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Dalila Pala: Auguri festività.
Dalila Pala
Dalila Pala 
30 Dicembre 2009
 

Gentile Claudio Di Scalzo, Le invio i miei “Auguri Festività”...  Celebro la piacevole complessità dell'esistenza attraverso le parole che nei loro intensi sensi spesso riescono a rendere aldilà del volere che le dispone... ogni aspetto d'evento ha un “significato”, persino l'eventualità, ed è la ricerca costante di questo elemento che compone i miei respiri, a permettermi di sentirmi ogni giorno viva e libera... Quanto prima provvedo a farle avere altro materiale: non realizzo recensioni per una folle ossessione di lasciare alle opere stesse di ricomporsi nel loro significato nell'intimità della creatività fantastica dei lettori. Però in compenso scrivo, o quantomeno cerco di tradurre in parole i miei pensieri e le mie scoperte circa il “problematizzare” della vita... e scrivo da quando ho imparato ad “associare” e porre in relazione tutto, un po' come mettere in discussione ogni certezza per potermi ricreare costantemente nascendo in ciò che trovo e che a me si nasconde.

Un caro saluto dalla Sardegna... Dalila Pala

 

 

Auguri festività

 

A quelle persone che hanno diversamente attraversato la mia vita, con la speranza che l’equilibrio che vi suggerisce la vostra ragione in accordo col vostro cuore vi permetta di immergervi in queste giornate con lo spirito più sereno che si possa desiderare, aldilà di ogni credo, orientamento politico o sessuale, vi volevo porgere i miei più sentiti Auguri per le feste che sogliono arrivare: Natale, Capodanno e Epifania.

  

A questo augurio faccio seguire alcuni pensieri che siete liberi di leggere o di tralasciare, ad ogni modo il mio caldo augurio è sempre valido e spero efficace nel suo onesto vagare.

   

Le feste ci costringono ad entrare in maggiore patimento con noi stessi, inevitabilmente, sarà per il dover sapere cosa piace agli altri che la finiamo a chiederci cosa invece faccia piacere a noi stessi in quello che ci ritroviamo ad avere tra le mani; e poi “Cosa sono i regali”? A volte mi pare che siano una moneta con cui prorogare l’affitto del cuore di qualcuno come se quello crescesse o si potesse palesare materialmente con qualche oggetto: d’altronde siamo noi a monetizzare ciò che con lo sguardo possiamo sfiorare, ma a ciò che non possiamo vedere quale valore possiamo attribuire? Spesso non ci va di ascoltare il cuore, molti non sanno nemmeno di averne uno, altri per proteggersi si abituano a discordare da questo, e così ogni valutazione diventa meramente razionale, come se si potesse misurare l’effetto di ciò che si vuole donare... un compromesso tacito che sta a richiamare alla memoria un interesse colmo di dubbi di utilitaria costrizione. Così il dono più caro, più bello, il migliore, è quello fatto con quella porzione di noi stessi che si astiene dal calcolare o dall’amare, e che oggettivamente si rivolge agli altri non per stordirli di piacere, non per atterrirli di egoismo, ma solo per accendere un curioso e reciproco interessamento: a volte si tratta di sguardi, di tempi condivisi, di attenzioni, di cognizione dell’altrui desiderio e gusto, di piccoli gesti sommati, che vengono in mente in un unico momento in cui il ciò che si vuole donare si accorda col volere di chi riceve. Il regalo sostanzialmente non è dare, ma darsi in ciò che si porge: il regalo parla di noi e dell’altro ed è per questo che non è concretizzabile con un oggetto. Le feste non dovrebbero richiamare l’attenzione di persone disinteressate, né appianare diverbi con un falso sorriso temporaneo di convenienza, non dovrebbero ricordarci che a volte è umano lasciarsi soggiogare dalle speranze, dai sogni, dal desiderio di completezza e condivisione, questa dovrebbe essere la quotidianità di chi dovrebbe aver capito che la vita è quello sciabordio di eventi che forgiano ogni rapida esistenza che vinta ogni umana resistenza pervade chi la rincorre sradicando certezze e affezioni. Ci sono molte questioni da snodare quando si ha il tempo di pensare, di prospettare dei bilanci sul rendiconto annuale del nostro vissuto o quantomeno di ciò che abbiamo dato, ricevuto, avuto, perduto, amato, odiato, abbandonato: è un arduo affinare la mente verso ammissioni scomode e strette che sebbene dicano di noi qualcosa di tremendamente vero, ci incutono un timore così acceso da farci rifugiare nella finzione che in fondo “stiamo bene così”, ma è il margine labile di questo così che ci divora dentro lacune di tormento d’assenze cui non abbiamo voluto dare un nome. Eppure tutto è illuminato, la gente schiamazza velocemente macchiando l’aria di idee e sorrisi, intrisi di pioggia e neve, che non ferma comunque chi sa che deve erigersi a sogno realizzato di qualcuno. Pensare agli altri ci permette di prendere una sosta da noi stessi, volgiamo lo sguardo verso chi abbiamo nella lista dei cari, e cerchiamo di ricordare qualcosa che riguardi queste persone, e talvolta cacciando la mano al portafoglio siamo costretti a dare un valore monetario a quei nomi, la relazione tra sacrificio e guadagno, il solito do ut des. E ci passa per la mente tra i tanti volti in rassegna, quello di chi non avendo da noi ricevuto niente ci ha dato tanto, e andando a tastare quel tanto ci accorgiamo che in definitiva non ha collocazione materiale, eppure lo serbiamo nel cuore e lo portiamo avanti ogni giorno nel sacco della nostra memoria. Il “chi” dei regali che hanno più valore non è noto alla nostra ragione, che per una questione di comoda tranquillità l’ha relegato in un antro dell’inconscio che riaffiora solo nella solitudine di qualche libero momento di meditazione incondizionata.

