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Anna Lanzetta. Il sentimento del dolore. Affinità tra Pascoli e Munch
Edvard Munch,
Edvard Munch, 'Malinconia' 
14 Dicembre 2020
 

Quante riflessioni ci possono suggerire un quadro o una poesia e in convergenza farci immedesimare, rendendo unico il dolore di ogni tempo!

È bellissimo rileggere e interpretare la realtà attraverso la voce di poeti e di artisti e cogliervi il sentimento del dolore che mai come in questo momento ci accomuna. Un ritornare indietro, verso un tempo felice, quando tutto è attesa e nulla lascia presagire sventure. La poesia di Pascoli è disvelamento di ciò che è nelle cose, anche in quelle più semplici della vita di ogni giorno, gioiose o tragiche. In convergenza è l’arte di Munch, un mezzo per l’artista, per gridare al mondo il proprio sentire. Le loro opere, fortemente connotate, sono la lettura della realtà vissuta, nel preciso contesto in cui maturano, del loro dramma, provati fin da piccoli da numerosi lutti familiari. La poesia La voce è la rappresentazione visiva della condizione esistenziale di Pascoli. È per il poeta un viaggio a ritroso nella propria vita, un vaglio delle circostanze avverse, un bisogno di ritrovare persone, affetti e luoghi, la rincorsa di un sogno impossibile, espresso con parole che fotografano il suo stato d’animo. È eco di voci del passato, spinte propulsive al ricordo e alla riflessione in un presente spesso drammatico. Sembra un colloquio quello del poeta con la voce che lo riporta bambino, alla sua infanzia felice, ma il dialogo si muta in soliloquio e poi in un monologo, in cui emerge struggente la rievocazione di un tempo lontano e di una voce salvifica: C’è una voce nella mia vita,/ che avverto nel punto che muore;/ voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore:// voce d’una accorsa anelante, /che al povero petto s’afferra/ per dir tante cose e poi tante,/ ma piena ha la bocca di terra:// tante tante cose che vuole/ ch’io sappia, ricordi, sì… sì…/ ma di tante tante parole/ non sento che un soffio… Zvanì// Quando avevo tanto bisogno/ Di pane e di compassione,/ che mangiavo solo nel sogno,/ svegliandomi al primo boccone;// una notte, su la spalletta/ del Reno, coperta di neve,/ dritto e solo (passava in fretta l’acqua brontolando, Si beve?);// dritto e solo, con un gran pianto/ d’avere a finire così,/ mi sentii d’un tratto d’accanto quel soffio di voce… Zvanì…// Oh! La terra, com’è cattiva!/ La terra, che amari bocconi!/ Ma voleva dirmi, io capiva:/ -No…no… Di’ le devozioni!// Le dicevi con me pian piano,/ con sempre la voce più bassa:/ la tua mano nella mia mano:/ ridille! Vedrai che ti passa.// Non far piangere piangere/ (ancora!) chi tanto soffrì!/ Il tuo pane, prega il tuo angelo/ Che te lo porti… Zvanì…// Una notte dalle lunghe ore/ (nel carcere), che all’improvviso/ dissi - Avresti molto dolore,/ tu, se non t’avessero ucciso,// ora, o babbo! - che il mio pensiero,/ dal carcere, con un lamento,/ vide il babbo nel cimitero,/ le pie sorelline in convento://e che agli uomini, la mia vita,/ volevo lasciargliela lì…/ risentii la voce smarrita/ che disse in un soffio… Zvanì…// Oh! La terra come è cattiva!/ Non lascia discorrere, poi!/ Ma voleva dirmi, io capiva:/ - Piuttosto di’ un requie per noi!// Non possiamo nel camposanto/ Più prendere sonno un minuto,/ ché sentiamo struggersi in pianto/ le bimbe che l’hanno saputo!// Oh! La vita mia che ti diedi/ Per loro, lasciarla vuoi qui?/ Qui, mio figlio? Dove non vedi/ Chi uccise tuo padre… Zvanì? -// Quante volte sei rinvenuta/ Nei cupi abbandoni del cuore,/ voce stanca, voce perduta,/ col tremito del batticuore:// voce d’una accorsa anelante/ che ai poveri labbri si tocca/ per dir tante cose e poi tante;/ ma piena di terra ha la bocca:// la tua bocca! Con i tuoi baci,/ già tanto accorati a quei dì!/ a quei dì beati e fugaci/ che aveva i tuoi baci… Zvanì…// che m’addormentavano gravi/ campane col placido canto,/ e sul capo biondo che amavi,/ sentivo un tepore di pianto!// che ti lessi negli occhi, ch’erano/ pieni di pianto, che sono/ pieni di terra, la preghiera/ di vivere e d’essere buono!// Ed allora, quasi un comando,/ no, quasi un compianto, t’uscì/ la parola che a quando a quando/ mi dici anche adesso… Zvanì(“La voce”, da Canti di Castelvecchio)

