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Iván García. Riforme a Cuba: tra speculazione e problemi
05 Luglio 2012
 

I piccoli negozi privati possono rappresentare un’ancora di salvezza per molti cubani. Ma vendendo pane e maionese non si costruisce una nazione sviluppata e prospera.

 

 

Sergio, impiegato tecnico, 63 anni, da due decenni gioca nella squadra degli sconfitti. È entrato a far parte della maggioranza dei consumatori colpiti dai prezzi esorbitanti di prodotti e servizi. Il suo salario di 375 pesos (16 dollari) 25 anni fa era un’altra cosa. Alla fine degli anni Ottanta, ricorda, due volte al mese poteva comprare carne di maiale disossata, salumi, yogurt e cioccolato nel vecchio negozio avanero denominato Sears, che come misura sperimentale era stato trasformato in “mercato parallelo”. Con il suo salario, in altri negozi del nuovo “mercato parallelo” poteva acquistare jeans non originali, calzature sportive cinesi di media qualità e camicie Christian Dior prodotte a Singapore. I prezzi, in pesos, erano alti, ma le persone potevano mettere da parte il denaro per fare acquisti. Sergio era povero, come lo è adesso. Solo che allora il denaro del suo salario aveva un valore. Quando la vecchia URSS abbandonò l’assurda ideologia comunista, e tagliò il canale dei rubli e degli aiuti economici, il comandante unico passò dei brutti momenti. Dai negozi scomparvero le marmellate di mele russe, i succhi di frutta bulgari di pesca e albicocca e le bottiglie di vino d’Armenia.

Il salario di Sergio si trasformò in un pugno di pesos dal valore simbolico. Venticinque anni dopo, Sergio guadagna solo 35 pesos in più che negli anni Ottanta, mentre paga 7 volte più cari alimenti e servizi. «Fai due conti. A quel tempo, una libbra di carne di maiale costava 4 pesos, oggi ne costa 23. La carne di manzo, che sul mercato nero costava 8, adesso - quando si trova - costa 55 pesos la libbra. Persino andare dal barbiere è un lusso: prima ti facevi i capelli con un peso, adesso, ne servono almeno 20», spiega Sergio sconfortato. Non è la nostalgia del passato, ma l’incertezza per il futuro. I prezzi dei generi alimentari di base sono cresciuti ovunque, ma è importante che esista un equilibrio con il salario.

A Cuba, cittadini come Sergio, spendono tutta la loro ridicola paga da impiegati solo per comprare generi alimentari. E mangiano male. Le case cadono a pezzi per mancanza di lavori di manutenzione. Per la mobilia vale lo stesso discorso. Si vive giorno per giorno. Il vero salario dei cubani è costituito dalle rimesse dei parenti emigrati all’estero (per i più fortunati), oppure da ciò che si riesce a inventare, rubando nei posti di lavoro e vendendo roba per strada. Con le nuove riforme del Generale Raúl Castro, la miseria è aumentata. Vediamo sempre più vagabondi per strada. Le tasche più colpite continuano a essere quelle di chi non possiede pesos convertibili. A Cuba si è costruito un casinò spettacolare. Certo, c’è chi vince. I primi della classe sono alcuni lavoratori privati e le persone che ricevono grosse somme di denaro dall’estero e che hanno investito negli affari. In ogni caso i privati vivono sempre con l’angoscia tipica delle società chiuse, per colpa di leggi assurde che non li difendono ma li demonizzano.

Tentare di arricchirsi a Cuba significa camminare su una pericolosa corda tesa. Va bene che la gente faccia i soldi e che si moltiplichino i piccoli negozi, ma lo Stato dovrebbe preparare un apparato normativo che protegga e incentivi i veri e propri affari. Non servono a niente le bancarelle caraibiche e neppure i banchetti di sopravvivenza. Il governo deve cercare soluzioni urgenti, non attendere le calende greche per mettersi a studiare - e risolvere - il problema del doppio sistema monetario. È importante aumentare in maniera ragionevole i salari da fame pagati a operai e impiegati.

Proprio chi lavora onestamente vive male. La sfera speculativa è molto ampia. Il regime dovrebbe emanare leggi più trasparenti che mettano un freno a una speculazione eccessiva. Cosa difficile fino a quando vivremo in una situazione caratterizzata da una tale scarsità di risorse. Se si producessero carne, ortaggi e frutta in quantità apprezzabili, i prezzi calerebbero subito e la speculazione diminuirebbe. Una legge assurda obbliga i contadini privati a vendere l’80% dei loro raccolti allo Stato. Da qui nascono frodi e meccanismi poco trasparenti. Senza contare i prezzi ridicoli che il governo paga per i prodotti agricoli. I contadini di solito non dichiarano la reale produzione. A volte preferiscono rubare a loro stessi per poi vendere i prodotti a prezzi migliori.

La protezione governativa ha generato una casta di corrotti che, facendosi forza della tessera del partito, si è arricchita speculando sugli alimenti destinati alla popolazione. Questa mafia dirige il commercio interno, decidendo i prezzi e fissando i guadagni. Alcuni di loro preferiscono far marcire i prodotti piuttosto che abbassare il costo. Se Raúl Castro volesse, potrebbe farla finita subito con questa ragnatela speculativa. Ma dovrebbe giocare seriamente e senza timore. Abolire i centri di raccolta statali sarebbe una buona manovra iniziale per sbloccare i prezzi esosi degli alimenti.

Vendere auto presso concessionarie farebbe calare i prezzi esagerati del mercato privato regolato da domanda e offerta, ma anche autorizzare la vendita di auto usate da parte dei loro proprietari sarebbe un aiuto importante. La speculazione aumenta se un cubano non è libero di acquistare un’auto nuova, anche se dispone del denaro sufficiente. I prezzi attuali sono pazzeschi. Una vecchio auto statunitense degli anni Cinquanta può costare anche venticinquemila dollari. Persino di più, in certi casi. Sarebbe sensato ridurre in maniera considerevole le eccessive imposte di circolazione sugli articoli venduti nei negozi in moneta forte. Sono imposte che gravano sulle merci fino al 300%. Questo denaro raccolto dal regime non ha prodotto miglioramenti nella qualità della vita dei più poveri. Tutto il contrario.

Era una sera di aprile del 1961, quando un eccitato Fidel Castro imbracciando un fucile disse che il processo iniziato era una vera “rivoluzione degli umili, degli umili e per gli umili”. Non è stato così. Negli ultimi vent’anni, i poveri sono diventati molto più poveri. Tra il 65 e il 70% della popolazione ha problemi materiali urgenti da risolvere. La cosa peggiore è che non si vedono soluzioni. Le riforme di Castro II hanno prodotto un nuovo buco nella già stretta cintura dei più bisognosi. I piccoli negozi privati possono rappresentare un’ancora di salvezza per molti cubani. Ma vendendo pane e maionese non si costruisce una nazione sviluppata e prospera. Il denaro a Cuba, in generale, è sempre finito nelle tasche delle persone protette dal sistema. Il Generale può decidere tra cambiare le regole e lasciarle così come sono. Qualunque opzione scelga deve sapere che il sistema è sull’orlo del fallimento. La rivoluzione, così come l’aveva concepita il fratello, è soltanto un fantasma del passato. Se il Generale sceglierà l’economia di mercato, scommettendo su leggi democratiche, perderà il trono, ma potrà passare alla storia come un eroe. Se continuerà sul cammino di sempre, invece, sarà ricordato come un farabutto.

 

Iván García

(da www.martinoticias.com, 5 luglio 2012)

Traduzione di Gordiano Lupi


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