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Patrizia Garofalo. Appassionata arringa di un poeta sulla spiritualità dell’imperfezione
02 Maggio 2013
 

Tutto ciò che è terribile, o che riguarda oggetti terribili, tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, è una fonte del sublime

(Edmund Burke)

 

 

Il registro stilistico di Pietro Federico, procede ritmato secondo le modalità della “ballata”. Sono proprio le radici profonde dell’antica tradizione ad innervare il contenuto e ad impedire al pathos del poeta, empatia e consonanza ai versi di Wilde, di debordare oltre lo spazio della pagina.

Eppure questa com-prensione, nonostante il bilanciamento della forma, si snoderà ossimorica e trascinante vena pulsante sia nell’introduzione sia nella traduzione del dolore e della spiritualità di Wilde nel buio prima della rinascenza.

Il poeta Pietro Federico metterà maieuticamente a nudo i luoghi comuni, i perbenismi, le accuse, le maldicenze restituendo «la complessità e l’irriducibilità della figura dello scrittore irlandese che ossessivamente cercò e amò la bellezza». Una ricerca che aveva sempre pensato di poter gestire. Un tronfio-trionfo dell’ego, suggerisce Pietro Federico, fu quello con cui fare i conti negli ultimi anni dell’esistenza dentro una maleodorante cella. Una pericolosa e morbosa discesa aveva trascinato in basso quell’aspirazione alla bellezza, le aveva tolto il sorriso dell’eternità, della giovinezza, della luce e condotta negli abissi. «Quel profondo affetto spirituale, che è puro non meno che perfetto» si era vestito di nevrosi, degradazione negando la fisica trascendenza che aveva sempre accompagnato gli incontri, le relazioni, gli amori di Oscar Wilde.

Il pugnale che Dorian Gray aveva scagliato contro il quadro ormai deturpato dalle sue miserevoli azioni, sembrava aver ristabilito l’equilibrio della vicenda umana. Quella consapevolezza però era ancora momento di un’arte che non aveva conosciuto il Golgota, l’altrui sofferenza, l’umiliazione consapevole di sé. Pietro Federico indaga con passione, rapisce lo sguardo di Wilde «teso al fondo fangoso delle sue colpe» e lo sublima nella luce della lettura dei primi libri che gli concessero in carcere, la Divina Commedia e la Bibbia e «una manciata di altri testi che affondavano la loro visione nella contemplazione della bellezza e nella contemplazione di Cristo».

È in questa ottica, l’intenso e originale accostamento tra Dante e Wilde:

Non ho mai visto un uomo che guardasse

con occhi tanto inquieti

nell’alto del breve rettangolo azzurro

che i detenuti chiamano cielo,

e nel vento la deriva delle nuvole

come gonfie vele d’argento. (Oscar Wilde)

 

Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, l’altra parte nera,

quando Beatrice in su il sinistro fianco
vidi rivolta a riguardar nel sole
aquila sì non lì s’affisse unquanco.

La novità del suono e ‘l grande lume
di loro cagion m’accesero un desio
mai non sentito di cotanto acume.
(Dante)

Che lo sguardo verso l’infinito nasca dalla profondità di un inferno terreno, scaturisce dalla icasticità dantesca, dalla plasticità scultorea della Commedia ed illumina gli sguardi del carcerato C3.3 (Wilde) e del condannato a morte verso il cielo in una triangolarità di singolare potenza.

Non ho mai visto un uomo che guardasse

con occhi tanto inquieti

nell’alto del breve rettangolo azzurro

Versi questi che si ripeteranno molto spesso nella ballata conferendole quasi una connotazione gnomica e catartica. E il sé, l’altro, l’infinito si coniugano in un estensione atemporale di rinascenza. In celle dove il tempo dissangua anche un minuto in secoli d’attesa, nella penetrazione del dolore, nei muri scavati, rugosi, putridi avviene quella redenzione che spinge all’amore, a bere l’aria a sorsi, ad aspettare senza paura il vuoto nel quale pencoleranno i corpi. E gli occhi saliranno a respirare il cielo, cercheranno la luce, piangeranno la nostalgia, saranno girone infernale e vita e carne e speranza e resurrezione. Ho titolato “appassionata arringa” lo scritto di Pietro Federico e appassionata in verità arriva al lettore la sua parola di poeta che non solo restituisce a Wilde grandezza e modernità e com-passione ma prosegue senza demarcazione dall’introduzione alla traduzione della ballata, sempre più corposa, tattile, consapevole e svela il palcoscenico della commedia umana insieme alla sua sublimazione.

 

Patrizia Garofalo

 

 

Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading

Testo inglese a fronte

Prefazione, traduzione e note di Pietro Federico

Giuliano Ladolfi Editore, pp. 86, € 10,00


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