ e ti precipita/ in un buio fondo/ come di solo andata».
   Fortunatamente si riprende possesso pian piano del proprio corpo e della propria identità: «Quando il corpo riaffiora/ e ti richiama/ ne riprendi possesso/ pezzo a pezzo», pur nella consapevolezza che «i giochi si giocano altrove»: siamo davvero padroni del nostro destino?
   L’ultima poesia della prima serie vede l’arrivo dell'alba. Un nuovo inizio: «L’alba che tocca/ e scuote i letti bianchi/ –l’alba che vedi ancora–/ è il più grande/ dono di Dio».
   Ed ecco la sorpresa che ci riserva l’autrice. Si pensava di tornare indietro, alle proprie rassicuranti abitudini. Ma il viaggio è stato “di solo andata”, qualcosa è cambiato definitivamente. Si fa avanti un'altra malattia. Questa volta è qualcosa di esterno. C’era anche prima, ma forse si è creata una nuova sensibilità. Forse non si è più gli stessi dopo che si è avuto contatto con l'indicibile. Ed ecco che ci si accorge di una malattia che è fuori di noi. È il telegiornale che la impone. Le notizie ci ricordano che il mondo è un campo minato, «dove ordigni pensati/ mantengono la guerra/ anche dopo la guerra/ e le potenze/ vogliono terra ed energie». Anche qui, fuori dall’ospedale, «i giochi si giocano altrove» e ci sono altri padroni del tuo destino. Ci si accorge che «brucia le terra e non solo è dell’Etna/ la rossa vampa che rompe la notte».
   Lo squarcio dell’indicibile ha fatto irrompere una realtà che sembra marciare con un ritmo inesorabile. E così la malattia vera è quella del mondo, ed è inevitabile la fuga nella follia. Il tema della follia viene rappresentato mirabilmente nelle poesie che chiudono questa seconda parte: la follia viene accennata da rumori condominiali, voci che filtrano dalla finestra, grida… Non possiamo disconoscerla, si fa sentire. È indicibile la follia e parla così, con grida, con sguardi, con odori: «Stamani non serra a prigione/ quel muro d’angoscia continuo/ quell’urlo che schioda le porte/ di lei che lenta raggira/ il palazzo/ le aiuole/ e attacca al tuo corpo/ due orbite fisse infuocate di sdegno/ e scaglia davanti alle porte/ e sotto i balconi d’estate/ la sua solitudine cupa».
   Insomma, al sicuro nella propria casa, nella propria riacquistata salute interna, non si può fare a meno di percepire la malattia esterna, e ci si accorge che il mondo è sempre stato malato, ma non è, forse, una malattia mortale quella del mondo. C’è la crisi economica, è vero, ma c’è anche la possibilità di illudersi, di sognare, «che il risanamento possa partire da genti e paesi dove si impara a vivere l’assenza», o da amiche che hanno percorso il mondo nella speranza di trovare un luogo accogliente. E il miglior augurio di futuro è «un giovanotto nero/ un paio di occhiali gialli,/ un sorriso bianchissimo/ sul suo volto». Insomma, ci dice Marisa, ci sono anche forze rigenerative.
   Chiudo citando un passo dall'introduzione che uno psicoanalista, George Frankl, ha fatto al suo libro The Social History of the Unconscious. A Psychoanalysis of Society (1989):
   «È ovvio che la nostra civiltà soffre di una malattia che siamo incapaci di comprendere e di curare. I sintomi di questa malattia si sono resi manifesti nel corso della storia e hanno avuto una parte importante nel formare la storia stessa; questa malattia, comunque, è sempre stata controbilanciata da forze rigenerative: visioni di bellezza, di giustizia e di conoscenza. I conflitti tra le forze distruttive e quelle rigenerative, tra la malattia e la salute, hanno prodotto una dialettica da cui ogni volta sono emersi nuovi sistemi sociali e nuove ideologie. Possiamo affermare che la malattia ha generato risposte compensatorie: le forze civilizzatrici rivolte all'affermazione della vita».
   Non sfugge all'autore che a volte le medicine sono peggiori della malattia, e che se «L'utopia ha sempre avuto un futuro tra le aspirazioni dell'uomo», oggi, per la prima volta nella storia, il futuro viene messo in discussione, visto che siamo consapevoli che le ideologie, la conoscenza, la tecnologia, sono al servizio dei nostri sogni e dei nostri incubi al tempo stesso. E tuttavia l'unico obiettivo possibile, l'unica speranza, è fare in modo che le forze rigenerative e di affermazione della vita rispondano con sufficiente vigore alla malattia che minaccia la nostra civiltà.
 
Daniela Toschi
Lucca, 24 maggio 2013

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