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Ricordando Ezio Raimondi con Franco Patruno 
“Con il libro si dialoga: gli si chiede un aiuto, una risposta, una conferma”. Un'intervista del 1998
19 Marzo 2014
 

   

 

È morto martedì 18 marzo, al Policlinico Sant’Orsola dov’era ricoverato il grande italianista Ezio Raimondi (foto). Avrebbe compiuto novant'anni sabato prossimo. Era nato a Lizzano (Bologna) come Enzo Biagi, ma fin da bambino ha abitato a Bologna in quella via del Borgo raccontata nella sua autobiografia, dove il padre svolgeva il mestiere di calzolaio, e poi, da adolescente, in via Mascarella.

Con lui ha studiato Francesco Guccini.

Riportiamo qui la bella intervista di don Franco Patruno fatta nel 1998 per SAT200 e per l’Osservatore Romano. (mpf)

 

 

 

Già dall’atrio dell’appartamento di Ezio Raimondi s’intravvedono i libri. Ho usato l’articolo perché il libro in quella casa ha forti valenze simboliche e “si rivela come qualcosa di vivente, si fa segno di un altro, diventa un volto”, come mi confermerà lo stesso Raimondi quasi citando una pagina di Conversazioni, la sua ultima fatica o, se non si vuole usare questa ovvia retorica frase, il suo diario, quasi una biografia che ha, come indicativa spia tematica, “Una speranza contesa” come sottotitolo. La gentile consorte dell’illustre ed accademico critico letterario è sicuramente meno convinta del significato mitico del termine, soprattutto quando, oltre il faticoso ordine dei libri che ci attorniano nel soggiorno, mi invita ad un percorso meno scontato: una stanza che definire assiepata di volumi è far torto ad ogni bibliotecario che invoca aiuti dall’alto per guadagnar spazi in orizzontale ed in verticale, con possibili trasversali ed oblique soluzioni di ripiego. Eppure, questo proscenio vorticoso di cultura (che sembra dipinto da un fiammingo amante del microcosmo lenticolare), ha un suo ordine, come mi conferma Raimondi con l’inciso categorico «dell’ordine ricostruibile da chi conosce la genesi dell’intreccio, in una globale visione d’insieme dove, citando Flaubert, il buon Dio si nasconde nei particolari».

L’introduzione non poteva essere delle migliori: «Il libro» continua lungo lo stretto corridoio di ritorno «è un volto, rivela un mondo ed è memoria viva che riattualizza le presenze». Una passione, quella per il libro, che non nasce dal gusto civettuolo per la pagina o per l’esibizione fatua di patiti dorsi; quando Raimondi rivive le prime esperienze della lettura si ha l’impressione che questa appartenga ad un mondo più ampio o sia l’epifania di un incontro che dalla singolarità dell’individuo si allarga alle relazioni comunitarie sino a costituire quello che per il pensiero tedesco, tanto da lui studiato ed amato, si chiama “mondo”, cioè lo spazio esistenziale che ingloba l’ambiente e tutte le possibili atmosfere dell’umano. «È veramente una realtà vivente perché si fa segno di altro» continua «allora con il libro si dialoga come se ci si vedesse con qualcuno cui si chiede un aiuto, una risposta, una conferma». Non tardo a riconoscere accenti personalistici in queste dichiarazioni non solo di poetica ma di ermeneutica non puramente formale; accenti evidenti che ho ritrovato in una sua citazione di Péguy, quando parlava del compito terribile del lettore di portare quasi l’opera al suo compimento. Le intuizioni degli artisti spesso precedono le teorie sulla ricezione letteraria. «Spesso il testo diventa un individuo immaginario, tipico, che si costruisce in noi in assenza della conoscenza personale dell’autore. Si vorrebbe che l’autore fosse speculare a questo testo-individuo, ma non sempre è così».

