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Rosangela Pesenti. A chi serve il 7 in condotta?
29 Agosto 2008
 

Penso che da un dettaglio si possa capire l'insieme di cui è fondamento (così è ad esempio il DNA per l'essere umano “in carne ed ossa”) e spesso un particolare che catalizza l'attenzione può essere considerato un sintomo di un processo più complesso e dalle implicazioni più antiche. La divisa, lungi dall'essere una tipologia di abbigliamento utile, al quale si richiamano quelli che ne interpretano la funzione protettiva per i bambini che si sporcano molto (ma allora va bene un grembiule qualsiasi, perfino fatto da sé esercitando abilità dimenticate) è un abito che disciplina il corpo perché ignorando le specificità individuali esalta l'adesione a un modello, tanto che nell'esercito le differenze gerarchiche sono segnalate da piccoli accessori fortemente simbolici e, ma questo è il mio gusto, francamente ridicoli.

Considero perciò la proposta del grembiule-divisa come il sintomo della nemmeno tanto strisciante reintroduzione della disciplina come strumento della relazione tra adulti e minori, non a caso è stata affiancata al decreto di reintroduzione del 7 in condotta come motivo per la bocciatura. Molti, insegnanti ma anche genitori e perfino studenti, trovano che possa essere un'arma efficace per arginare gli episodi di bullismo, periodicamente utilizzati soprattutto dai media per costruire un'immagine di “emergenza scuola” francamente distorta, che serve a cancellare la ben più vasta realtà di buone pratiche condivise a fronte delle solite risorse inadeguate (per usare un eufemismo) che sono invece la vera emergenza. I giovani che prevaricano compagni di classe socialmente più deboli non fanno altro che applicare pedissequamente, e con gli strumenti ancora rozzi che hanno a disposizione, quello che gli adulti insegnano con ogni mezzo: la legittimità della gerarchia sociale per la quale si chiede a gran voce di ristabilire il criterio della meritocrazia come se fosse la quintessenza dell'oggettività.

Vogliamo la meritocrazia? Va bene ma che almeno sia vera e non solo nella scuola, ma soprattutto dopo, nel mondo del lavoro, perché questa favola l'hanno già raccontata.

Non credo infatti che il ritorno delle relazioni di nonnismo dentro i gruppi giovanili, delle forme violente verbali o perfino fisiche nelle relazioni tra i generi, delle forme di persecuzione nei confronti di chi è affetto da una forma di handicap o di un disagio psicologico anche temporaneo, del razzismo nei confronti dei migranti derivino dall'esibizione della violenza ampiamente utilizzata da cinema e TV, queste forniscono semmai la tipologia dei modi, ma non ci sarebbe imitazione se non passasse dal mondo degli adulti un messaggio ben più profondo.

Che cos'è infatti questa meritocrazia che invocano i benpensanti, cioè quegli stessi che esprimono indignazione nei confronti del bullismo invocando gli strumenti della repressione a partire dal 7 in condotta, se non un sistema di regole che definendo i passaggi dell'apprendimento in modo rigido certifica una condizione in modo irreversibile e soprattutto definisce gli sbarramenti che impediscono l'accesso di tutti a quei privilegi che la condizione porta con sé?

A me pare che si stia perdendo la congruenza tra mezzo e fine, tra strumenti e mete, oppure mezzi e strumenti sono perfettamente congruenti con finalità non del tutto dichiarabili.

Le pratiche della collettività scolastica hanno accumulato quella buona dose di esperienza che consente spesso una buona soluzione e il superamento di accadimenti traumatici, anche con una mediazione educativa quasi sempre largamente condivisa, ma ormai nella fatica generale vanno oscurandosi i principi sui quali migliaia di insegnanti hanno costruito negli anni buone relazioni educative e una dignitosa didattica con la collaborazione di allievi e allieve facendo della scuola un luogo civiltà.

Il primo è che la cultura non può essere usata come un'arma per offendere, sottomettere, discriminare, mortificare umiliare ecc. né può essere piegata a pratiche normalmente considerate delinquenziali come il ricatto e soffre nel suo sviluppo e capacità attrattiva anche quando viene piegata a motivazioni di puro opportunismo e/o piccola meschinità del tipo “studia perché il diploma serve”, “cerca di avere il massimo dei voti” e altre simili.

Il secondo è che l'apprendimento richiede una buona motivazione, vale a dire che la conoscenza deve suscitare interesse curiosità passione e presentarsi con quelle caratteristiche di utilità non meschina che consentono alla persona, ragazze e ragazzi bambini e bambine di allargare la propria visione del mondo, le proprie mappe concettuali, di star bene con se stessi e con gli altri.

Da questo deriva che il modo dell'apprendimento deve garantire un equilibrio sostenibile tra fatica e piacere. Ma soprattutto la parte della fatica deve essere giustificata e francamente come facciamo a convincere che studiare serve, quando perfino i grandi del passato non hanno goduto di una vita facile e addirittura oggi i padroni dei media e del potere politico difendono con tracotanza i loro imbrogli furberie meschinità per non dire peggio?

Oggi noi abbiamo una situazione di questo tipo: in quarant'anni la sia pur lenta e faticosa applicazione del dettato costituzionale ha aperto l'accesso alla scuola, prima i gradi inferiori e poi via via quelli superiori fino all'università, alla gran massa della popolazione da sempre esclusa, ma la scuola è rimasta nella sua struttura quella di un tempo e nel frattempo gli insegnanti sono stati socialmente delegittimati nella loro funzione ed emarginati sul piano sociale, mentre la fatica di adattare quelle strutture vecchie a un mondo nuovo, senza vedere riconosciuto il proprio lavoro, ha demotivato molti e convinto al piccolo opportunismo altri.

Invitare gli insegnanti ad usare il voto in condotta come arma repressiva significa ridurli a secondini da quella funzione tutto sommato ancora dignitosa di babysitteraggio sociale delle giovani generazioni, parcheggiate in attesa che ogni famiglia collochi poi i suoi rampolli secondo le proprie possibilità e conoscenze, a cui sono già ridotti oggi.

Se dobbiamo insegnare ad agire per paura e non per senso morale si prepara un futuro ben triste per questo paese.

Ma io spero che insegnanti e alunni facciano allegra creativa e tenace resistenza a questa offesa alla dignità della professione.

 

Rosangela Pesenti


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