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Marco Schiavetta. Il counseling nel mondo del lavoro
Martin Buber (Vienna, 1878 – Gerusalemme, 1965)
Martin Buber (Vienna, 1878 – Gerusalemme, 1965) 
17 Marzo 2015
 

Nel mondo del lavoro sta prendendo sempre più piede una visione non meccanicistica dell’azienda, che tiene conto di tutte quelle dimensioni emotive, cognitive e relazionali, riassunte nel termine di “intangibile”. Diventano perciò sempre più rilevanti gli interventi di counseling, di coaching, di teatro formazione e via dicendo. Il counseling aziendale è teso a migliorare le relazioni interne al sistema facendone emergere le potenzialità. Ne consegue, di solito, un migliore andamento e un maggior rendimento.1 Se il pensiero attento alla dimensione linguistica ci dà indicazioni su come la dimensione dialogica sia connaturale alla conoscenza proprio perché ogni conoscenza è essenzialmente atto che si compie nel linguaggio, il personalismo novecentesco pone la relazionalità e quindi la relazione dialogica nell’ontologia profonda dell’essere umano.

Martin Buber, uno dei più profondi pensatori della relazionalità come categoria fondamentale dell’umano, scrive: «Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è “l’uomo - con - l’uomo”. Ciò che caratterizza in modo singolare il mondo degli uomini, è da ricercarsi nel fatto che, tra - uomo - e - uomo, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura [...] La scienza filosofica dell’uomo, la quale include l’antropologia e la sociologia, deve dunque prendere come punto di partenza, come oggetto della sua indagine, l’uomo - con - l’uomo».2 Qui l’autore, a mio parere, dimentica di indicare la psicologia, che è da includere in una scienza filosofica dell’uomo, intesa nella sua generalità. Il dialogo reale, pur non rifiutando il bisogno, anzi, confrontandosi con esso, può produrre novità perché riesce in qualche modo a sottrarsi all’inautenticità attraverso il porsi, rimaniamo sempre all’interno dell’analisi heideggeriana, sul piano ontologico che dà il vero senso dell’essere, non di un essere in astratto ma del mio essere e di quello dell’altro. Anche nell’analisi che ne fa Buber c’è qualcosa di assai simile, infatti, egli dice: «Nella conversazione autentica il rivolgersi al compagno avviene in tutta verità, come rivolgersi dell’essere. Tutti coloro che parlano intendono colui o coloro, a cui si rivolgono come questa particolare esistenza personale».3

In conclusione, la differenza fra il dialogo e la pura e semplice chiacchiera è data dall’investimento dell’esistenza all’interno del rapporto, dalla disponibilità ad attingere dalla relazione la profondità dell’essere che vi è nascosta che vuol dire quanto di me e della mia esistenza gioca all’interno di quella relazione. Il linguaggio non è dunque il semplice strumento con cui si etichetta la realtà una volta che la si è pensata, ma colloquio interiore che accompagna tutto il processo riflessivo e che diventa apertura al mondo e soprattutto al mondo delle relazioni interpersonali in cui, attraverso l’ascolto, si apprende il linguaggio e quindi il pensiero. La dualità del colloquio interiore diviene dunque dialogo in cui ascolto, espressione e pensiero sono coessenziali ed inseparabili. Non è però sufficiente considerare il pensare come un colloquio interiore, è indispensabile porre l’accento sulla dialogicità reale e concreta, pena il ritrovarsi all’interno di un quadro monologico ancora più rigido.

Questa prospettiva di un’imprescindibile dialogicità del linguaggio rende a noi più facile comprendere come il conoscere possa essere concepito come qualcosa che è assimilabile ad una relazione interpersonale e non ad un monologo interiore del soggetto che esplora un orizzonte passivo fatto di oggetti muti, semplici terminali dell’attività dell’Io conoscente. E se il soggetto conoscente deve entrare in qualche modo in dialogo per conoscere, diventa facile immaginare che pure l’altro termine della conoscenza, quello che comunemente definiamo oggetto, debba invece essere pensato come co-soggetto del conoscere. In questa prospettiva un oggetto muto e passivo come una cosa materiale, potrebbe essere co-soggetto in modo molto imperfetto e rudimentale e solo la persona viva potrebbe assolvere questo ruolo in modo pieno.4

Dopo aver colto la necessaria inter-personalità del linguaggio e quindi del dialogo, dobbiamo ora mettere in evidenza e trarre tutte le conseguenze dell’altra dimensione che del dialogo fa strutturalmente parte e cioè la sua dimensione linguistica e quindi il suo riferirsi all’interpretazione come atteggiamento necessario all’interno di esso. Ciò vuol dire che la sua verità non è mai limitabile in maniera rigida a ciò di cui direttamente si parla ma che in esso è sempre evocato un orizzonte entro il quale la singola realtà si colloca e diventa comprensibile. In un’espressione semplice ed evocativa, Ott dice che la parola, il linguaggio istituisce il mondo, evidentemente non nel senso della totalità degli oggetti materiali (questo è più un ambito da svilupparsi in un’ottica strettamente biblico-teologica parlando della creazione divina attraverso la parola) quanto piuttosto nel senso dell’orizzonte della comprensione e dunque dell’essere in quanto oggetto di conoscenza. Ma anche se le cose sussistono indipendentemente da questo orizzonte istituito dalla parola ugualmente esse non possono essere concepite come indipendenti da esso, almeno quaod nos.5

