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Valter Vecellio. Diario del digiuno. 4 
Se il servizio pubblico radiotelevisivo si dotasse di un format per i diritti civili ed umani…
27 Luglio 2008
 

«Non si dovrebbe parlare di tolleranza:

si dovrebbe parlare di libertà.

Si “tollera” chi è ritenuto inferiore;

si rispetta chi è considerato eguale in diritto».

(Gaetano Salvemini)

 

È un tutto che si tiene, il digiuno di Marco Pannella e di tanti dirigenti, parlamentari e militanti radicali; l’occupazione di Marco Beltrandi della Commissione Parlamentare di Vigilanza che non riesce ad eleggere il suo presidente per la pervicace volontà boicottatoria del centro-destra; e la quantità di iniziative politiche che i radicali stanno conducendo in questi giorni. E, come sempre, tutto ruota all’informazione: il “fare” e il “saper fare” che vengono annullati dal “far sapere” che non viene assicurato e garantito. Pannella in più occasioni ha detto di credere che non esista un “grande vecchio” dell’informazione che di volta in volta impartisce la “linea”, quello che si può e si deve dire, quello che invece va taciuto e di cui va impedita la conoscenza. Ormai – riassumiamo in modo pedestre – si assiste a un qualcosa di antropologico, la figura del giornalista è mutata, ed è il giornalista in prima persona che assicura la “linea”, sa quello che si deve o non si deve dire; il tutto accompagna a un complessivo degrado di “sapere”. L’ignoranza – nel senso letterale – domina in redazione, e non è arbitrario sospettare che l’ignoranza sia ormai un requisito fondamentale per la carriera. Il risultato sono quegli abominii che si vengono quotidianamente scodellati.

Premesso ciò, si può proseguire con il “giochino” cominciato ieri: quello che si sarebbe potuto dire e far sapere se il servizio pubblico radio-televisivo si fosse dotato di un format dedicato ai diritti civili ed umani.

 

L’ennesimo suicidio in carcere. Questa volta per fortuna sventato.

Si sarebbe per esempio potuto dar conto di quanto accaduto nel carcere di Frosinone. Gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a sventare un tentativo di suicidio salvando un detenuto che cercava di impiccarsi. Protagonista del caso, un detenuto italiano di circa quarant’anni; dopo aver ricevuto la notizia dell’entità della sua condanna definitiva, depresso, si è avvolto un asciugamano al collo e ha cercato di impiccarsi.

Casi frequenti. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono quelli di Giuseppe Pistorino, era detenuto nel carcere di San Gimignano (Siena). Anche lui impiccato, come il ragazzo di 26 anni detenuto a Sollicciano: incensurato, coinvolto in una inchiesta su truffe telefoniche, si è impiccato usando i lacci delle scarpe. Nel carcere abruzzese di Sulmona, come a Frosinone, gli agenti sono riusciti a bloccare un tentato suicidio; come riferisce un flash di agenzia: «Aveva ricevuto comunicazione di una difficoltà in ambito affettivo, per questo ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente…».

Nella notizia, una clamorosa notizia: «…ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente per sfuggire…». Significa che nelle carceri italiane si verificano qualcosa come 3.650 tentativi di suicidi.

Nel 2007 quelli che vengono rubricati come “atti di autolesionismo in carcere” hanno riguardato 3.687 detenuti; nei primi sei mesi del 2008 si registrano almeno 23 suicidi, mentre una trentina sono i detenuti morti per altra causa. Nel 2007 i suicidi sono stati 45: 43 gli uomini, di cui 16 stranieri. Altri 76 sono morti per cause più o meno “naturali”. L’anno in cui si sono registrati più decessi è stato il 2001: 69 suicidi su 177 morti dietro le sbarre; dal 2002 allo scorso anno invece, la media dei detenuti che si è tolto la vita in carcere si è mantenuto tra i 50 e i 57 casi.

La situazione attuale: i detenuti in attesa di condanna definitiva sono il 55,32 per cento, oltre il doppio della media europea, che sfiora il 25 per cento. Complessivamente, nelle carceri italiane sono stipate (dati aggiornati al 15 luglio) 54.605 detenuti, a fronte di 42.890 posti regolamentari. Negli ultimi sei mesi, i detenuti sono aumentati di quasi seimila unità: un aumento progressivo dovuto essenzialmente all’effetto provocato da due leggi: la ex Cirielli sulla recidiva; e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Gli stranieri detenuti sono 20.458 (il 37,4 per cento del totale), mentre nel 2000, prima dell’approvazione della legge Bossi-Fini, la percentuale era del 29,31 per cento. Si tratta soprattutto di persone originarie del Marocco, della Tunisia, della Romania e dell’Albania. Oltre 1.800 sono detenuti per irregolarità nell’ingresso nel nostro paese.

 

Il messaggio del Dalai Lama e i diritti civili e umani in Tibet.

Siamo alla vigilia delle Olimpiadi. Chi pensava che potesse essere l’occasione per un discorso su quello che accade in Cina, e la situazione dei diritti umani e civili, si sbaglia. Chi ricorda più, per esempio, la sanguinosa repressione in Tibet di solo qualche settimana fa?