La voce è dunque il racconto della condizione esistenziale del poeta, drammaticamente vissuta, che trova l’unica ancora di salvezza in quel diminutivo, Zvanì, appena percettibile che lo mette al riparo dalla tragedia. C’è nei versi una capacità di andare ben oltre le cose e di scoprire le fragilità umane e l’indifferenza della società. Le parole esprimono il bisogno malcelato di ritornare al mondo perduto del nido, di rifiutare la violenza e l’ingiustizia di cui è stato vittima innocente il padre, di desiderare il ritorno all’infanzia felice per dare corpo a quella voce che ora è solo un soffio. La poesia è intessuta di elementi lessicali che si ripetono: voce, bocca, soffio, terra, pianto; di anafore “tante tante cose”, “tante tante parole, “Non far piangere piangere piangere”, di antitesi “occhi, ch’erano/ pieni di pianto, che sono/ pieni di terra”, un gioco espressivo per sottolineare sentimenti, pensieri, stati d’animo, che vengono articolati dal poeta ma che si tramutano in un silenzio profondo dove non è percepibile nessun suono. Lo stato esistenziale del poeta emerge nei toni drammatici che esprimono il suo dolore per ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato, il senso di solitudine che lo investe da piccolo, quando la vita gli nega gli affetti, il peso della violenza che avverte piombargli addosso e che nelle scelte insane degli uomini sente che lo travolgerà. La poesia, in espansione, diventa riflesso inconsolabile di un’umanità che prende coscienza della propria condizione. Anche il poeta ne è consapevole.

Composta nei primi mesi del 1902, come attesta la lettera al Caselli del 14 marzo, in cui si dice tra l’altro: “questa poesia, non la leggere prima: ti farebbe male a leggerla, come a me, a scriverla”, fu pubblicata nella prima edizione dei Canti (aprile 1903). Sulla reazione emotiva indotta in lui dalla propria poesia il Pascoli ritorna in un’altra occasione, scrivendo a Maria il 4 luglio 1903: “Stamane ho rimandate al Marchi le pagine che avevo dei Canti. Avevo una grande malinconia solitaria. Ho guardato quei fogli… che singulti alla Voce! Ma chi ha fatta quella poesia?”.

In convergenza anche in Munch, incombe l’idea della morte. La morte del padre è per Munch (come per Pascoli) un colpo da cui non si riprenderà come egli stesso scrive: E io vivo coi morti; mia madre, mia sorella, mio padre, lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l’ultima volta quattro mesi fa quando mi ha detto addio sulla banchina; eravamo un po’ timidi nei confronti l’uno dell’altro, non volevamo tradire la pena che la separazione ci causava. Quanto ci amavamo malgrado tutto, quando si tormentava la notte per me, per la mia vita, perché non potevo condividere la sua fede”. Una visione tragica della vita che mai lo abbandonerà e che egli renderà protagonista della sua arte. L’urlo è il simbolo dell’angoscia e dello smarrimento dell’intera umanità. Una situazione che nasce da un’esperienza di vita vissuta: l’artista si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (oggi quartiere di Oslo), quando venne pervaso dal terrore come egli stesso scrive: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Quell’urlo colpisce chi guarda l’opera e vi legge una condizione di vita reale: l’indifferenza e l’alienazione. Le due figure che appena s’intravedono lungo il ponte, non comprendono lo stato d’animo dell’amico, anzi ne sono estranee e si allontanano. La bocca spalancata sembra emettere dei suoni che sconvolgono il paesaggio, con le linee curve e i colori forti, espressioni dell’interiorità stessa dell’uomo, il tutto accentuato dal volto deformato come un teschio e dal corpo apparentemente privo di colonna vertebrale. La funzione comunicativa è fortemente espressiva. La forma, le linee, i colori, tutto risponde a precise connotazioni simboliche; l’uso della luce dà immediatezza alla scena rappresentata e dà l’impressione di una fotografia che coglie l’evento nel momento più drammatico.

Ambedue, da piccoli, furono colpiti da numerosi lutti familiari; un dramma che Munch esprime mediante l’uso di colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate e Pascoli con l’uso di una scelta lessicale inusuale. Il rapporto di Pascoli con Munch si coglie nella capacità di rappresentare in sincronia con la parola e i colori l’esistenza cupa dell’uomo che grida al mondo la sua angoscia. Quel grido diventa in entrambi voce, singulto, lamento, pianto, disperazione… Pennellate infinite, colori pastosi, strade senza meta; una solitudine che si spegne nel grido di dolore informe. I colori sono per Munch ciò che la parola, l’iterazione dei termini, l’uso costante dell’aggettivo sono per Pascoli. Una pittura e una poesia di forte impatto emotivo, capaci di indurci a un’indagine speculare su di noi, sull’uomo e sulla realtà che ci circonda.

 

Anna Lanzetta


Foto allegate

Edvard Munch,
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