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Roberto Dell’Ava. Storia di un genio americano
31 Marzo 2021
 

Grazie a un lavoro di ricerca durato più di dieci anni, Robin Kelley, l’autore di Thelonious Monk: The Life and Times of an American Original, è riuscito a realizzare “l’opera definitiva su Monk” (The San Francisco Chronicle), “una biografia strutturata, intelligente e accurata” (The New York Times Book Review), probabilmente “il più completo e penetrante ritratto di Thelonious Monk mai realizzato” (Boston Globe).

La figura di Thelonious Monk (1917-1982) è da sempre tra le più apprezzate dagli studiosi e dagli appassionati di jazz. Eppure spesso ne è stato offerto un ritratto parziale, se non distorto: quello di un genio eccentrico, di un uomo mentalmente disturbato, di un musicista primitivo e naïf. Questa biografia (ripubblicata da pochi mesi con una nuova traduzione ad opera di Marco Bertoli) rimette finalmente nella giusta prospettiva critica la vita e la musica del grande pianista-compositore. L’autore ha avuto accesso per la prima volta ai documenti privati della famiglia Monk, scopriamo così un Thelonious diverso: un musicista pienamente consapevole della propria arte, determinato a lottare senza compromessi per difendere la sua visione musicale; un individuo sensibile e spiritoso, che malgrado gli eccessi conquistava immancabilmente la stima e la simpatia del prossimo; un uomo attentissimo alla realtà sociale, che nella musica vedeva anche il mezzo per affermare la possibilità di un mondo migliore.

Basta leggere il preludio del libro per capire che non è rivolto solo a esperti di jazz ma anche a semplici appassionati e a tutti coloro che, oltre al lato musicale, sono desiderosi di scoprire l’uomo, la personalità e umanità dietro quei tasti magici.

 

PRELUDIO

A Benetta Smith, «Teeny» per gli amici, piaceva molto andare a trovare gli zii Nellie e Thelonious. Per un bambino di fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, il piccolo appartamento a pianterreno dei Monk, al 243 della Sessantatreesima Strada Ovest, doveva sembrare quasi un luna park. Lo zio Thelonious, al piano, trasformava i canti di Natale in composizioni monkiane, oppure teneva banco prendendo in giro amichevolmente e facendo domande sulla vita che mettevano in difficoltà.

La zia Nellie chiacchierava in continuazione, a volte intrattenendo i bambini con storie esagerate e meravigliose, a volte maledicendo agenti, manager e chiunque approfittasse del suo caro marito, a volte rimproverando delicatamente una delle nipotine affinché non «prendesse a botte» il piano. I loro figli «Toot» (Thelonious Jr) e «Boo Boo» (Barbara) aggiungevano animazione e divertimento; scoppiavano di energia ed erano incoraggiati dai genitori a esprimersi in piena libertà.

Appartamento e quartiere diventarono una specie di parco giochi per Teeny e i suoi sei fratelli e sorelle, e per i cugini e gli amici di famiglia. Lo zio «Baby», il fratello minore di Thelonious, Thomas, viveva a due portoni didistanza, e così i suoi quattro figli erano sempre lì.

Come tutti gli altri nipotini, anche Teeny trattava suo zio come uno zio, non come un genio eccentrico o una celebrità. Durante una delle tante visite che gli fece nel 1959 o nel 1960 (aveva circa dodici anni), Teeny notò un volume delle composizioni di Chopin appoggiato sul mezzacoda Steinway a nolo dello zio. Il piano di Monk era famoso per essere sempre ingombro di cose. Occupava buona parte della cucina e si allungava nella stanza di fronte. Il coperchio era sempre chiuso, poiché serviva da deposito provvisorio per spartiti, carte varie, riviste, biancheria stirata e piegata, piatti e un numero imprecisato di attrezzi da cucina assortiti.

Teeny sfogliò il volume chopiniano, poi si girò verso lo zio e gli chiese: «Come mai lo tieni sul piano? Credevo che non sapessi leggere la musica. Sei capace?» Era una sfida. Per tutta risposta, Monk si sedette al piano, scelse dal libro una composizione molto difficile e cominciò a suonarla a rotta di collo.

«Le mani erano più veloci dell’occhio», ha ricordato Teeny molti anni dopo. «Quando ebbe finito, si alzò di colpo dal piano e mi fece un sorriso. A quel punto io gli dissi: “Non l’hai suonato bene”». «Cooosa? Che cosa vai dicendo? L’ho suonato dieci volte più veloce di chiunque altro!»

Teeny aveva la risposta pronta: «Dice “adagio”, e tu l’hai fatto “allegro”. Monk amava quei duelli verbali, il punzecchiamento scherzoso, le sfide lanciategli da chi non si mostrava intimidito da lui. Ed era orgoglioso della sua famiglia, e della conoscenza, allora in boccio, che Teeny dimostrava della musica.

Correva voce che fosse poco comunicativo, che la musica fosse il suo unico mezzo di espressione. Si diceva che vivesse chiuso nel suo piccolo mondo, in esilio dalla realtà, e che non fosse interessato a nulla se non alla sua musica e a se stesso. La sola musica che lo interessava era la sua, oppure le canzoni popolari e i vecchi standard, di cui si appropriava conformandoli al suo idioma.

Perfino i suoi fan e suoi sostenitori facevano dichiarazioni circa la mancanza di conoscenza e/o d’interesse di Monk per altri generi musicali, soprattutto per la musica classica.

Questo mito è tanto attraente quanto assurdo. La verità è che Thelonious Monk aveva una conoscenza e un gusto grandissimi per la musica classica occidentale, per tacere della sua conoscenza enciclopedica degli inni, della musica gospel, delle canzoni popolari americane e della quantità di arie poco note che sfuggono a una semplice categorizzazione. Per lui, era tutta musica.