Dice ancora Ott: «In questo concetto dell’intimità di mondo e cose, un’intimità nella differenza, riecheggia qui l’idea heideggeriana della differenza ontologica tra essere ed essente, è contenuta la scoperta decisiva della struttura ermeneutica del linguaggio: è l’essenza del linguaggio che produce l’uno e l’altro: cose e mondo, cioè l’essente e l’orizzonte entro il quale questo essente si rivolge agli uomini col suo peso di significato, l’orizzonte entro i quale si può parlare dell’essente e dal quale esso appare. Il linguaggio produce ambedue: non nel senso della produzione tecnica. Esso li fa comparire per quel che sono: le cose come cose, il mondo come mondo, l’essente come essente e l’orizzonte dell’essente come tale. L’uomo che parla non è prima di tutto un produttore -- un padrone che dispone delle proprie capacità -- ma un recettore: è quanto Heidegger vuol dire con la nota espressione: “Il linguaggio parla”.

Questo fenomeno appartiene senza dubbio alla struttura del linguaggio: l’uomo quando parla è recettivo; non come se il linguaggio esistesse prima dell’uomo, come un qualcosa che sussiste in sé e per sé; ma nel senso che neppure l’uomo esiste prima del linguaggio, e ne è invece determinato interamente nel suo essere».6 Queste parole in cui forte è l’influenza heideggeriana, mi mostrano come il linguaggio non sia semplicemente lo strumento con cui indichiamo qualcosa e scambiamo informazioni ma piuttosto come esso sia l’orizzonte imprescindibile dell’esistenza umana al punto che non c’è niente che sia umano che non sia per ciò stesso evento linguistico. Il dialogo è l’heideggeriano evento della verità, non quindi un vago ed indefinito porsi in ascolto dell’Essere ma il concreto impegnarsi all’interno di strutture relazionali esplicite ed implicite in cui insieme ci si avvicina ad una verità che supera la fallacità delle opinioni personali ma che, nel loro gioco, trova il terreno fecondo dove germogliare e crescere: questo è l’impegno dell’intervento di counseling.

È però importante notare che, poiché il dialogo è qualcosa d’ininterrotto e di mai terminato, nessuna formulazione della verità può mai ritenersi definitiva e perfettamente conclusa. Il dialogo avviene nella storia concreta degli uomini e la verità che in esso si manifesta è sempre segnata da questa storia.7 Può questa sembrare una limitazione grave e che rende insoddisfacente l’ermeneutica dialogica come via alla verità, ma essa va invece compresa come un appello all’umiltà, come lo stimolo al riconoscimento che la verità è qualcosa che sempre trascende l’uomo, qualcosa che lascia tracce nel suo essere ente e nelle relazioni che i differenti individui intessono fra di loro. Con questo non si vuol dire che ciò che è vero oggi, sarà falso domani, oppure che ciò che è vero in un luogo, fra determinati soggetti cessa di esserlo in un contesto diverso, relativismo assai deprimente, ma piuttosto che la verità è punto di arrivo di un processo che non termina come non termina la vita degli individui che in dialogo fra loro e con la storia continuamente contribuiscono al cammino verso la verità e nella verità e che, quindi, questa è sempre qualcosa in cui siamo e che ci sta davanti, qualcosa che non possediamo ma che piuttosto ci possiede e ci spinge ad un inesausto percorso relazionale e dialogico in cui essa possa manifestarsi.

Questo ci riporta anche ad una dimensione morale della verità come essa è compresa nell’ermeneutica. Non si tratta solo di un orizzonte noetico quello in cui la verità si colloca ma anche di un orizzonte etico. Si deve prendere posizione per essa o contro di essa ed in questa presa di posizione si deve prendere posizione anche pro o contro quelle condizioni concrete che impediscono o favoriscono l’approdo dialogico alla verità in un richiamarsi reciproco di verità e giustizia.8 Qui il mio cerchio sul tema presentato si chiude, metaforicamente parlando, verità, etica e giustizia sono stati i temi che ho illustrato nel mio viaggio attraverso alcuni dei modelli comunicativi del linguaggio che molto interesse a mio parere hanno a sostegno della mia tesi. In cui argomento un utilizzo dei linguaggi non solo empatico-interpretativo oltre che ragionato, ma anche capace di trasmettere una consapevole comprensione del mondo di appartenenza dei soggetti/clienti.

Perché è proprio questa consapevole comprensione che ritengo sia capace o meglio prepari il counselor ad essere in grado di “ascoltare il cliente oltre le parole” da lui pronunciate, riuscendo a proiettare il loro significato nel mondo interiore (inconscio) del cliente. Potendo così interpretare, traducendo con il filtro della sua propria cultura sociale di appartenenza, la narrazione, giungendo cosi a cogliere in tale modo il disagio e/o il problema presentato o emerso durante il dialogo (colloquio) di counseling.

 

Marco Schiavetta

 

 

1 Cfr. F. D’Egidio, Il valore dell’equipaggio. Strumenti per misurare e valutare il capitale umano, Etas, 2007.

2 M. Buber, Il problema dell’uomo, Patron, Bologna 1972, pp. 205-209.

3 M. Buber, Elementi dell’interumano in Il principio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 311.

4 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, BUR, Milano 2006.

5 H. Ott, Il Dio personale, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 272.

6 Ibidem, p. 274.

7 E. H. Schein, La consulenza di processo. Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 109.

8 G. Mura, Ermeneutica e verità, Città Nuova, Roma 1997 2 ed., p. 269.


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