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Gianfranco Cercone. “La pelle che abito” di Pedro Almodóvar e i film “disturbanti”
12 Ottobre 2011
 

Aurelio Grimaldi – regista cinematografico e scrittore (suo il libro Mery per sempre) – in un articolo che scrisse per la rivista Cinemasessanta, si inventò la categoria dei film “disturbanti”. Sono quei film in cui l’autore rivela alcune sgradevoli verità, in primo luogo su se stesso. Così sgradevoli che lo spettatore tende a prendere le distanze dal suo film; forse proprio perché teme di riconoscere in se stesso almeno una “dose” della verità confessata. Così i film “disturbanti” hanno una doppia caratteristica: sono sinceri, estremamente sinceri; e sono in genere rifiutati dal pubblico.

Non so se il pubblico italiano abbia amato o rifiutato l’ultimo film di Pedro Almodóvar, La pelle che abito. Ma certo, al centro del film, c’è una di quelle sgradevoli verità. Chi conosce almeno un po’ il cinema dell’autore, sa che le sue storie sono maledettamente complicate, fanno il verso ai romanzoni d’appendice: forse parodisticamente, o forse somigliandogli proprio. Dunque, non sono rapidamente riassumibili.

Se però sfrondiamo il racconto di tutte le circonvoluzioni narrative; dei giochi di stile, per i quali non è mai del tutto chiaro se l’autore prenda la sua storia sul serio o invece ci scherzi sopra; se andiamo insomma al nocciolo del film, ecco cosa troviamo. Un uomo maturo sequestra un ragazzo. Lo castra. O più precisamente: essendo lui un chirurgo plastico, lo trasforma in una donna. Tale donna in un primo tempo gli si ribella. Non riuscendo ad aggredirlo e a fuggire, gli oppone alcune forme di resistenza psicologica. Ma poi, come effetto del progressivo annullamento della sua personalità, si innamora di lui.

Parlavo di verità. Mi si potrà obiettare che è una storia alquanto inverosimile. Ma io mi riferivo ovviamente a verità psicologiche. E i moventi dei personaggi – in questo racconto, ripeto, ridotto all’osso, prescindendo quindi dalle giustificazioni che il chirurgo si dà – sono facilmente riconoscibili: il piacere del dominio, da un lato; e il piacere di essere dominati dall’altro.

Insomma, si tratta né più né meno che di una relazione sadomasochista; spinta quasi all’assoluto, o al paradosso. Ma per paradossale che sia, Almodóvar, dopo aver estratto da sé il fantasma di questa perversione, lo ha rifinito pazientemente, nei minimi particolari, per dargli consistenza di realtà. Il difetto dell’operazione è che l’autore, per essere popolare e sempre facilmente comprensibile, semplifica i personaggi, rende elementari proprio le loro psicologie.

Comunque, abbiamo da un lato un chirurgo di grido, che dietro i modi professionali, disinvolti ed eleganti, maschera una totale aridità affettiva. Dall’altra, un ragazzo gentile, aperto, ma fragile; forse già in partenza incline a cedere alla manipolazione. E la donna che sorge da lui – fresca, felice del suo amore – fa intravedere, dietro la sua apparenza florida, il male di una libertà mostruosamente distrutta.

La pelle che abito è un film che sa di confessione, o di psicoterapia. Vi si adattano alcune parole che François Truffaut dedicò ad Alfred Hitchcock, un autore certamente molto amato da Almodòvar (il suo film ricorda un “classico” di Hitchcock: Vertigo – La donna che visse due volte).

Truffaut apparentava Hitchcock a certi artisti inquieti la cui missione «è dividere con noi le loro ossessioni. Con questo, anche ed eventualmente senza volerlo, ci aiutano a conoscerci meglio, il che costituisce un obiettivo fondamentale di ogni opera d’arte».

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 11 ottobre 2011)


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