Una volta, era il 1966, a Helsinki una falange di giornalisti mise Monk alle strette per conoscere le sue opinioni sulla musica classica e per sapere se secondo lui il jazz e la musica classica si sarebbero mai potuti incontrare. Alla conversazione era presente il batterista di Monk, Ben Riley: «Tutti si aspettavano una risposta, una qualche definizione di musica classica e di jazz… e lui ha detto: “Due è uno”, facendo tacere tutti. Nessuno ha più detto una parola». Proprio così, due è uno. Monk amava Frédéric Chopin, Sergej Rachmaninov, Beethoven e Bach, e come molti della generazione del bebop provò interesse per Igor Stravinskij.

La sua vita, poi, non era più monastica di quella di qualunque jazzman cittadino, anzi, era di gran lunga più interessante di quella di un moncaco vero. I miti su Monk hanno nascosto la verità, e la verità, tanto sulla sua vita quanto sulla sua musica, è affascinante e complicata, e non meno originale o creativa del mito.

Monk non aveva abilità o nozioni musicali innate (anche se aveva l’orecchio assoluto), né era un completo autodidatta. Ricevette un’educazione musicale formidabile e la sua caratteristica sonorità fu il frutto di un lavoro molto intenso. Ma non si isolò mai dal mondo, nella solitudine della meditazione musicale. Trasse ispirazione, idee, lezioni dai membri della sua famiglia, dall’esperienza di tutti i giorni, dalle gioie e dalle difficoltà e dalla città stessa: i suoi suoni, i suoi rumori, il suo spettacolo.

Thelonious Monk visse appieno nel mondo, perlomeno finché il declino mentale e fisico non lo costrinse al ritiro, rendendo a quel punto il suo mondo apparentemente molto più piccolo, chiuso in se stesso e a tratti impenetrabile.

Ma per la maggior parte della vita Monk interagì con il suo ambiente e ne fu affascinato. Politica, arte, affari, natura, architettura, storia, non c’era argomento che considerasse estraneo, ed era il tipo che amava le belle discussioni, a dispetto dei racconti sulla sua incapacità di comunicare.

È una fortuna che molti fra i suoi più cari amici e fra i suoi familiari abbiano voluto condividere i loro aneddoti, molti dei quali non erano mai stati resi pubblici. Sono questi che rivelano un Thelonious Monk sorprendentemente diverso: arguto, molto generoso, attaccatissimo alla famiglia, curioso, critico e onesto fino alla crudeltà. Per giunta esistono molti nastri magnetici che lo immortalano mentre racconta storie, discute o fa semplicemente due chiacchiere.

Nastri che sono delle finestre su qualcosa che è molto più della musica di Monk. Ci rivelano un Monk sia comico che romantico: aveva un grandissimo senso dell’umorismo e nutriva un amore profondo per le vecchie canzoni. I critici che lo intervistarono dietro le quinte o lo videro ballare sul palco ignoravano questi aspetti di Monk.

Anche lui, come la maggior parte delle persone, non amava rivelarsi agli estranei. A volte il suo eccentrico comportamento in pubblico non era altro che un modo per salvare quel po’ di vita privata che gli era rimasta. Come disse una volta allo scrittore Frank London Brown: «Sai, hanno cercato di farmi passare per matto. Ma a volte hai tutto da guadagnarci, se pensano che sei matto».

Gli piaceva moltissimo prendere in giro la gente, soprattutto quelli che giudicava troppo pigri o paurosi per pensare con la loro testa. Una delle sue burle preferite consisteva nel fissare intensamente un punto qualunque del soffitto o del cielo, in una stanza affollata o all’angolo di una strada. Ogni volta gli si radunava intorno un capannello di gente con il naso per aria a cercare di scorgere l’elusivo oggetto che sembrava affascinarlo. Era un esperimento di psicologia di massa che lo divertiva molto.

Ma non tutte le bizzarrie di Monk erano artifici. Thelonious soffriva di disturbo bipolare, che iniziò a manifestarsi già nei primi anni Quaranta. All’inizio degli anni Sessanta, proprio quando cominciavano ad arrivargli la fama e i riconoscimenti che gli erani stati negati per i primi vent’anni della sua carriera, i malanni fisici e mentali presero a farsi sentire sempre di più, aggravati da cure mediche scadenti, da uno stile di vita malsano, dallo stress quotidiano di chi vive di jazz e dall’incessante battaglia finanziaria e creativa con l’industria musicale.

Alcuni scrittori romanticizzano la sindrome maniaco-depressiva e/o la schizofrenia, quasi fossero caratteristiche del genio creativo, ma la vicenda dei disturbi fisici e mentali di Monk è essenzialmente una tragedia, la storia del suo lento declino e del dolore che ha causato a chi gli era più vicino. Le loro manifestazioni erano episodiche, e per questo Monk poté lavorare e fare della bellissima musica fino al giorno in cui si ritirò, nel 1976.

Durante questi vent’anni, la sua capacità nel dirigere una band e nello sfornare interpretazioni sempre fresche di composizioni che suonava da decenni, malgrado la malattia e una protratta battaglia contro l’industria, fu stupefacente.

Se siete interessati al libro, potete ordinare la versione italiana – Thelonious Monk, storia di un genio americano – alla Minimum Fax.

 

Roberto Dell’Ava


Foto allegate

Thelonious Monk e Sahib Shihab (fotografia di Francis Wolff – New-York, 1948)
Charles Mingus, Roy Haynes, Charlie Parker e Thelonious Monk (foto Bob Parent)
Thelonious Monk e Sam Jones (foto W. Eugene Smith)
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