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Alberto Cesare Ambesi: Manifesto per le arti. Contro i cattolici come Ermanno Olmi
Olivier Messiaen
Olivier Messiaen 
22 Maggio 2009
 

Negli anni Trenta dello scorso secolo furono abbruciati nel nome di uno stravolto e degradato concetto di razza. Non diversamente oggi, nel momento stesso in cui molti mezzi multimediali sembrerebbero congiurare concordi, affinché l’Uomo sia distolto dalla lettura e dallo studio, un regista, unanimemente considerato un rappresentativo fedele della Chiesa cattolica, quel regista ci raccomanda di subordinare ogni pensiero alle ipotetiche delizie della vita semplice: dai lieti conversari al caffè con gli amici a improbabili, ma non impegnativi, amori sulle rive di un fiume. Magari fra una partita e l’altra al biliardo o al video-poker e accese discussioni sul campionato di calcio e sulle apprezzabilissime grazie delle “veline”. Tanto per non annoiarsi.

Vi sarà, ovviamente, chi vorrà giustificare la crocifissione dei libri invocata da Olmi ne I cento chiodi, appellandosi al carattere di parabola del film, ma chi scrive quest’annotazione vi scorge, piuttosto, il rinnovato insorgere di un atteggiamento inquisitoriale che potrebbe portare un giorno la società globale a guardare con ostilità gli artisti, gli scienziati e i filosofi che intendessero cercare la verità, così come si manifesta e si occulta nelle molte realtà che ci circondano o che vivono in noi. Olmi, per di più, sia pure senza volerlo, ha insultato la memoria di compositori come Palestrina, Bruckner e Messiaen che hanno innalzato alla fede ecclesiale monumenti di suoni che non erano e non sono di facile comprendonio. Ringraziando tutte le divinità superne, mi verrebbe da aggiungere.

No, di contro al pericolo di una crociata “antisapienziale” dei Poveri di spirito, magari condotta sotto l’ingannevole stendardo del buonismo, qui rivendico con voce sommessa, ma ferma, la libertà, per me e per gli altri, d’erigere “torri d’avorio” consacrate alla scienza e alla conoscenza. Se non altro, perché da oggi dovrà pur iniziare un’intellettiva veglia d’armi, nel nome della Gnosi. Da più parti, voglio sperare. E a tale proposito mi sia concesso di formulare qui alcuni enunciati che, di volta in volta, riassumono o anticipano le espressioni basilari di un manifesto di un movimento artistico mai nato. Con l’aspirazione, come è sottinteso, di considerare anche altri campi dell’esperienza interiore.

Osserverò allora, in linea preliminare, che Gillo Dorfles, nel saggio Elogio della disarmonia (Garzanti Editore, Milano 1992), rifacendosi a Goethe (Faust, parte seconda, atto primo, scena della “Galleria oscura”) volle sottolineare che nel regno dell'Inconscio (non necessariamente junghiano), giacciono immobili o si trasformano continuamente le immagini delle Madri (degli archetipi), generatrici di ogni schema figurale con valore simbolico; più precisamente, creandosi come fondamento di quelle Idee a cui l'Uomo ha da sempre attinto. Un itinerario che gli artisti legati alle suggestioni oniriche o alle intuizioni fantastiche ben conoscono. Nell'un caso e nell'altro, infatti, sprofondare o salire possono divenire una cosa sola (similitudine di Mefistofele, nella scena citata), per cui, quando il loro impegno sia effettivo e profondo, essi vengono a trovarsi come sullo zoroastriano ponte dell'oltretomba, Cinvat, agevole cammino verso la “Casa dei canti”, per coloro che si siano schierati con il regno della Luce e del Bene, pronto a restringersi, invece, fino a divenire simile a una lama di rasoio, per quanti siano divenuti servitori delle Tenebre, e quindi destinati a precipitare fra le serpentine onde di quella Oscurità che ha su questa Terra un pallido riflesso in ciò che si è soliti definire: depressione, follia.

