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Paolo Veronese. L’illusione della realtà
'Marco Curzio' (Vienna, Kunsthistoriches) 
19 Luglio 2014
 

L’arte di Paolo Caliari detto il Veronese (1528 – 1588) torna nella sua città natale con una mostra dedicata alla sua figura e alla sua opera, fino al 5 ottobre 2014, promossa e organizzata dal Comune di Verona, Direzione Musei d’Arte e Monumenti, insieme con l’Università degli Studi di Verona, la Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, in associazione con la National Gallery di Londra. L’esposizione, allestita nel monumentale Palazzo della Gran Guardia di Verona, si colloca a distanza di ventisei anni dalla rassegna Veronese a Verona tenutasi nel 1988 al Museo di Castelvecchio ed è curata da Paola Marini, direttrice del Museo di Castelvecchio e Bernard Aikema dell’Università degli Studi di Verona.

Molti dei pittori che sono stati protagonisti della splendida stagione del Rinascimento veneziano sono originari di centri minori della Serenissima: Giorgione proviene da Castelfranco, Tiziano da Pieve di Cadore, Jacopo da Ponte da Bassano, Paolo Caliari da Verona. Fra tutti questi, Paolo è quello che ha indubbiamente mantenuto i rapporti più stretti con la città natale, dato che l’ambiente culturale veronese ha inciso profondamente sulla sua personalità artistica, lasciandogli un’impronta indelebile, destinata a costituire la base estetica della sua pittura per tutta la lunga e fortunata carriera. È noto come agli esordi del Cinquecento Verona godesse dal punto di vista artistico di una notevole indipendenza dalla capitale, costituendo un centro assai vivo e autonomo, dove coesistevano diverse culture: da un lato il persistere degli esempi ancora arcaici, legati alla linea tradizionale che Andrea Mantegna giungeva fino a Bellini e a Giorgione, di cui i maggiori rappresentanti in ambito locale erano il Caroto e Antonio Badile, e dall’altro la compresenza di artisti legati alla cultura manieristica, quali il Brusasorci, Angelo Del Moro e Paolo Farinati, che avevano assimilato la lezione dei continuatori di Michelangelo e Raffaello tramite gli esempi di Giulio Romano, attivo a lungo, a partire dal 1524, nella vicina città di Mantova.

Nasce nel 1528 “Paulino pittore”, figlio d’un tagliapietre, come scrive il Vasari, il primo a parlare di Paolo Caliari detto il Veronese come di un giovane artista autonomo e di talento («È in Venezia in bonissimo credito»). Agli inizi del Cinquecento, sotto la Serenissima, Verona si era rinnovata col cosmopolita architetto veronese Sanmicheli (1487 circa- 1559), dotato di una solida cultura classicheggiante. Verona prosperava e in questa felice congiuntura “Paulino” entra nel 1541 nella bottega di Antonio III Badile (1518 – 1560) stimata per ritratti e dipinti religiosi. Collabora anche con Giovanni Caroto (1480 – 1555 circa), specializzato nel disegno di antichità veronesi. E sempre sarà attento osservatore di architetture e antichità fino a “sintonizzare” magistralmente le sue composizioni col contesto architettonico. Agli esordi Veronese collabora con i decoratori delle fabbriche di Sanmicheli, anche fuori città. Nel 1551 è poi a Villa Soranza (Castelfranco Veneto), e in seguito affresca la palladiana villa Barbaro a Maser (Treviso). In quegli anni l’erudito committente della villa, Daniele Barbaro traduce il De architectura di Vitruvio, illustrato da Palladio stesso (1556). In questo clima cresce la fama di Veronese, che è anche un valido disegnatore, aspetto non sempre riconosciutogli ma fondamentale, non solo per comprendere la genesi delle sue composizioni.

Ma per Veronese, soprattutto, non si può far a meno di rievocare una pittura atmosferica, teatralmente concepita nel contesto “sereno della Serenissima”.

Non a caso Roberto Longhi, che amava Veronese («uno dei grandi pittori del mondo»), e detestava Tintoretto, riteneva che agli occhi di Paolo il mondo apparisse semplicemente «come in un arazzo sontuoso e lieve che per un alito di vento, sollevandosi dalla parete, cangi colore» e che «sarebbe stato difficile con tali occhi veder passare, svariando, altro che trionfi e apoteosi».

Nel suo Viatico sulla pittura veneta, saggio memorabile ma per molti versi non più condivisibile, Longhi pare leggere la pittura veronesiana principalmente nella chiave pomposa e lieve della quale già parlava il Ridolfi nel 1648: «Paolino [seconda] la gioia, [rende] pomposa la bellezza, più festevole il riso».

Eppure Veronese era schivo, a dispetto di questa sua pittura “mondana”, anche se risoluto nel difender le licenze «dei poeti e dei matti», come nel noto episodio dell’Ultima cena per il monastero veneziano dei Santi Giovanni e Paolo (ora alle Gallerie dell’Accademia), ritenuta non in sintonia con la morale controriformista, e reintitolata in modo più consono Cena in casa di Levi.

Ed ecco, che a ricomporre tutti questi tasselli di storia in una visione assai più ampia e problematica del grande artista e della sua officina, ha aperto i battenti alla Gran Guardia la splendida mostra di Verona, la più vasta dopo quella del 1939.

Qui sfilano sessantuno dipinti che testimoniano ogni aspetto e periodo dell’attività di Veronese. Altrettanti disegni stanno in puntuale confronto con le tele: allegorie, temi religiosi ma anche ritratti, come Gentiluomo del Getty Museum, ultimo dipinto importante del Caliari ad aver lasciato Verona, nel secondo Ottocento. La figura si presenta abbigliata con una luminosa sinfonia di neri, contro uno sfondo architettonico che è una firma dell’autore e dimostra l’accostabile naturalezza dei ritratti del Veronese, orgogliosi e operosi protagonisti di una società i cui valori furono illustrati dallo stesso artista nei soffitti di Palazzo Ducale.

Veronese mostra non solo altissime qualità pittoriche ma anche un impegno di contenuto religioso e un uso consapevolissimo e simbolico del partito architettonico. Lo si vede nella Cena in casa di Simone (Torino, Galleria Sabauda), che segna il punto d’arrivo del decennio di formazione e il primo esempio del genere dei conviti, poi specialità riconosciuta di Veronese. Oppure nell’incombente Marco Curzio, che dopo il restauro ha rilevato qualità inaspettate. Qui l’illusionismo mantovano è rielaborato sulla falsariga del Giulio Romano di palazzo Te, con grande effetto sullo spettatore, come schiacciato dal cavallo che gli salta addosso.

Ben indagati anche i rapporti con Verona e il territorio, cruciali per comprendere certi orientamenti. Inoltre, le aperture sull’armonioso lavoro di équipe dell’officina, guidata dopo la morte improvvisa del maestro dagli “Heredes Pauli” (il fratello e due figli). Lo si vede nel Convito in casa Levi ora restaurato (da tempo in deposito presso il comune di Verona dalle Gallerie dell’Accademia). Qui Paolo dovette far in tempo a dare lo schema generale e a metter mano solo alla parte destra.

 

Maria Paola Forlani


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