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Marco Cipollini, Due luoghi del sublime: Paestum e Segesta
Tempio di Paestum
Tempio di Paestum 
22 Dicembre 2007
 

Preferisco il tempio di Paestum, detto comunemente di Nettuno ma forse dedicato a Hera, allo stesso Partenone. Questo ha in ricchissima dote il marmo pentelico e soprattutto la decorazione fidiaca, l’apice della scultura classica. Ma come pura architettura il tempio di Atena non mi convince del tutto. L’ordine dorico, a cui appartiene, è “eseguito” secondo il gusto originario dell’Attica, che è  ionico, e il risultato è alquanto ibrido. Le colonne, per esempio. Sono assai poco bombate, di una magrezza rigida, che non ha la forza dinamica del dorico autentico né, ovviamente, lo slancio elegante dell’ordine ionico; in più l’impressione che fanno di “palizzata” è accresciuta dal loro numero frontale di otto, invece che di sei — come il vicino Hephaistèion, che peraltro richiama il tempio poliadico — secondo il canone dorico, riecheggiante il ritmo dell’esametro. Anche a rischio di essere lapidato, sarò lapidario: il Partenone, da sempre considerato l’icona architettonica della classicità, ha un’aria frigida, anche un po’ neoclassica…

Il tempio centrale di Paestum realizza al massimo grado la potenza e l’armonia dell’ordine dorico, più ancora di quello, pur bellissimo, detto della Concordia, ad Agrigento; che è più statico e prevedibile, un po’ sull’attenti. Goethe, risentendo del gusto neoclassico dell’età sua, non amò subito il possente edificio di Paestum, preferendogli quello agrigentino; ma poi si ricredette. Il tempio di Nettuno è l’ultimo passo dell’arcaismo e il primo della piena classicità, forza e perfezione vi si fondono in qualcosa di unico. È una tappa fondamentale della civiltà umana. Tutte le volte che l’ho visitato, vi ho respirato il prodigio, come di fronte a una Forma pitagorica calata da cielo in terra. Questa è la classicità nella piena salute dello stile severo, che porta impresso nell’umano il sigillo divino, mentre il Partenone è ormai “umanistico”. Il sacrario di Nettuno è il tempio greco più “vivo”, e quindi il più bello che ci sia arrivato, fortunatamente in buono stato.

Tutt’altro effetto mi fece il grandioso tempio di Segesta, incompiuto. La sua stessa collocazione tra quei poggi spelacchiati, deserti, martellati dal sole, lo rende un’apparizione primordiale, erede di quell’idea trilitica del divino che ci ha lasciato Stonehenge. L’opera non fu mai condotta a termine per le molte traversie subite dalla città in lotta con altre poleis; il colpo definitivo glielo dètte, forse, l’invasione punica. È un paradosso della Storia che esso, nella sua incompiutezza, sia praticamente intatto: non meriterebbe la definizione di “rovina”. Molte pietre conservano le bozze laterali, che servivano per il loro trasporto, non furono poi scalpellate via. La scannellatura delle colonne, che era opera conclusiva, nemmeno iniziò. L’interno, mai edificato, è un’area misteriosa, assoluta, sotto un cielo abbagliante; le ombre delle colonne colossali, che obliquamente l’attraversano, sono immani e muti segnali del Fato. Il tempio, mai consacrato, emana una sacralità preistorica. Passano le religioni, ma quanto di esse è stato formalizzato in opere d’arte mantiene illeso lo spirito che le ispirò. Purché non se ne faccia solo una miserabile questione di estetica, di “storia dell’arte”.

Le due poesie, pubblicate una su Ghibli 35/2005 ed entrambe su Arenaria 1/2007, e qui rivedute, nella loro struttura ritmica e metrica intendono suggerire qualcosa dell’euritmia paratattica di Paestum e dell’incompiuto ordine esastilo di Segesta.

 

 

 

ODE AL VENTO MARINO NEL TEMPIO

        DI NETTUNO A PAESTUM

 

 

            Che luogo è questo? Quale Dio lo fa sacro?

          Dall’Edipo a Colono, di Sofocle

 

Dov’è più quell’arcana presenza per cui fosti eretta,

dimora dalle molte colonne possenti, perfetta?

 

Nell’aperto silenzio, da rade cicale intaccato,

trasvolano immensi cirri… Del nume è il possente fiato

 

che a radere ritorna da ondosi orizzonti le antiche

soglie dove arroganti spuntano sterpaglie ed ortiche,

 

o è un vento moderno, la cui voce di scordata cetra

atei lamenti effonde in un vacuo teorema di pietra?

 

Mutano la vita, anima mia, luoghi come questo...

Non specchiarti in un secolo ad ogni grandezza funesto,

 

ma guàrdati intorno: è un prodigio che, dall’eterno cielo

disceso in terra, agli occhi della mente toglie quel velo

 

di abitudini stanche, di frasi ridette, di affanni

per stringere un pugno di cenere ai precipiti anni.

 

Guarda! Non fu illusione agognare una sacra bellezza,

credere vita vera non quella che crolla in vecchiezza,

 

ma l’inno che disgorga dal cuore granito di astri,

e che un cerchio non è, nostra sorte, di lutti e disastri

 

se arrivare può a tanto, tocca!, la tua mortale mano,

come sui piedi ergendosi a sforzo il semidio tebano

 

colse l’esperide pomo più alto, più luminoso.

Dentro di te respiro il sublime, o sacrario corroso:

 

ecco, assoluto è il silenzio, ed è come un canto inaudito

che trascorre per queste colonne, vivente, infinito.

 

L’anima ali m’involano a plaghe altissime, ebbre

di luce che penetra il cuore come un soffio di febbre, e

 

poi che beata è l’iperbole a inattingibili forme,

si ripiega, ed esangue ritorna alle terrene orme,

 

nella crisalide assorta di un cristallino sgomento:

immobili le nubi, né oscilla più l’erba, e c’è il vento!

 

 

 

                  SEGESTA

 

                                    A Lucio Zinna

 

Tra le agavi spade (cicale! cicale!)

saliamo a Segesta la brulla collina

spalancata alla perpendicolare

potenza del Sole, che l’agire umano,

quando innalza la testa,

azzera in questo cranio di rocce.

 

E appare, sepolcro di secoli,

il tempio, non rotto, interrotto,

gli enormi cilindri calcarei

mai più scanalati in colonne,

i gradi con bozze o bubboni

che mai non tranciò lo scalpello.

 

O Forma discesa da gloria mentale

e mai dalla mano qua resa perfetta,

le tue pietre sovrapposte sorreggono

un cielo pesantissimo d’oblio,

troppo azzurro, inesausto di luce

che abbacina e opprime le ciglia.

 

E al vuoto varchiamo d’intatto silenzio,

percossi dal fulgore meridiano

che d’ombre titaniche sbarra

lo spazio ov’ebbe mai dimora un Dio,

per quella fraterna ferocia

che un sogno infranse di sacra bellezza.

 

O forse è ancora da compiersi il Fato

qua dove tutto è assenza

che feroce luce impiaga d’attesa?

L’opera eretta e troncata

è recinto preistorico al silenzio,

grida: divinità! divinità!

 

Tra illese rovine si aggirano

babelici pellegrini di memorie,

e si mettono in posa, flaccide statue,

sulla tua cariata eternità,

in uno stordimento di cicale,

tra le ossa della Storia erette al nulla.

  

 

 

www.webalice.it/marcocipollini


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