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Gianfranco Cercone. “Tom à la ferme” di Xavier Dolan: un narcisismo dolente
11 Luglio 2016
 

Sono usciti in queste settimane nelle sale cinematografiche, grazie alla casa di distribuzione Movies Inspired, alcuni film di un giovane autore canadese, Xavier Dolan. Dolan ha avuto un successo internazionale con il film Mommy, che ha vinto il Premio della Giuria al festival di Cannes. Ma prima di allora aveva già realizzato quattro lungometraggi (il primo dei quali – Io ho ucciso mia madre – girato a 19 anni). L'ultimo dei quattro, Tom à la ferme (“Tom in fattoria”), presentato al festival di Venezia di due anni fa, esce nelle nostre sale solo in questi giorni.

Tom à la ferme ha una caratteristica in comune con gli altri dei suoi film in cui Dolan non è soltanto regista, ma anche l'attore protagonista.

Il suo personaggio è realistico, psicologicamente complesso, sfumato, mentre i personaggi intorno a lui sono più generici, tutti d'un pezzo, convenzionali, a volte soltanto caricaturali.

Questi suoi film hanno, insomma, un impianto “narcisistico”. Ora, il narcisista, si sa, non pone sempre o soltanto al centro dell'attenzione propria e altrui, le proprie virtù e i propri successi; ma a volte, piuttosto, le proprie deficienze, le proprie sconfitte.

A questo tipo di narcisista dolente sembra appartenere se non Dolan, il genere di personaggi che interpreta al cinema, evocato da certe espressioni ricorrenti nel suo volto, nelle quali l'ambiguità sessuale si mescola con il senso di un destino di sofferenza, come secondo un vecchio cliché.

In Tom à la ferme, Dolan interpreta un ragazzo che va a trovare la famiglia del suo ex-amante, un altro ragazzo morto in seguito a un incidente d'auto. È una famiglia di campagna, di mentalità antiquata, dove regna l'omofobia. Con la sua massa di capelli crespi biondo ossigenati, il suo aspetto di angelo in rivolta, ci si aspetterebbe che Dolan – o meglio il suo personaggio, Tom – porti un vento rinnovatore nell'austera dimora dove vivono la madre e il fratello del defunto.

Ma è un'attesa che va delusa.

Tom si esime dal prendere la parola al funerale cattolico del ragazzo, durante il quale la sua autentica vita amorosa è sottaciuta; in famiglia asseconda la finzione per la quale egli aveva una regolare fidanzata – in effetti una collega di Tom che si era prestata a interpretare quel ruolo; ma addirittura soggiace, con una compiacenza evidentemente masochistica, alle violenze del fratello del suo ex-amante, probabilmente un omosessuale represso che trasforma la propria omosessualità in violenze sadiche ai danni delle persone omosessuali.

È questo il fulcro emotivo, perverso, del film. Tom è progressivamente ammaliato dall'uomo, e proprio dalla sua brutalità. Se in un primo tempo gli resiste e lo provoca, le sue resistenze si rivelano impotenti, e le provocazioni finiscono per essere istigazioni a rinnovare la violenza contro di lui. Ne è soggiogato a tal punto che, lui cittadino, abbraccia la vita di campagna. E soltanto una scoperta sconvolgente, che gli dà il senso del pericolo che corre, lo riscuote dal fascino che lo ha imprigionato.

Se la madre del ragazzo morto e l'amica di Tom sono due figure piuttosto indefinite, anche perché soltanto spettatrici di un dramma che riguarda i due uomini, la relazione sadomasochistica tra di loro, e soprattutto la figura di Tom – la sua mollezza, il suo malessere, la sua morbosa attrazione per la violenza – contengono dei momenti di verità.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 9 luglio 2016
»» QUI la scheda audio)


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