Guardiamo agli altri per nasconderci a noi stessi, al fatto che se amiamo le feste è perché vogliamo ancora costruire qualcosa con lo spirito comunitario con cui ci hanno incantato, al fatto che se le odiamo non è per il consumismo né per l’ateismo ma solo per la solitudine immane che ci ricordano ed in cui ci gettano mentre tutti hanno qualcuno cui augurare con sincera verità del cuore “Buone Feste”, e noi stiamo li ad osservare e denigrare.

Guardiamo a noi stessi per evitare di palesarci agli altri coi nostri difetti, vorremo sembrare il nostro abito migliore, come se le danze fossero aperte ogni giorno della nostra vita, ma la verità è che spenta una luce su noi si disfa quel trucco e ritorniamo ad essere soli con noi stessi avidi di quella libertà che ci fa sentire in pace senza dover rendere conto a nessuno delle nostre diversità.

Chiediamo perdono e pretendiamo scuse, avvolti da un costante egoismo di fondo, come se le parole potessero mettere fine ai rimorsi di coscienza o alle rotture che hanno lacerato il cuore, la mente e l’orgoglio delle persone alle quali si è inferto un duro colpo o dalle quali lo si ha ricevuto: l’unico perdono e l’unico aiuto che possiamo ricevere è disseminato nell’esame del nostro percorso, se abbiamo sbagliato, capire il motivo, se ci hanno ferito scoprire il modo per non soffrire più, se ci hanno offeso pesare il valore del pronunciato e agire; e pare che nelle feste questa finzione di perdonare e essere assolti, funzioni meglio, come se il bisogno di cercare conforto in una casa più popolata per fuggire alla desolata solitudine dei giorni alterni, riuscisse a funzionare come pretesto per inibire il nostro orgoglio ed accettare per qualche ora di compagnia fittizia di aver superato l’ostacolo. E non c’è cosa peggiore che servire in una mensa il bisogno della compagnia agendo in modo costruito per non determinarne la fuga. La cura è liberarsi dal bisogno degli altri: per loro rispetto accettarli come sono o allontanarli da noi per quello che potrebbero utilitaristicamente diventare; abbracciata la condizione solitaria in cui si nasce, avvicinarsi alle persone e godersi ogni loro aspetto per solo piacere: quando non hai bisogno di stare con qualcuno per dover colmare il vuoto di solitudine che alberga in te, puoi scegliere con chi completare le tue assenze interiori per puro piacere con l’unico vincolo della fedele veridicità di questo reciproco scambio di esistenza.

E Piacere non è una mera fruizione di corpi istantanea, ma è immergersi nel pieno diletto dell’altrui essere mentale, sentimentale, fisico per cogliere la terribile bellezza della diversità adatta a colmare la lacuna che in noi richiama: è un riconoscersi affini per dissomiglianza.

  

Le feste dovrebbero aldilà del credo da cui derivano, aldilà della logica politica che riempie le tasche o le svuota di chi le vive, aldilà dell’orientamento sessuale delle persone che colgono questa buona occasione per manifestare liberamente e in modo universale il loro amore (che non ha forma né colore), richiamare all’attenzione come esempio ciò che dovrebbe essere fatto ogni giorno: coltivare gli affetti scevri da utilità incombenti, donarsi e rapire degli altri qualcosa che ha a che fare con quel sapere che ci permette di crescere come persone migliori, accompagnare chi per noi ha valore ad ogni passo di gioia o dolore non per il bisogno di vagare con qualcuno per il mondo ma per il piacere di condividere con diversi sguardi che si completano la stessa visione e per sorreggersi vicendevolmente quando le forze vengono a mancare specie quando si è troppo orgogliosi per domandare aiuto ma così umili da lasciarsi sollevare.