Trovo corrispondenze tra ciò che Raimondi dice ed una critica d’arte che non si fermi solo al dato semiologico: in assenza di una biografia l’opera rivela un mondo di cui non sempre l’autore è esplicitamente consapevole. Faccio allora appello alla sua formazione. Raimondi è un ottimo rievocatore, perché non si richiama solo alle docenze prestigiose di Calcaterra e Longhi, ma alla sua infanzia e alle radici popolari della cultura respirata nella famiglia. «Mia madre veniva dall’Apennino, da Lizzano in Belvedere, ed era di una natura radiosa, aperta a tutti e a quella che oggi chiamiamo solidarietà». Ricorda poi l’ambiente sociale e religioso dei suoi primi anni e mi colpisce per un accenno incisivo alla naturalezza nell’aiutare gli altri: «Anche se il mondo dei miei genitori e della mia giovinezza poteva apparire non strettamente cattolico, era intriso di spirito cristiano. Anche nell’asilo doposcuola la condivisione era, ripeto, naturale, il sacerdote era un punto di riferimento anche per chi proveniva da una solidarietà socialista». Raimondi sembra orgoglioso del «cristianesimo appenninico della madre» che lo aiuterà a percepire, anche se in una prospettiva più strettamente culturale, il servizio pedagogico all’università con quel tratto sincero e assolutamente non formale che, non credo di sbagliare, gli veniva anche dallo studio del Manzoni e dalla tradizione che, quindi, si rifaceva a Rosmini. È recentissimo un riconoscimento nazionale della sua conoscenza manzoniana. Avevo da poco letto alcune sue acute pagine di antropologia letteraria sul grande poeta milanese nelle quali parla di «ethos popolare, pronto allo stupore non meno che allo sdegno». Mentre Raimondi descrive con partecipazione gli anni della sua formazione giovanile, ricostruisce il passato con visibilità cinematografica. È un invito a nozze per il sottoscritto ma, me ne accorgo subito, anche per lui: «Io andavo al cinema con mia madre quasi tutte le sere, spesso vedevo anche tre film alla settimana. Anche quando mi appassionai alla bicicletta, con quel mezzo andavo al cinema». È quasi felliniano nel ricordare l’Arena del Sole, il Rex, l’Odeon e il Regina, qualcuno dei quali ancora in piena attività. «Il mio ricordo di quel periodo è chiaramente segnato dal Neorealismo di Rossellini e di De Sica, da quell’ethos di entusiasmo non retorico nel far rivivere nel cinema lo sforzo della ricostruzione nazionale. Ancora oggi mi meraviglio della quantità di film visti! Era un mondo, quasi un modo nuovo ed originale di partecipare agli eventi». Tra l’allora poco costoso andare al cinema e le voraci e personali letture, il giovane Raimondi costruisce velocemente e precocemente un telaio di intersezioni tra mondo della visione cinematografica, arte e letteratura. Tra Calcaterra e Longhi – domando – non c’è stato un conflitto vocazionale? Rimane un attimo in silenzio, perché scegliere tra le due strade doveva essere stato doloroso. «Longhi» riprende Raimondi «era un magistero grandioso... ma lo sentivo lontano, come appartenente ad un mondo diverso. Eppure Arcangeli mi sollecitava a fare la tesi con lui. Ma c’era un sentore di società raffinata che mi allontanò da una scelta che, però, io desideravo intensamente». Mi ero annotato una bella pagina di Conversazioni con questa confessione: “A volte la cosa che si desidera di più e anche quella che fa più paura”.

La scelta fu per un grande come Calcaterra, verso il quale, anche se più tardi, ebbe un rapporto intenso e, se posso permettermi l’osservazione, meno legato ad un clima che non gli era congeniale. Ma di Longhi ha sempre ammirato la creatività di un linguaggio e l’invenzione di termini nuovi per esprimere la profondità dell’arte.