Tale la realtà di fatto, guardando alle esperienze suddette con sguardo teologico, se non “esoterico”. Altro il discorso, per contro, laddove si consideri che la “discesa agli inferi”, da un lato, e il “rapimento al settimo cielo”, dall'altro, appaiono spesso come conseguenti o intrecciati. Più precisamente, quando l'artista abbia avvertito il dovere di confrontarsi con la propria Ombra e con tutte le implicazioni che possono tralucere o dalle forme della Natura o dalle dimensioni del pensare (in astratto) per immagini, con adeguata logica simbolica. L'Ombra dell’anima e dello spirito, le forme della Natura e la logica simbolica: una terna di sentieri che può guidare la riflessione ad antefatti (in apparenza) piuttosto lontani e, in particolare, ad altre ternarietà.

Giordano Bruno (1548-1600), per esempio, evoca e riconosce la seguente ternarietà di simboliche soglie, una volta che ci si sia trasformati in ardenti cultori delle “scienze sacre”: 1ª) l'Atrium Apollonis, di là dal quale si stagliano, in progressione, gli allegorici sigilli del “Sole”, del “Padre” e della “Mens”; 2ª) l'Atrium Minervae, aprentesi sui viventi simulacri della “Luna”, del “Figlio” e dell'“Intellectus” (il Logos); 3ª) l'Atrium Veneris, adducente alle visioni della “Stella”, del “Principio d'Amore” e dello “Spirito Santo”. Metafore figurative e concettuali che sarebbe improprio considerare come frutto di un’erudizione solo mitologico-letteraria. Basti ricordare, in proposito, i paralleli ed emblematici cammini alchemici denominati, rispettivamente, via secca o “breve”; via lunga o “umida” e via regale o “intermedia”. Una riprova che l'allucinazione o la fantasia a occhi aperti, il sogno o la riflessione allegorica ben di rado conducono l'ideazione simbolistica a concordi esiti, proponendo anzi,di volta in volta, le trasmutazioni di segno profondamente dissimili.

L'immaginazione intuitiva, difatti, quando sia volta verso il Sublime, purché del pari cosciente dell'ambivalenza dei simboli, riesce quasi sempre a "distillare" anche la materia più vischiosa od oscura in una “sublimazione” di raggiante limpidezza. Tuttavia, è anche vero, per avverso, che la forza oscura che fluttua o tracima di là dalla soglia dell'infrarosso psichico, non di rado ha un tale vigore da riuscire a trasmutare quella sofferta purificazione in un “precipitato” estremamente torbido, ancorché alquanto affascinante, grazie alle “colorazioni” che può assumere. Il che non stupisce. Ogni evocazione o rappresentazione che nasca come specchio della “realtà autre” richiama infatti su di sé, inevitabilmente, tanto l'influsso delle schiere arcangeliche, quanto le suggestioni degli arconti dell'Abisso (similitudini d'impronta gnostica). Da quivi il ricorrente fenomeno, per cui il simbolismo può trovarsi costretto ad ammantarsi della bizzarria, con il rischio di decadervi, quando non tocchi all'aspirazione mistica o esoterica di fiorire sullo stelo “malato” dell'erotismo. Ed è in tale ottica allegorica –e oltre– che si dovrà interpretare l’allegorismo del “manifesto” che sto per proporre. A chi leggerà. il gravoso compito di saper interpretare i concetti e le metafore che vi sono profusi.

 

«Avi ed eredi del più puro e antico sciamanismo, noi profetizziamo qui l’ignoto artistico e ci convochiamo ad erigere il parco archeologico della post-modernità. Non per gratuito capriccio, bensì nel nome di profonde, intime ragioni, poiché accomunati dall’odio verso ogni mercificazione dell’arte e della cultura. Certo, per ora possiamo dirci visibili (comprensibili) soltanto ai nostri pari. Né potrebbe essere diversamente. Noi giungiamo come da nebulose in formazione, da inesplorati quadranti celesti, entro i quali verità e solitudine sempre coincidono. Di contro alle supposte certezze di carattere generale, ovviamente, ma soprattutto a scorno degli artificiali campi d’indagine settoriali. Ci riconosciamo perciò nei fuochi celesti, nella creatività che rifiuta ogni automatismo, giacché l’analogia e il simbolo esigono fede e sapienza.