Abbiamo sempre qualcosa da farci perdonare, a volte si tratta di assenza, altre volte di indifferenza, altre volte di incomprensioni, e le parole non possono tutto, specie perché se non hanno un riscontro materiale difficilmente chi le riceve ad esse si può affidare: quindi ho fatto in modo che queste parole non volassero soltanto, ma venissero incise attraverso i mezzi che il mio evo mi offre per potervi raggiungere: è un modo come un altro per potervi abbracciare tutti nell’unico modo che conosco e che considero di valore più di ogni altra cosa.

Con Affetto e con la Speranza che possiate trascorrere queste festività con l’amore in cui credete, con l’affetto di cui disponete, con qualsivoglia piacere che vi possa soddisfare...

    

Vorrei potervi esprimere un caro augurio per l’anno che viene, affinché possiate chiudere in bellezza quello appena trascorso e abbiate la voglia ed il coraggio di vivere il nuovo con intensità, passione e devozione nei confronti della vita.

Il valore di ciò che viviamo non ha misura né contenitori, non ha paragoni ne possibilità di eventuali ripetizioni, difatti ciò che è stato non ritorna ed in questo si sostanzia la dualità del nostro bisogno: per molti la fortuna sarebbe andare avanti per altri sarebbe ripercorrere gli eventi per poter dar loro un senso diverso. Eppure nel vissuto è presente un miracolo latente...

Non consideri un miracolo il dolore se ti è possibile aiutare qualcuno offrendogli il tuo sapere per creare gli strumenti idonei a poterlo arginare?

Non consideri un miracolo il dover passare del tempo se ti è possibile trascorrere ogni istante nella ricerca di qualcosa che ti renda appagato di questo consumarsi inevitabile?

Non consideri un miracolo l’impossibilità di taluni obiettivi se ti è possibile utilizzarli come limite per indirizzare la tua condotta e migliorarti?

Non consideri un miracolo la consapevolezza se ti permette di venire a conoscenza di verità terrificanti che inducono la tua speranza ad essere più reale e selettiva?

Non consideri un miracolo poter percepire con tutti i sensi la tua esistenza se ti è possibile con ciascuno di essi raggiungere l’apice nell’altalena di sofferenza e gioia senza sentirti mai arrivato?

Ci sono “altrove” in questo “qui” universale che ci accoglie dove non è possibile alzare lo sguardo per vedere quale direzione i passi stanno seguendo perché il fucile di una severa cultura ha segnato per loro percorsi inestricabili ed incontrovertibili, dove non è possibile fiutare il profumo del pane la mattina perché l’aria è inondata di cenere di macerie e di corpi, dove non è possibile gustare nient’altro che l’amarezza della costrizione dei vincoli sociali, dove non è possibile ascoltare il fruscio del proprio respiro per la necessità di affinare l’orecchio al tintinnio costante di ferraglie distruttive da cui si deve scappare, dove non si può sfiorare la bellezza della scelta ma si deve porgere la mano alla catena della tirannia della persecuzione.

La fortuna è una condizione in cui molti nascono e pochi sanno di vivere, per l’inconsapevolezza di ciò che posseggono ed a cui appartengono: possiamo pensare perché non siamo logorati dallo sciabordio delle armi e non siamo affaccendati a doverci nascondere, possiamo migliorare il nostro sapere privandoci della sopraffazione dell’avere e dell’omologazione, possiamo amare perché non siamo vincolati al costume di un vincolo sociale che ci impone di materializzare i nostri affetti, possiamo essere liberi nella convinzione che non si debba mai smettere di pretendere di lottare per potersi affrancare dal bisogno di una catena materiale.

Ed anche se a volte il nostro vissuto ci pare un contenitore di errori, sofferenza e disaffezione, per andare avanti ci basta anche solo un sospiro di sogno, ed in questo siamo infinitamente fortunati: è il miracolo più grande poterlo provare senza avere il terrore di volerlo conservare in un antro del nostro cuore.

Nella speranza che l'anno a venire vi permetta di incontrare la vostra fortuna, vi auguro una tranquilla fine di questo che va ed un lieto inizio di quello che verrà...

Con Affetto,

Dalila Pala


 
 
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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