Eppure ascoltare per qualche minuto il Dalai Lama sarebbe interessante: «Il mio obiettivo più grande è la promozione dei valori umani e l’armonia tra le religioni. Ecco, l’unica cosa che mi sento di dire è forse che anche i governi e i leader politici dovrebbero fare qualcosa di più per promuovere i diritti umani e i valori… Nel nostro paese è vietato tenere una statua di Budda in casa, o esibire qualsiasi oggetto religioso. È proibito fare pellegrinaggi ai templi. Nelle scuole, le autorità cinesi hanno tolto ogni riferimento alla religione, mentre nei monasteri buddisti sono incominciati gli indottrinamenti politici, divisi in punti. Il primo è quello che invita a criticare il Dalai Lama. Hanno tolto tutte le mie fotografie. Ma non fa niente. La cosa fondamentale è che nel nostro paese c’è un’insofferenza sempre maggiore e che qualsiasi manifestazione di protesta o critica alle autorità cinesi viene repressa con violenza. Arresti e torture sono all’ordine del giorno. I tibetani vengono trattati come cittadini di seconda classe nel loro stesso paese. Anzi, come animali da bastonare, a cui è negata qualsiasi dignità».

 

Gostanza da Libbiano

Sempre nel “gioco” della simulazione, Se il servizio pubblico radiotelevisivo si fosse dotato di un format per i diritti civili e umani nel suo palinsesto troverebbe posto la trasmissione di un film di qualche anno fa, assolutamente ignorato in Italia, e si capisce il perché. Può essere inteso come una “favola” sulla giustizia e la libertà della ricerca scientifica.

Una storia cupa, ambientata nel 1594, a San Miniato al Tedesco, possedimento del Granducato di Toscana. Monna Gostanza da Libbiano da sempre esercita il mestiere di guaritrice: una donna che guarisce, evidentemente, giustifica un doppio sospetto: “Misurare i panni ai malati per conoscerne i mali” è pratica altamente sospetta per quei tempi d’inquisizione; e infatti le autorità locali si mettono in allarme. L’ordine costituito è minacciato. Arrestata per ordine del vescovo di Lucca, la donna è accusata di stregoneria. Gli inquisitori sanno bene come indurre una persona a confessare d’essere dedita a pratiche diaboliche. Gostanza all’inizio, disperatamente nega. Poi la sofferenza fisica ha il sopravvento, e la donna confessa tutto quello che gli inquisitori desiderano e vogliono sentirsi dire. Di più: confessa quello che immagina gli inquisitori vogliono sentirsi dire da lei; e inizia così a costruire un suo mondo metafisico, scatenandosi nelle fantasie più fervide: malie, delitti, sacrifici umani, pratiche vampiresche, metamorfosi, accoppiamenti carnali con il Maligno, voli notturni e fantastici, orge e baccanali nella Città del diavolo…Non è la confessione di una “posseduta”, piuttosto è l’orale rappresentazione dell’immaginario popolare e contadino, quella che racconta la povera Gostanza.

Alla fine la Giustizia trionfa. Nel senso che un barlume di ragionevolezza riesce a farsi strada nelle pur ottuse menti degli inquisitori e di coloro che li ispirano; e l’innocenza di Gostanza è riconosciuta. Ma è una giustizia alla Pinocchio, simile a quella raccontata da Alessandro Manzoni: che fa sì sposare i suoi Renzo e Lucia; ma prima di arrivarci, c’è la peste che “livella” buoni (frate Cristoforo) e cattivi (don Rodrigo), senza distinzione alcuna; in paese alla fine chi resta, impunito, è don Abbondio, il pusillanime; i due “promessi” sì vivranno felici e in pace la loro vita, ma per farlo sono costretti all’esilio, riparano nella repubblica veneta. Così Gostanza: proclamata innocente, è tuttavia cacciata da casa sua, e dal suo paese; e guai se riprenderà il suo mestiere che di nulla la rende colpevole, ma che di tutto la rende sospetta. I miopi inquisitori, al contrario, sono liberi di dedicarsi ad altre prede, e non tutti – lo sappiamo – avranno la fortuna di Gostanza.

La storia è autentica, si basa su verbali originali del processo recuperati dallo storico Franco Cardini. Paolo Benvenuti, il regista, considera Gostanza da Libbiano parte di “un trittico pittorico”: dove Il bacio di Giuda (del 1986) è la parte centrale; e Confortorio (del 1992) e “Gostanza da Libbiano” sono le pale laterali.

 

Una pagina di cosiddetta “storia minore”, che offre uno spaccato di quel meccanismo inquisitoriale che per tanti versi, sia pure con effetti concreti non così letali, sopravvive anche oggi. Realizzato in rigoroso ed elegante bianco e nero, è scarno, essenziale. E’ interpretato da un’eccezionale Lucia Poli: per la prima volta l’attrice si cimenta dietro la telecamera, e ha saputo dominare sapientemente la scena. La sua Gostanza è un “classico”; la trovata di Benvenuti è nel bianco e nero, che nella sua essenzialità consente di far risaltare il bel toscano dei protagonisti e il saporito catalogo di erbe mediche e di ricette della guaritrice, presunta strega.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 25 luglio 2008)


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