Ricordo a Raimondi che Mario Luzi, in un recente incontro che ebbi con lui, parlando dei grandi “dicitori” lo citò proprio accanto a Longhi come uno dei «più felici organizzatori del pensiero». Di questa “felicità”, gli faccio notare, erano soprattutto convinte le generazioni che hanno avuto la fortuna di averlo come maestro, spesso in situazioni di affollamento delle aule universitarie della facoltà di magistero prima, poi di Lettere e Filosofia nella cattedra prestigiosa dell’ateneo bolognese. Raimondi, per tutta risposta, si sofferma su un dilemma estetico sull’ordine dell’opera e nell’opera che, naturalmente, può essere esteso anche alla retorica dell’enunciazione: «Non è detto, e lo dissi un giorno anche a Maria Corti, che un’opera per essere bella debba essere sempre ordinata. Un certo disordine suppone la creatività, l’ulteriorità e l’apertura». È una vera e propria dichiarazione di poetica; ma mi sembra contraddittoria sulle labbra di questo «finissimo organizzatore della parola», come aveva detto Luzi. Raimondi avverte il problema, ma afferma che «...anche per san Tommaso l’unità, l’integrità e lo splendore suscitavano aperture. Il disordine di cui parlo è un fatto estetico, ma spesso può coincidere con trasgressioni che favoriscono l’ulteriorità della scrittura. Anche nelle mie lezioni all’università mi son sempre preoccupato di non precludere aperture». L’antidogmatismo di Raimondi ha radici nella profonda conoscenza del pensiero tedesco ed anglosassone, con intersezioni tra filosofia e letteratura. Gli faccio notare che le Intersezioni della casa editrice Il Mulino sono da lui ispirate: una vera vocazione a stabilire rapporti, quindi. «Il Mulino è stato il punto di riferimento fondamentale della mia vita. Il contatto e la continua conversazione con diversissime espressioni della ricerca storica, filosofica ed artistica è stato per me determinante. Con tutti i conflitti, naturalmente anche economici, che ci son stati, è stata una vera e propria scuola formativa ed anche di intense amicizie». Mi parla dell’ispirazione dossettiana di alcuni progetti, ma soprattutto la fine disponibilità di un discepolo di don Dossetti, Pedrazzi che «...aiutò l’impresa non solo con le parole e con le proposte culturali, ma anche con una generosità personale che non potrà essere dimenticata». In periodi di conflitto ideologico, Raimondi sperimentò il coraggio del colloquio non salottiero, ma ricco di confronti culturali. Avverto il significato nobile e non ideologizzato del suo modo di intendere la cultura. Un modo che mi ricorda non solo il Concilio Vaticano II, ma anche lungimiranti figure che, soprattutto a Bologna, avevano anticipato i tempi anche in campo cattolico. Anche quando rievoca gli anni vissuti da universitario e da giovane docente, ricorda personaggi divenuti celebri nel mondo studentesco ed educatori come padre gesuita Flick: «La Fuci e le Congregazioni Mariane erano vivacissime allora. Padre Flick era un aggregatore preparato e lungimirante. Oggi si direbbe che era un carismatico». Erano anni di possibili scelte marxiste – insinuo – e di nette contrapposizioni. Raimondi mi risponde ricordando gli anni del Mulino e di come, pur provenendo da un universo non borghese, fu proprio l’idea di cultura che gli impedì di aderire agli assolutismi della visione materialista e dialettica della storia. Non c’era bisogno, a dire il vero, di questa conferma: tutta la sua produzione critica è implicitamente contraria non solo al determinismo marxista, ma anche a quelli di ispirazione idealista. «La mia formazione con Calcaterra mi inserì, cosa consueta in quel periodo, nell’area cattolica. Io avvertivo che ciò era vero, ma mi spaventavano gli schematismi da facili contrapposizioni. Il mio cristianesimo, in un periodo molto ‘gridato’ e di manifestazioni di massa, tendeva a farsi interiore, tendenzialmente solitario». Non voglio premere su questi aspetti che rischiano l’invadenza clericale; ma Raimondi stesso mi cita una splendida pagina delle sue Conversazioni: «Sono stato un poco come il pubblicano, sempre in fondo o da una parte, non volendo mai che la profondità si confondesse con i rapporti esterni». Trovo commovente quanto aggiunge: «A modo mio, non volendo comunque mai premere sulla voce, ho serbato un abito che chiamerei di discreto rigore, cioè di rigore che non si afferma ma che su alcune cose vorrebbe essere intransigente, legato ad un’idea di serietà profonda, a cui si aggiungano l’affetto e il calore umano».

