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Gianfranco Franchi. Pagano
05 Settembre 2007
 

Gianfranco Franchi

Pagano

Edizioni Il Foglio, Piombino 2007, pagg. 150, € 10,00

 

Pagano è la risposta a una serie di domande. Come vivono gli intellettuali del nostro tempo? Qual è la condizione dei letterati onesti, nella popolosa giostra dell’industria culturale? Qual è il ruolo giocato dallo Stato e dalla morte della patria nelle vite degli intellettuali e dei letterati postmoderni? Quali sono le reali condizioni contrattuali proposte dalle aziende agli umanisti, e a quale prezzo si può conquistare autonomia e indipendenza? Che senso ha studiare storia quando la storia d’un popolo non è più condivisa da mezzo secolo abbondante? Che significa “espressione del territorio”? Cosa rimane, infine, d’una generazione già vecchia a trent’anni, scavalcata da cambiamenti epocali, frastornata dall’impossibilità di diventare adulta, costretta soltanto a conservare? Pagano è il credo di chi è estraneo alla corruzione e alla decadenza, e non vuole smettere di combattere. All’ultimo sangue.

 

«Pagano è una Vita agra dei tempi moderni. La storia di un intellettuale che vive sulla propria pelle tutto il disagio di chi è costretto a campare con lavori interinali e contratti di collaborazione, precario a vita. Franchi s’incazza ripensando ai sessantottini che dicevano di voler cambiare il mondo mentre davano del fascista a chi non la pensava come loro. Adesso gli eredi di tanti estremisti si sono imborghesiti nei diesse per regalare ai giovani soltanto speranze precarie. Pagano è un antiromanzo anarchico, politico quanto basta ed esistenziale, che racconta la formazione di un uomo alle prese con le sconfitte della vita. Pagano è un’invettiva lanciata da un’isola che non si lascia popolare, un invito a ragionare tenendo i televisori spenti, un sogno fantastico da non lasciare perduto. Pagano è la storia di ognuno di noi. Basta avere il coraggio di andarla a cercare». (Gordiano Lupi)

 

«Antiromanzo, certo, ma anche summa di tutta la letteratura passata e anticipazione visionaria di quella che verrà, nel suo sotteso scoramento raccontato con uno stile superbo, Pagano ci scuote dal nostro piccolo torpore polveroso, e ci scuote con uno schiaffo. Anzi. Con una serie di schiaffi e di accerchiamenti. È bellissimo ed è anche terribile, è il nostro tempo precario appeso a un filo già mezzo tagliato rivisto attraverso il caleidoscopio non consolatorio di un letterato che ha fatto sue le considerazioni di Samuel Beckett sul fallire e sulle rovine. (…) Questo è un romanzo che solo un miope, un prevenuto, un corporativo consorte di qualche potentato d’accatto non può non riconoscere come fondamentale. A che cosa, a quale tempo (e a quale ritmo) può essere solo il lettore a dirlo, come sempre, quando si parla di letteratura, come sempre quando un libro ha iniziato il suo viaggio (o meglio il suo camminare sul filo, il suo volo obliquo, il suo arrancare, il suo pellegrinaggio, o anche messa a nudo, apoteosi, preghiera laica, esaltazione, via crucis di soste e attese, telematiche risoluzioni e presidi di amici, di estimatori silenziosi e attoniti, esattori di rimasugli incancreniti dei frantumi passati, detrattori ammutoliti, sudori, pacche sulle spalle, mani che agganciano, sudore, sangue e altra scrittura, subito, tutto in agguato). Licenziate (pre)giudizi e conformità alle scenografie del banale e tenete caro questo libro dopo, come vi ho suggerito, almeno una seconda lettura». (Francesca Mazzucato)

 

«La tesi avanzata in Pagano urla di fatto che il re è nudo. Afferma niente meno che l’Italia non ha più unità, se mai ne ha avuta una è proprio quella paventata da Pasolini, edonista, subculturale, intimamente fragile perché partorita esclusivamente dalla televisione e dai consumi. E sostiene che in fondo gli italiani sono un’affatturazione mal riuscita, diciamo pure che non esistono, mentre esistono il territorio, il dialetto, i cento campanili, il mosaico dei quartieri-paese (ciascuno con il suo genius loci?). Con naturale perspicacia rafforzata da incursioni forse rare ma azzeccate nella storiografia, Franchi coglie e addenta il cuore del problema. E i suoi morsi fanno male. Ha capito perfettamente cioè che gli italiani non si sono più ripresi, non hanno più trovato una profonda identità collettiva dal tempo di quella guerra civile che ha lacerato l’Italia nel 1943-45 e, non a caso, è stata poi a lungo bandita dalle memorie ufficiali» (Patrick Karlsen)

 

 

Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), detto Lankelot, ha pubblicato libri di poesia: L’imperfezione – Opera III (2002) e Ombra della fontana (2003) e narrativa: Disorder (Il Foglio Letterario, 2006). È stato coordinatore di due riviste letterarie universitarie, Ouverture e Der Wunderwagen, tra 1997 e 2003. Dal 2003 è responsabile del portale indipendente di comunicazione e critica letteraria e dello spettacolo Lankelot.eu, dove scrive recensioni di libri, film e dischi. Vive a Roma. Collabora con diverse testate, web o cartacee.


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