Non ci s’inganni, tuttavia. Noi siamo la nuova preistoria, la pietra che precorre l’Età dell’Oro, grazie alla mistica segreta che abbiamo iniziato a praticare nelle nostre misteriose catacombe. Di là dal centro che si conosce e oltre i bordi dell’ignoto, affinché nelle opere si riversi l’olio dell’Apocalisse informatica e della Resurrezione umana. Ma si ascoltino, intanto, le nostre strane storie di ciò avviene e di ciò che accadrà: l’ineluttabile rovina d’ogni ciarpame, in un futuro che conoscerà –purtroppo e tuttavia- altre forme di schiavitù. Qui lo affermiamo in modo netto, giacché ogni fuoco celeste è profezia e dunque celebrazione della Pompei futura. Noi sveliamo, con ciò, la guerra che è in corso, ma senza aderirvi, poiché non vogliamo servire né Babele né Gomorra, ma piuttosto Iside stellata e il Sol invictus.

In bilico acrobatico sugli opposti abissi dell’infrarosso psichico e dell’ultravioletto animico, proclamiamo che l’arte non è mai morta. È tuttora in divenire e con un orizzonte finale in cui non vi sarà più posto per l’aridità del rumore, per gli acquerelli tanto carini, per la banalità di specchi, stracci e cartapesta, per le parole inquinate dalla volgarità. Ecco le ragioni che opponiamo alle barre delle più viete consuetudini critiche ed ecco perché contrapporremo alla semplicistica parabola la visione e la contemplazione, l’arcano di arcaici accordi e di nuovi contrappunti, l’imposizione delle mani, la rivalutazione del disegno, sia segnico sia musicale, e il lento deambulare. Con noi è la forza iconica della Luce e delle Ombre, del torrido e dell’algido, del molle e del turgido. Le fiabe gotiche e le materie da plasmare c’ispirano egualmente, passo a passo, affinché si compia una vera rivoluzione aristocratica.

Prima di tutto, di là dalle saghe del recente passato, in quanto la “storia” delle arti, della musica e del pensiero, concepita come un susseguirsi d’eventi lineari e consequenziali, è oramai impraticabile, tanto sotto il profilo pragmatico, quanto adoprando le cornici delle ideologie dello scorso secolo. L’indice della destrutturazione è nato vigoroso, ma la sua atrofizzazione non è lontana. Ne siamo consapevoli. Noi, prima espressione dell’età prossima e ventura, già ora opponiamo alle rigide scenografie del moderno e del post-moderno, sia il gesto antico sia l’impulso elettronico, quali prime espressioni di un canto alla civiltà futura che ancora non conosciamo. La nigredo è quasi cenere, oramai. L’albedo attende la sperimentazione della gioia e del dolore reali e il trionfo della rubedo appare là dove si coniugheranno la scienza e il gesto ideale, il calcolo e la passione trasfigurata. Noi. Noi chiamiamo al dialogo o alla lotta le Potenze dell’Invisibile. Facendoci scudo contro gli Arconti, s’intende, e con l’aiuto di angeli e arcangeli, se sapremo domandare che discendano –soccorrevoli- dal Pleroma di Luce».

 

Non a caso, mi sia consentito di aggiungere, il futuro che ci facciamo venire incontro c’insegnerà che vi sono due antitetiche intelligenze che vorrebbero disegnare la vita e il destino ultimo della manifestazione cosmica. Giusto come ho iniziato a sostenere nel recente saggio Nella luce di Mani e come ambirei a dimostrare in un’opera futura. Prima che scada il mio tempo terreno, fra sette od otto anni.

 

Alberto Cesare Ambesi


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