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Alberto Figliolia. Fausto Coppi, “amato dalla gloria, ma non dalla vita”
02 Gennaio 2012
 

Muore giovane chi è caro agli dei. Nei suoi quarant'anni di vita, brevissima a ben vedere, di strade ne aveva percorse tante Fausto Coppi. Una gloria conquistata vincendo sovente in salita. Come in ascesa è, a sua volta e pure imprevedibilmente, la vita. Anche se le discese per i ciclisti sono ben più perigliose.

Inutile, per comprenderne la grandezza, sarebbe soffermarsi soltanto sui trionfi del campionissimo di Castellania: Tour de France, Giri d'Italia, mondiale su strada e su pista, Milano-Sanremo, record dell'ora e chi più ne ha più ne metta. La sua fu un'epopea senza pari e costruita con il concorso del suo più grande rivale, Gino Ginettaccio Bartali L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare.

Il 2 gennaio 1960 moriva Fausto Coppi, in una maniera assurda, di malaria, contratta in Africa e non diagnosticata in Italia. Un fatto incredibile. Cade dunque il 52° anniversario della morte dell'alessandrino adottato dall'amore di una nazione intera e ammirato ovunque per le sue virtù sportive. Coppi era un airone in volo, fra montagne di ghiaccio e neve, sotto il sole bruciante, nella pioggia, in mezzo alla polvere, nella tormenta. Quando partiva, non ce n'era più per nessuno. Neanche per l'immenso Gino, invero più anziano di lui.

Fausto, il campionissimo che perse anni importanti di carriera per via della guerra e fu un prigioniero.

È il caso dunque di citare il bel libro, capitato alla lettura, Fausto Coppi - Gli anni, le strade, a cura di Gianni Rossi e con prefazione di Giampaolo Ormezzano (pp. 144, 15 euro, Bolis Edizioni, 2009), nel quale rivivono l'umile dapprincipio ed epica (anche negli esordi, perché no?) esistenza e carriera di colui che i francesi, che lo adoravano, chiamavano Fostò. Un libro costruito con tecnica sapiente per una cronaca storica altamente emozionale cui hanno contribuito scritti di autori vari. Per citarne alcuni: Gianni Brera, Mario Fossati, Andrea Maietti, Marco Pastonesi, Gian Paolo Porreca, Gianni Bertoli. Molto ricco anche l'apparato iconografico.

La biografia si dipana attraverso le varie voci, a ciascuna venendo affidata un'età, un capitolo, una vittoria, una grande corsa, un evento. Ne risulta una vicenda appassionante, dalle strade del borgo natale e dai primi saliscendi percorsi con le speranze da quel fisico gracile, ma il cuore giovane e la mente già forte, alle vie della gloria e del successo. «Faceva il garzone. Bello non si poteva dire, quel Fausto. Era un'anima eterna, e non si capiva bene se nell'aprire il compasso delle gambe fosse aiutato dalla lunghezza scattante dei muscoli o dalle orecchie a vela issate ai lati di una piccola testa tonda e dura, falcata da un naso tagliente e ravvivata da due occhi prominenti, lustri e un po' spiritati. Il garzone veniva dalla famiglia dei Coppi», così scriveva Bruno Roghi con la sua prosa lirica e immaginifica.

Se non poteva vincere il concorso di Mister Universo secondo standard e canoni codificati, Fausto sul sellino era una macchina perfetta: bellissimo da vedere, fra stile, levità e potenza.

Fausto passò fra le sapienti mani (sostituivano gli occhi ciechi) di Biagio Cavanna, massaggiatore, confidente, “tuttologo della bicicletta”. È l'ora del Giro d'Italia 1940. «Un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna, ha vinto la Firenze-Modena attraversando l'Appennino sotto la pioggia diluviale arrivando al traguardo con quasi quattro minuti di vantaggio. Arruolato nella squadra di Bartali col ruolo di modesto aiutante, la recluta Fausto Coppi ha conquistato la maglia rosa», riportava nella sua cronaca elzevirata Orio Vergani.

Seguirà il 7 novembre 1942, al Vigorelli di Milano, siamo in piena guerra mondiale, il record dell'ora. E la Milano-Sanremo dell'1 marzo 1946, quella che... «In attesa degli altri concorrenti... trasmettiamo musica da ballo», o la Cuneo-Pinerolo al Giro d'Italia del 1949, quando si va oltre gli angusti limiti della storia per sconfinare nella leggenda. La parola a Dino Buzzati, inviato alla corsa rosa per la testata giornalistica per cui lavorava: «Centinaia di migliaia di Italiani avrebbero pagato chissà quanto per essere lassù dove noi si era, per vedere quello che noi vedevamo. Per anni e anni – ce ne rendemmo conto – si sarebbe parlato a non finire di quel fatterello che non pareva di per sé niente di speciale: solamente un uomo in bicicletta che si allontanava dai suoi compagni di cammino». Fra Coppi e gli inseguitori si formava il deserto dei tartari: 192 i chilometri di fuga e 11'52'' il vantaggio al traguardo di Pinerolo su Bartali, 19'14'' su Martini.

Il Tour de France del 1949. Per la prima volta un ciclista fa la doppietta Giro-Tour, ritenuta prima d'allora impossibile. Ma ci sono anche le cadute e la tragica morte del fratello Serse. Dalla bocca di Fausto, in un'intervista raccolta da Enzo Biagi: «Serse non era soltanto mio fratello, Serse mi consigliava, mi era vicino. È il dolore più grande che io abbia mai provato. Non pareva grave, una caduta, ma si era subito rialzato. Poi lo vedemmo impallidire, emorragia al cervello. Non ci fu niente da fare. Ho pagato in anticipo».

Il campionato mondiale su strada, Lugano 1953, celebrato dal poeta Vittorio Sereni. La Dama Bianca. L'amore. Una vicenda sentimentale che attirò le ire dei benpensanti e dell'Italia codina e retriva. L'Africa, le ultime corse sotto i cieli di fascinosi atavici tramonti, messaggeri di morte.

Da citare la visione di Anna Maria Ortese: «Come il becco di un rapace sfinito, il suo naso pungeva l'aria, il bianco della polvere. Era forse sfinito ma volava. Era come se avesse altri 100 corridori, dentro, e appena uno era stanco, ne afferrava un altro, lo inchiodava sul sellino. Così come un dio stordito dalla sua forza piombato in un mondo che non ama, continuamente abbagliato da immagini e voci lontane [...], e inseguito da quelle braccia e quegli occhi delusi, l'idolo degli italiani passò. Visto di spalla, già lontano, sembrava un bambino che pedala la prima volta: aveva una grazia incerta, un po' triste».

Ma vogliamo chiudere con un doppio omaggio – uno al protagonista del nostro umile racconto, l'altro a un grande che ci ha da poco lasciati, testimone di un'Italia che non ha mai rinunciato al valore dell'onestà intellettuale e alla fatica del lavoro onesto come un valore, quali quelli di un ciclista vero, parliamo di Giorgio Bocca che vergò il seguente periodo: «Correva in bicicletta, la macchina che anche i poveri potevano acquistare. Correva e vinceva con la forza dei suoi garretti d'acciaio, dei suoi muscoli lisci, del suo respiro calmo e lungo; vinceva per meriti suoi senza rubare niente a nessuno. Ed era triste, era uno amato dalla gloria, ma non dalla vita. Uno dei contadini che diventano ciclista, torero o pugile famosi, ma gli rimane il segno delle antiche privazioni e delle secolari umiliazioni. Il Fausto Coppi da Castellania».

 

Alberto Figliolia


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