La discrezione di cui parla Raimondi è legata al senso della scrittura come interrogazione, come vocazione a ciò che è implicito: «Anche il libro sacro per eccellenza non finisce con una affermazione, ma con un’invocazione, un’interrogazione». Questo, gli faccio notare, rende difficile catalogarlo con facili schemi all’interno della storia della critica: la sua attenta e profonda interpretazione dei testi, pur utilizzando diversi “punti di vista” e mettendoli spesso in atto, non si lega ad essi. Formalismo? Contenutismo? Semiologia? Sono domande legittime e l’indagine di Raimondi non le esclude, anzi, le ripropone in una rielaborazione personale che chiamerei più fenomenologica, come urgenza di una lettura senza pregiudizi, ma inserita nel flusso delle riflessioni che da Gadamer si estendono a Ricoeur e all’universo metaforico del pensiero e del linguaggio. Sembra, e non credo sia una interpretazione forzata, che la Bibbia rappresenti un sistema letterario “tutto legato insieme”, come mi conferma lo stesso Raimondi citando Newman. «La metafora stabilisce delle relazioni, perché mi è capitato di trovare il volto delle parole, un volto nuovo e individuale, un volto che resta e che non può venir meno. Il Barocco mi ha insegnato che i volti son sempre diversi, non ve ne sono due uguali, anche se nel volto è incisa l’essenza dell’umano». Comprendo che la metafora del volto, tanto cara a Lévinas, non può non stabilire relazioni. Ma il senso dell’insondabile, non inteso, come diceva Marcel, solo come “problema” ma come “mistero”, scaturisce dall’agostiniano “desiderio”. «Desiderio» continua Raimondi «è l’anelito del non ancora. La metafora instaura una dimensione ulteriore nel testo. In questo c’è una prospettiva implicitamente aperta alla dimensione non deterministica della religione».

Mentre parla, il linguaggio, sempre accompagnato dall’entusiasmo misurato del gesto, è di grande giovinezza. Provo a dimenticare, se possibile, che il colloquio è con uno dei maestri della critica italiana del nostro secolo, da poco, si fa per dire, in pensione. Non ho affrontato il tema “caldo” della parte finale delle Conversazioni, cioè il suo sentirsi sconfitto da una istituzione come l’Università che, malgrado il suo dialogico sforzo non è riuscita a creare una nuova convivenza. Il corsivo è proprio suo. «Ho cercato di usare il potere accademico per diminuirlo... è troppo facile usare le persone come pedine e merce di scambio». Questa sincera dichiarazione rischia di creare un po' di mestizia: ho afferrato al volo ciò che Raimondi vuol dirmi; lo assicuro che tutti quelli che l’hanno conosciuto, anche indirettamente, possono testimoniare della verità delle sue parole. Ricordo pure che Alberto Asor Rosa, ben lontano da Raimondi come prospettive critiche, mi confermava dello splendido rapporto tra Raimondi e i suoi alunni, alcuni dei quali, come Alberto Bertoni, diventati discepoli autentici, perciò, ma non è paradossale, autonomi. Gli ricordo l’episodio evangelico della tristezza di Gesù per un solo miracolato che lo ringrazia, ma rischierei un finale da melanconia düreriana.

 

«Secondo mia moglie dovrei mettere a posto tutti libri della mia biblioteca. Ma non ci riesco...» Mentre ci alziamo per rivedere quel fondale barocco di libri che tanto mi ha suggestionato, intravedo una sequenza fotografica con la figlia. C’è tanto affetto in quel quadro, ed è grande pure quello della moglie che, mentre mi saluta, non intende creare alibi al marito: «Spero, don Franco, che lei non abbia mitizzato quell’ammasso inconsulto di libri!».

Lo confesso: l’avevo fatto.

 

Franco Patruno

01-02/06/1998


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