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Franco Patruno. Una favola ben riuscita dove tutto è semplice, anche la sorpresa 
Il film “Il cuore altrove” di Pupi Avati (2003)
22 Giugno 2016
 

La riproposta di RAI 3 di uno dei film più poetici di Pupi Avati, Il cuore altrove (2003), ci fa riscoprire uno dei registi italiani più fantasiosi ed attento, non solo ai ricordi, ma, soprattutto, ai sentimenti più intimi del cuore umano.

La recensione di Franco Patruno su l’Osservatore Romano ne coglie tutti questi aspetti. (mpf)

 

 

Se è vero, come afferma Paul Ricoeur con antico riferimento agostiniano, che all'impossibilità di definire il tempo corrisponde la capacità di imprimerlo nel racconto, i veri narratori lo sperimentano strutturandolo in uno spazio. Anzi, lo spazio stesso rivela il tempo cadenzandolo in una storia. Non appaia estranea a Il cuore altrove di Pupi Avati questa premessa. Dopo la visione del film ho avuto netta l'impressione di una connaturalità tra la costruzione della vicenda di Nello, il trentacinquenne professore romano di latino e greco, ed il montaggio che ritma scene e sequenze senza soluzione di continuità. O, per dir meglio, in modo tale che ad un sintetico proemio di presentazione delle situazioni, faccia seguito tutta la storia verso un compimento che s'avverte come giunto a maturazione.

Ci sono fabule che appartengono alla memoria degli autori da sempre, quelle che caratterizzano un mondo ed una riconoscibile poetica. Questa non è una delimitazione della fantasia creativa, ma un fecondo terreno nel quale e sul quale la novità di un nuovo percorso si inserisce, ripeto, con connaturalità. La figura del personaggio trasognato e tutt'altro che simmetrico alla concretezza della vita di tutti i giorni è una costante della letteratura e del cinema, perché desta tenerezza ed umorismo già dalla prima apparizione. A meglio definirlo stanno le contrapposizioni: un padre di realismo raro, ma orgoglioso di una sartoria che lavora per i Papi, un compagno di stanza barbiere di fino alquanto goliardico di usi e costumi ed una ragazza d'alta borghesia che sprizza vitalità ad alto rischio di provocazione. Tra Roma e Bologna si instaura un colloquio di ambienti appena tratteggiato, ma presente come atmosfere, situazioni a confronto ed altrettante contrapposizioni a sfondo sociale. Il tema che appare centrale, ma che tale non è, è quello della cecità non permanente di Angela, soprattutto se inizialmente descritta in una delle pagine più belle ed avatiane del film: il ballo tra i possibili futuri sposi e le non vedenti, in un ricreatorio di forte richiamo felliniano. Tutto è semplice, anche la sorpresa, cioè “l'apparizione” di Angela fuori dalla sala, quasi in trasparenza con il verde oltre il corridoio.

La storia dei sentimenti è storia di definizione di personaggi, come è maestria di Pupi e, accorta regia, storia di conduzione d'attori. Un pregio del regista bolognese è il lasciare che questi siano quello che hanno capito, senza forzarli con schemi d'inutile teatralità. Cioè senza che si perdano nei meandri dell'evocativo. Così Avati lascia che si autopresentino Neri Marcoré, Vanessa Incontrada, Nino D'Angelo, Giancarlo Giannini e Giulio Bosetti. È, con tutta probabilità, un fatto non solo legato all'immediatezza e alla simpatia tra regista e interpreti nell'atto della messa in scena, ma una consumata tecnica nata dalla vocazione a costruire lo spazio vivo delle azioni, in modo tale che, calandosi in una parte, gli attori scoprano una dimensione di se stessi. Certo, Giannini occupa quello spazio come l'abitasse da sempre; e così pure Bosetti. La sorpresa è l'intreccio tra Marcoré e l'Incontrada che sono un Giano bifronte: l'indecisione ontologica della figura del primo fa risaltare l'euforia sincera, ed anche malinconica, della polivalente espressività di Angela, cioè il personaggio rivissuto dalla giovane attrice spagnola.

Il film si snoda con velocità, perché Pupi non lascia mai sola un'ipotesi di vita senza condurla a termine, anche, e soprattutto, con la caratteristica ormai nota della subitaneità degli accenni. La sceneggiatura, come si suol dire, "tiene", perché è l'intelligenza della storia che la sostiene, senza bisogno di indebite forzature o lungaggini fuori luogo. Quando s'avverte che un racconto è parte del proprio mondo, anche il montaggio non è solo indubbia abilità, ma vera costruzione del rapporto di causa ed effetto nel succedersi di scene e sequenze.

I due momenti finali, che non descrivo per non mortificare una possibile visione del film, sono indovinati e, negli ambienti nei quali si svolgono, facilitano la comprensione dell'antica storia dei personaggi “imbarazzati” e che si configurano come inadeguati a situazioni socialmente codificate. Sembran tali di natura, ma invece, come da Charlot a Gelsomina, han capito gli accenti sapienziali della vita. Così finisce una favola ben riuscita, nel miglior stile del regista bolognese e fortunatamente assai prossima alle feriali aspirazioni degli spettatori, con alcuni tratti d'omaggio a Fellini che fanno perdonare anche una fotografia un po’ statica e teatrale.

 

Franco Patruno

(da L'Osservatore Romano, 14 febbraio 2003)


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